L’IA, ChatGPT e l’invasione dei meme in stile Studio Ghibli: la polemica sul diritto d’autore

Il rilascio dell’ultimo generatore di immagini di ChatGPT ha preso d’assalto il web, dando vita a una serie di meme in stile Studio Ghibli, il celebre studio giapponese noto per i suoi capolavori d’animazione come Il mio vicino Totoro e La principessa Mononoke. In poche ore, i social network sono stati invasi da repliche di scene famose, tutte riproposte con l’inconfondibile estetica Ghibli. Gli utenti hanno chiamato questo fenomeno “Ghiblification”, un termine che ormai spopola su internet, mentre il dibattito si fa sempre più acceso.

Il trend ha conquistato ogni angolo della rete: dalle rielaborazioni di eventi storici, come l’omicidio Kennedy o gli attentati dell’11 settembre, a momenti sportivi iconici, passando per rappresentazioni di figure politiche come Trump e Zelensky. Non solo i creatori indipendenti, ma anche canali ufficiali – come ambasciate e squadre di calcio – si sono uniti al fenomeno, compreso il CEO di OpenAI, Sam Altman, che ha adattato la sua immagine del profilo su X (ex Twitter) allo stile dell’animazione giapponese.

Tuttavia, il fenomeno ha sollevato una serie di problematiche legate al diritto d’autore e all’etica. OpenAI, la società madre di ChatGPT, si è già trovata al centro di controversie legali per l’uso non autorizzato di materiale protetto da copyright, inclusi casi rilevanti con il New York Times e varie denunce da parte di artisti e editori. Alla domanda su come l’uso dello stile Ghibli possa influenzare la proprietà intellettuale dello studio, OpenAI ha risposto che l’azienda sta perfezionando continuamente il modello per consentire la massima libertà creativa, pur evitando l’uso diretto degli stili di artisti viventi.

“Continuiamo a prevenire le generazioni nello stile dei singoli artisti viventi, ma permettiamo gli stili più ampi, che sono stati utilizzati per generare alcune creazioni originali davvero deliziose e ispirate”, ha dichiarato un portavoce dell’azienda. Tuttavia, la rete non sembra cedere facilmente alla diffusione di questo tipo di contenuti. “E’ un insulto all’arte”, ha commentato uno degli utenti, sottolineando la distanza tra l’emozione autentica di un’opera come quella dello Studio Ghibli e la produzione automatica di immagini.

Anche il leggendario regista dello Studio Ghibli, Hayao Miyazaki, ha espresso forti critiche nei confronti dell’intelligenza artificiale. In un video del 2016, Miyazaki ha dichiarato: “Non vorrei mai incorporare questa tecnologia nel mio lavoro. Sento fortemente che questo è un insulto alla vita stessa”. La sua visione, lontana dall’intento di semplificare la creazione artistica, riflette il valore intrinseco della manualità e della passione che caratterizzano le sue opere.

Le polemiche hanno spinto OpenAI a rivedere alcune delle sue politiche. Secondo le ultime linee guida, infatti, non sarà più possibile trasformare immagini esistenti in ritratti in stile Ghibli. Quando gli utenti tentano di farlo, appare un messaggio che limita la possibilità di creare somiglianze di persone reali. Nonostante ciò, rimane ancora possibile generare immagini completamente nuove in stile Ghibli, continuando a suscitare l’entusiasmo di chi apprezza la libertà creativa, ma anche il malcontento di chi considera la perdita di unicità e significato un danno per l’arte.

In un momento di transizione, OpenAI sta lavorando a stretto contatto con il Congresso degli Stati Uniti per spingere affinché l’uso di contenuti protetti da copyright nell’IA rientri nella dottrina del “fair use”, che potrebbe consentire un uso più libero di materiale protetto per scopi di satira e meme. Intanto, la discussione sulla fusione tra arte tradizionale e intelligenza artificiale resta aperta, con gli utenti e i creatori di contenuti divisi tra l’esaltazione della nuova tecnologia e la difesa della tradizione artistica.

In questo scenario, si pone una domanda cruciale: qual è il futuro delle opere d’arte in un mondo sempre più dominato dalla generazione automatica di immagini? Solo il tempo potrà dare una risposta.


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Google acquisisce Wiz per 32 miliardi: un affare tra innovazione e geopolitica

Alphabet, la società madre di Google, ha ufficializzato l’acquisizione di Wiz, startup israeliana specializzata in sicurezza cloud, per 32 miliardi di dollari. Si tratta della più grande operazione nella storia dell’azienda americana, finalizzata a rafforzare Google Cloud nella competizione con Amazon e Microsoft.

Ma l’accordo non è solo una questione economica: Wiz è nata nel 2020 da un gruppo di ex membri dell’Unità 8200, il reparto d’élite dell’intelligence israeliana noto per il suo ruolo chiave nella cybersecurity e nelle operazioni di sorveglianza digitale. Questo legame ha alimentato il dibattito sull’influenza delle tecnologie militari nel mercato civile e sulle implicazioni etiche della sorveglianza globale.

La startup che ha conquistato le big tech

In soli quattro anni, Wiz si è imposta come un leader della sicurezza cloud, offrendo strumenti avanzati per l’identificazione e la prevenzione delle minacce informatiche. Il suo sistema permette di mappare l’intero ambiente cloud di un’azienda, rilevare vulnerabilità in tempo reale e intervenire prima che i dati siano compromessi.

La sua crescita esponenziale ha attirato l’attenzione di big tech e investitori: nel 2023, Google aveva già tentato un’acquisizione per 23 miliardi di dollari, ma il rischio di violazioni antitrust aveva bloccato l’operazione. Ora, con un’offerta ancora più alta e un contesto di mercato mutato, l’affare è stato chiuso, in attesa dell’approvazione delle autorità di regolamentazione.

Il lato oscuro dell’Unità 8200

Dietro il successo tecnologico di Wiz si cela un aspetto meno noto ma cruciale: il suo legame con l’Unità 8200. Spesso paragonata alla NSA americana, questa divisione delle Forze di Difesa Israeliane è specializzata in cyber-intelligence e sorveglianza. Dall’Unità 8200 sono nati numerosi colossi della cybersecurity, tra cui Check Point, Palo Alto Networks e NSO Group (produttrice dello spyware Pegasus).

L’uso delle tecnologie sviluppate dall’Unità 8200 è stato spesso oggetto di controversie internazionali, soprattutto per la loro applicazione nella sorveglianza dei territori palestinesi. Sistemi come Blue Wolf e Red Wolf identificano i cittadini ai checkpoint tramite riconoscimento facciale, mentre spyware come Pegasus è stato utilizzato per monitorare giornalisti e attivisti.

Queste tecnologie, testate nei territori occupati, vengono poi esportate a livello globale con il marchio “combat-proven”. È il caso del Progetto Nimbus, l’accordo da 1,2 miliardi di dollari tra Israele, Google e Amazon per la gestione dei dati e l’analisi della popolazione palestinese.

Un accordo tra affari e geopolitica

L’acquisizione di Wiz da parte di Google non è solo un’operazione commerciale, ma solleva interrogativi più ampi sul rapporto tra big tech e sicurezza globale. Se da un lato il colosso di Mountain View rafforza la sua presenza nel cloud, dall’altro emerge il rischio di una crescente commistione tra tecnologie private e strategie di sorveglianza statale.

Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da tempo l’utilizzo della cybersecurity per il controllo e la repressione. E mentre Google si appresta a integrare Wiz nei suoi sistemi, il dibattito su privacy, libertà e sicurezza nel mondo digitale si fa sempre più acceso.


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OCF: “Criticità urgenti sul processo penale telematico”

Roma, 31 marzo 2025 – Da domani, 1° aprile, le iscrizioni al Registro delle Notizie di Reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica, come previsto dal DM Giustizia n. 206/2024. Tuttavia, l’OCF esprime forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia.

A gennaio, 87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l’Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l’Innovazione). Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi.

Inoltre, l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa. Alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di Parte Civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali.

L’OCF ribadisce il proprio impegno per la digitalizzazione della giustizia, ma senza compromessi sulle garanzie difensive e le regole del giusto processo. Chiediamo interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico. Continueremo a monitorare la situazione per evitare disservizi e pregiudizi ai diritti delle parti processuali.

Così in una nota l’Organismo Congressuale Forense.


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La truffa su WhatsApp: la ballerina e il falso sondaggio, l’ultimo inganno digitale

Dopo il caso del “falso curriculum”, che ha messo in guardia milioni di utenti, una nuova truffa sta imperversando sui telefonini, e questa volta passa attraverso WhatsApp. Il meccanismo è subdolo e sfrutta un inganno che si basa sulla fiducia tra amici. Un messaggio apparentemente innocuo, che arriva da un contatto conosciuto, promette una borsa di studio a una giovane ballerina, se solo si partecipa a un semplice sondaggio.

Il testo del messaggio è chiaro e conciso: “Ciao! Per favore votate per Federica in questo sondaggio, è la figlia di una mia amica.” Segue un link che sembra innocuo, senza alcuna richiesta economica, ma con la garanzia di un amico fidato. “Il premio principale è una borsa di studio per l’istruzione gratuita per tutto il prossimo anno, questo è molto importante per lei. Grazie mille! (e di seguito il link per votare).”

Il passo successivo, però, è quello fatale. Chi clicca sul link viene indirizzato a una pagina che chiede di effettuare il login e, successivamente, di copiare un codice inviato via SMS. A questo punto, i dati dell’utente sono già nelle mani dei truffatori. Il link, infatti, viene inviato automaticamente a tutti i contatti della rubrica WhatsApp della vittima, creando una catena che può diffondersi velocemente.

Il colpo finale avviene quando WhatsApp della vittima si blocca, impedendo di salvare i messaggi ricevuti. L’intero processo si traduce nell’acquisizione dell’account WhatsApp da parte dei cyber-criminali, che possono utilizzarlo per perpetrare ulteriori frodi e accedere ai contatti della rubrica.

La Polizia Postale ha confermato che si tratta di un metodo utilizzato dai truffatori per sottrarre account WhatsApp, sfruttando il servizio di messaggistica per ingannare altri utenti e compromettere la loro sicurezza. La raccomandazione principale in questi casi è quella di verificare sempre l’affidabilità del mittente. Se si riceve un messaggio sospetto, è importante contattare telefonicamente il presunto mittente per verificare che il suo account non sia stato violato.

Le raccomandazioni della Polizia Postale

  • Non cliccare su link sospetti: È fondamentale non aprire link provenienti da fonti non verificate o sconosciute.
  • Verificare sempre con il mittente: Se si riceve un messaggio inaspettato o sospetto, contattare telefonicamente la persona che sembra aver inviato il messaggio per confermare che non sia stata vittima di un attacco.
  • Segnalare i messaggi sospetti: È possibile segnalare i messaggi anomali a WhatsApp, oltre a bloccare il mittente.
  • Evitare di fornire dati sensibili: Non condividere mai informazioni personali o dati sensibili attraverso canali non sicuri.

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Eredità digitale: il decalogo del Notariato per tutelare il proprio lascito online

Con l’avvento della digitalizzazione, la nostra vita quotidiana è sempre più connessa al mondo online. Oltre ai tradizionali beni materiali, come proprietà e conti bancari, oggi possediamo una vasta gamma di “beni immateriali” che hanno valore, affettivo ed economico. I nostri account online, profili social, documenti digitali e perfino le criptovalute sono ormai parte integrante del nostro patrimonio, ma quando non ci saremo più, cosa accadrà a tutto ciò?

In assenza di una legislazione specifica sull’eredità digitale, il Consiglio Nazionale del Notariato ha stilato un decalogo di informazioni utili per tutelare il proprio “lascito digitale”, evitando problematiche e controversie che potrebbero sorgere tra i familiari e gli eredi.

Cos’è l’eredità digitale?

L’eredità digitale comprende tutti quei beni, materiali e immateriali, che ci appartengono nel mondo virtuale, e si suddivide in due categorie principali:

  1. Risorse offline: file personali, software, documenti informatici creati o acquistati.
  2. Risorse online: account di posta elettronica, profili social, piattaforme di e-commerce, account finanziari e criptovalute.

Sebbene questi beni possano avere un valore affettivo, economico o entrambi, la loro gestione post mortem è spesso complessa, soprattutto in mancanza di una legislazione chiara. La situazione si complica ulteriormente quando gli account sono legati a piattaforme estere, che possono rendere difficile determinare la giurisdizione legale e le modalità di risoluzione delle controversie.

I rischi della mancanza di norme

L’assenza di disposizioni precise può comportare difficoltà significative per i familiari del defunto nell’accedere a informazioni o conti importanti. Inoltre, molti servizi online sono soggetti a contratti legali che, a causa della mancanza di specifiche normative europee o italiane, potrebbero portare a controversie internazionali. Gli eredi potrebbero trovarsi di fronte a un vero e proprio “muro digitale”, con difficoltà ad accedere a risorse vitali senza le dovute disposizioni.

Cosa non entra nell’eredità digitale

Non tutti i beni digitali fanno parte dell’eredità. Sono esclusi:

  • beni ottenuti illegalmente o tramite pirateria;
  • account a pagamento con licenza (es. servizi di streaming, software);
  • identità digitale e firme elettroniche;
  • password, che sono considerate solo chiavi di accesso e non beni veri e propri.

Pertanto, semplicemente consegnare le proprie credenziali a una persona di fiducia non è sufficiente a conferirle il diritto di gestione. È necessario redigere disposizioni precise, eventualmente attraverso strumenti giuridici come il mandato post mortem o il testamento.

Le soluzioni per gestire l’eredità digitale

  1. Mandato post mortem: Consente di affidare a una persona di fiducia la gestione dei propri dati digitali, inclusi la loro distruzione o il loro trasferimento a qualcuno in particolare.
  2. Testamento: Rimane il metodo più sicuro per garantire il passaggio di beni digitali di valore economico, come criptovalute o documenti rilevanti.
  3. Impostazioni di contatto erede: Alcune piattaforme consentono di designare un “contatto erede” che possa gestire o eliminare i dati in caso di decesso.

Decalogo per la gestione dell’eredità digitale

Il Consiglio Nazionale del Notariato ha stilato un decalogo con le principali linee guida per la gestione dell’eredità digitale, tra cui:

  • Pianificare in anticipo la successione dei beni digitali, tenendo traccia delle credenziali di accesso e aggiornandole periodicamente.
  • Trattare i conti correnti online come estensioni virtuali dei conti bancari tradizionali, considerando le implicazioni post mortem.
  • Informarsi sulle opzioni offerte dalle piattaforme online per la gestione dei dati in caso di decesso.

La responsabilità del testatore

Solo noi, in qualità di proprietari dei nostri dati digitali, possiamo garantire che le informazioni e i beni a cui abbiamo accesso vengano trasferiti o protetti adeguatamente. Senza le nostre disposizioni, infatti, gli eredi potrebbero trovarsi in difficoltà a causa dell’impossibilità di accedere ai nostri archivi digitali.

La pianificazione dell’eredità digitale non è solo un modo per tutelare i nostri cari, ma anche un atto di responsabilità per non lasciare incompleti i nostri lasciti digitali, che ormai fanno parte integrante della nostra vita. Con un piccolo investimento di tempo nella pianificazione, possiamo evitare complicazioni e assicurarci che il nostro patrimonio online sia trattato con la stessa cura che riserviamo ai beni fisici.


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Banche: risarcimento per gli investimenti sbagliati consigliati anche oltre i dieci anni

La Corte di Cassazione ha introdotto una novità importante in materia di risarcimento per danni derivanti da investimenti finanziari sbagliati consigliati dalle banche. La regola dei dieci anni di tempo massimo per chiedere il risarcimento potrebbe non valere più, con un cambiamento significativo che cambia la data di partenza per il termine di prescrizione.

Secondo la sentenza n. 32226/2024, infatti, il termine decennale per l’azione di risarcimento non decorre più dal momento dell’acquisto dei titoli, ma dal momento in cui l’investitore acquisisce consapevolezza della perdita effettiva subita. Una decisione che potrebbe avere effetti notevoli sui contenziosi in corso, e che si inserisce in un contesto giuridico in cui gli investitori sono spesso in difficoltà nel far valere i propri diritti su contratti finanziari risalenti anche a oltre dieci anni fa.

Il caso delle obbligazioni Lehman Brothers

La sentenza della Corte di Cassazione prende spunto da un caso relativo agli investimenti in obbligazioni Lehman Brothers, effettuati nel 2003 attraverso la Banca Popolare dell’Alto Adige. Gli investitori, con un basso livello di istruzione e scarsa esperienza nel campo finanziario, avevano seguito i consigli bancari, concentrando l’intero loro portafoglio su un unico titolo, amplificando notevolmente il rischio. La banca, pur facendo sottoscrivere agli investitori una clausola che dichiarava la non coerenza dell’operazione con la linea d’investimento concordata, non fornì informazioni adeguate sui rischi legati alla concentrazione del capitale e alla natura delle obbligazioni.

Nel 2008, con il default di Lehman Brothers, il capitale investito subì una perdita quasi totale. Nonostante la scadenza dei titoli nel 2013, gli investitori non ricevettero alcuna restituzione, aggravando la loro situazione finanziaria. Fu solo nel 2014 che gli eredi degli investitori citano in giudizio la banca per chiedere il risarcimento dei danni, invocando la violazione degli obblighi informativi previsti dalla Consob e contestando la scarsa trasparenza nei consigli di investimento.

La decisione della Corte

La Corte ha considerato che la documentazione fornita dalla banca non fosse sufficiente a informare adeguatamente gli investitori sui rischi specifici legati a un investimento così concentrato. La clausola firmata dagli investitori non specificava in modo chiaro se fossero state fornite informazioni esaurienti sui rischi, lasciando gli investitori senza un quadro chiaro delle implicazioni. Inoltre, la Corte ha stabilito che il termine di prescrizione non potesse partire dalla data di sottoscrizione dei titoli, ma dovesse decorrere dal momento in cui gli investitori presero consapevolezza del danno subito.

La decisione della Cassazione è destinata a far riflettere non solo gli investitori, ma anche le banche e gli intermediari finanziari. In futuro, infatti, le istituzioni bancarie dovranno fare molta attenzione alla documentazione e alle informazioni fornite agli investitori, anche molti anni dopo la sottoscrizione dei contratti.

Implicazioni per il settore bancario

Una delle conseguenze più rilevanti della sentenza è che la decisione potrebbe obbligare le banche a conservare la documentazione relativa agli investimenti per un periodo di tempo ben superiore ai dieci anni. In pratica, gli istituti bancari potrebbero essere chiamati a rispondere in giudizio su contratti risalenti a decenni, ma senza più a disposizione tutta la documentazione necessaria per difendersi.

Questa novità potrebbe avere un impatto importante anche sui contenziosi in corso, dove gli investitori hanno già avviato cause contro gli intermediari, ma in molti casi, le banche potrebbero non essere in grado di difendersi in maniera adeguata, in quanto la documentazione potrebbe essere andata perduta o non essere più disponibile.


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Nordio: “Rammarico per non aver ancora riconosciuto costituzionalmente la figura dell’avvocato”

Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha espresso il suo rammarico per non essere ancora riuscito a inserire la figura dell’avvocato nel panorama costituzionale, riconoscendole la stessa identità formale e sostanziale delle altre parti che costituiscono la cosiddetta “cultura della giurisdizione”. Intervenuto con un videomessaggio al Congresso regionale delle Camere penali del Friuli Venezia Giulia, in corso a Palmanova con il titolo “La giustizia è ancor un valore (sociale) condiviso?”, Nordio ha parlato con passione del ruolo fondamentale che gli avvocati ricoprono nel sistema giuridico e ha assicurato che, seppur non ancora attuato, tale riconoscimento dovrebbe arrivare entro la fine della legislatura.

Il Ministro ha sottolineato con forza l’alta considerazione che nutre nei confronti della professione legale, spiegando che questo rispetto non nasce solo da motivi professionali, ma anche dal suo lungo percorso come pubblico ministero. «Ho avuto l’opportunità di vedere da vicino il funzionamento del sistema giuridico, e posso dire con certezza che senza la figura dell’avvocato difensore, ma anche della parte civile quando necessario, il tavolo della giurisdizione risulta zoppo. Un tavolo privo di un elemento fondamentale», ha dichiarato Nordio. L’intervento ha messo in evidenza quanto sia essenziale l’equilibrio tra le tre parti fondamentali del processo: il difensore, l’accusatore e il giudice, senza il quale il processo giuridico perde il suo valore di equità.

Il Ministro ha ribadito la sua critica nei confronti di alcuni colleghi magistrati che parlano di “cultura della giurisdizione” come se questo concetto unisse solo pubblici ministeri e giudici, senza includere l’avvocato. «Quando sento parlare di cultura della giurisdizione solo tra magistrati, mi ribello dal punto di vista logico e giuridico. Il tavolo della giurisdizione è quello che include le tre parti: il difensore, l’accusatore e il giudice», ha continuato Nordio, rimarcando l’importanza del ruolo dell’avvocato in un sistema giuridico equilibrato e giusto.

Nel corso dell’intervento, il Ministro ha anche fatto riferimento al cammino della riforma costituzionale già approvata in prima lettura alla Camera e prossima al voto del Senato. «L’approvazione definitiva della riforma è vicina e confido che si possa arrivare a una seconda lettura rapida. La riforma dovrà poi passare al referendum, non solo perché ciò è richiesto dalla Costituzione, ma anche perché una questione così complessa e sensibile deve essere sottoposta al giudizio del popolo italiano», ha dichiarato Nordio, esprimendo l’auspicio che questo lungo processo legislativo possa concludersi positivamente con il coinvolgimento attivo degli italiani.

La dichiarazione di Nordio arriva in un contesto di crescente dibattito sull’equilibrio delle forze all’interno della giurisdizione e sull’importanza di un riconoscimento formale delle varie figure professionali che contribuiscono alla corretta amministrazione della giustizia. Il Ministro ha, inoltre, evidenziato come il riconoscimento della figura dell’avvocato nella Costituzione rappresenti una parte fondamentale di una riforma più ampia che mira a rafforzare e aggiornare il sistema giuridico, rendendolo più equo e moderno.


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Riforma del processo tributario: la Corte Costituzionale amplia il diritto alla prova in appello

Con la sentenza 36/2025, depositata il 27 marzo, la Corte costituzionale ha modificato alcuni aspetti fondamentali della riforma introdotta dal decreto legislativo 220/2023 in materia di contenzioso tributario, risolvendo le questioni sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di Campania e Lombardia. In particolare, la Corte ha bocciato il divieto assoluto, introdotto dall’articolo 58 del decreto, di produzione delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere nel giudizio di appello, ritenendolo una limitazione ingiustificata al diritto alla prova.

La nuova disciplina, infatti, impediva alle parti di produrre tali documenti anche nel caso in cui non fosse stato possibile farlo in primo grado per cause non imputabili loro. La Corte ha sottolineato che il processo di appello costituisce una “seconda occasione” fondamentale per chi non è riuscito a presentare in prima istanza determinati mezzi istruttori. La decisione si inserisce in un contesto più ampio di riforma che tende ad applicare un modello di gravame a “istruttoria chiusa”, ma che, secondo i giudici costituzionali, non può precludere la presentazione di prove cruciali per la decisione, a meno che non vi siano motivi legittimi di ordine pubblico.

Nonostante ciò, la Corte ha confermato la legittimità del divieto di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato, in quanto la notifica ha un valore essenziale nell’ambito del procedimento tributario, e la sua omissione non può essere sanata in secondo grado, nemmeno se la parte non ha potuto depositarla in primo grado per cause non a lei imputabili.

Infine, la Corte ha anche dichiarato illegittima una disposizione che stabiliva che le nuove regole sulla prova in appello si applicassero ai giudizi già in corso al momento dell’entrata in vigore della riforma, ritenendo tale previsione irragionevole e lesiva della sicurezza giuridica delle parti coinvolte nei procedimenti tributari in corso.


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Trump contro le law firm: attacco senza precendenti

WASHINGTON – Negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, gli avvocati non sono sempre i più amati, spesso bersagliati da battute e pregiudizi. Ma mai come ora, il sistema legale del Paese sta vivendo un attacco senza precedenti da parte dell’amministrazione Trump. Il presidente ha deciso di scatenare una guerra contro il cosiddetto “Big Law”, il potente gruppo di circa 200 studi legali che gestiscono bilanci da centinaia di milioni, se non miliardi, di dollari.

Il 25 febbraio, a meno di un mese dalla fine del suo mandato, Trump ha firmato tre ordini esecutivi che accusano i grandi studi legali di “danneggiare le comunità” e di svolgere attività “disoneste e pericolose”. Un’offensiva che si basa in gran parte sulla convinzione che alcuni studi abbiano difeso i suoi avversari politici, come l’ex segretario di Stato Hillary Clinton o il procuratore speciale Jack Smith, ma anche avvocati che si sono schierati contro i manifestanti di Capitol Hill il 6 gennaio 2021.

L’ATTACCO ALLE POLITICHE DI DIVERSITÀ E INCLUSIONE

Un altro obiettivo della critica dell’amministrazione riguarda le politiche di “Diversity & Inclusion” adottate da molti studi legali. Secondo il governo, l’introduzione di quote per l’assunzione e la promozione di minoranze etniche o di genere violerebbe il Civil Rights Act del 1964, la storica legge contro la discriminazione razziale. La Corte Suprema, recentemente, ha anche stabilito che l’affirmative action, le politiche che favoriscono determinati gruppi, possono discriminare altre categorie, come gli asiatico-americani, a favore dei quali, secondo il governo, queste politiche sarebbero ingiuste.

L’amministrazione ha quindi imposto severe sanzioni a queste law firm: gli avvocati sono stati esclusi dall’accesso agli edifici federali e dai contratti con la pubblica amministrazione. Ma le conseguenze sono ancora più pesanti: le sanzioni includono anche la cancellazione di contratti governativi esistenti, con la minaccia di danneggiare irreparabilmente le law firm che non cederanno alle pressioni.

LA REAZIONE DEGLI STUDI LEGALI

Le reazioni degli studi legali sono state diverse. Una law firm ha ceduto alle richieste del governo, rinunciando alle sue politiche di diversity e promettendo di svolgere gratuitamente 40 milioni di dollari di lavoro per le cause che il governo sostiene. Un’altra ha scelto di mantenere il silenzio, sperando che la tempesta passi, mentre la terza ha presentato ricorso chiedendo l’annullamento del provvedimento governativo.

LA RITORSIONE CONTRO LA DIFESA DEI CLIENTI

Le politiche punitive di Trump non riguardano solo le scelte di assunzione. La vera questione è la vendetta contro gli studi legali che hanno difeso i suoi avversari politici o che si sono opposti alla sua amministrazione. Una reazione che, seppur impopolare, mina le basi stesse della giustizia americana. Gli avvocati, infatti, sono protetti dalla legge nel loro diritto a difendere chiunque, indipendentemente dalle simpatie politiche. L’intervento del governo contro questi avvocati è un attacco alla libertà di difesa, sancita dalla Costituzione americana, e potrebbe avere ripercussioni gravi sulla separazione dei poteri e sui diritti civili.

UN’INTERFERENZA PERICOLOSA

Questo episodio solleva anche interrogativi più ampi. Come sottolinea il presidente di uno degli studi legali coinvolti, con un fatturato di miliardi di dollari e migliaia di avvocati, una lunga battaglia legale con l’amministrazione potrebbe compromettere seriamente la sopravvivenza dello studio. Ma, più in generale, il caso ci ricorda come l’intromissione dello Stato nell’economia possa facilmente sfociare in un intervento nelle libertà politiche e civili. Come ha ammonito l’economista von Mises, “A cosa serve la libertà di stampa se tutte le tipografie sono in mano al governo?”.


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Caos nelle carceri: il DAP senza guida da tre mesi

ROMA – Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), organo chiave per la gestione delle carceri italiane, è senza una guida dal 27 dicembre scorso. Tre mesi di vuoto ai vertici, in uno dei momenti più critici per il sistema penitenziario: suicidi in aumento, sovraffollamento insostenibile e allarme sulla diffusione dei cellulari tra i detenuti.

La nomina del nuovo capo del DAP, che sembrava cosa fatta con la proposta di Lina Di Domenico, è ora in una fase di stallo. Un’impasse che ha origine in un passaggio istituzionale mancato: la candidatura dell’attuale facente funzione è stata annunciata senza un confronto preliminare con il Quirinale, cui spetta la decisione finale.

IL RUOLO CHIAVE DI DELMASTRO

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, da mesi figura centrale nella gestione del sistema penitenziario, è apparso come l’unico riferimento per la polizia penitenziaria anche durante la cerimonia di martedì scorso, in occasione della festa del Corpo. È stato lui, e non un capo ufficiale del DAP, a premiare gli agenti distintisi nel corso dell’anno, segnando di fatto una continuità nella gestione senza una vera transizione di potere.

Secondo fonti vicine al ministero, il nome di Di Domenico è stato fatto circolare con troppa leggerezza, senza l’adeguata condivisione con il Quirinale, e ora la questione è diventata un nodo politico. L’ex capo del DAP, Giovanni Russo, si era dimesso dopo una serie di tensioni interne, acuite dalla sua testimonianza nel caso Cospito, ritenuta decisiva per la condanna dell’anarchico.

SUICIDI E SOVRAFFOLLAMENTO: UNA CRISI SENZA PRECEDENTI

Nel frattempo, la situazione nelle carceri continua a peggiorare. Il 2024 ha già segnato un tragico record con 90 suicidi tra i detenuti, un numero mai raggiunto prima. E il 2025 non sembra iniziare meglio: nei primi tre mesi dell’anno, si sono tolti la vita già 20 detenuti.

Alla drammatica emergenza suicidi si somma il problema cronico del sovraffollamento. Le carceri italiane ospitano oggi circa 60mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 50mila posti. A questo si aggiunge una carenza strutturale di personale: mancano circa 8mila agenti di polizia penitenziaria, come denuncia Gennarino De Fazio, segretario della UILPA Polizia Penitenziaria.

“La situazione è ormai insostenibile – afferma De Fazio – Abbiamo carenze logistiche, strutturali e sanitarie gravissime. E il governo si occupa dell’Albania mentre qui manca un capo delle carceri.”

IL NODO POLITICO E LE INCERTEZZE SUL FUTURO

La nomina di Lina Di Domenico, ritenuta figura competente e stimata, è ora bloccata da un’impasse politica che nessuno sembra in grado di sbloccare. Fonti interne al ministero parlano di un rischio di “bruciatura” per qualsiasi altro nome venga proposto in alternativa.

Il futuro della gestione carceraria appare quindi avvolto nell’incertezza. Mentre il sistema penitenziario continua a implodere sotto il peso della crisi, il DAP resta senza guida e la politica non riesce a trovare una soluzione.


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