Nordio tra riforme mancate e resistenze politiche: la giustizia resta in stallo

“Intendiamo rimodulare i presupposti perché scatti la carcerazione preventiva.” Così, due giorni fa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervistato da SkyTg24, ha rilanciato l’idea di una riforma delle misure cautelari, ritenendo superate le attuali categorie che giustificano il carcere prima del processo: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, e rischio di reiterazione del reato. Un obiettivo ambizioso, ma che appare oggi lontano dalla realizzazione, stretto nella morsa di un contesto politico poco favorevole.

Il tema è tornato sul tavolo ieri alla Camera, durante i lavori della commissione Giustizia. A riaccendere la discussione è stato Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia, con un’interrogazione in cui ha chiesto al governo quali azioni concrete intenda intraprendere a breve per limitare l’abuso della custodia cautelare. I numeri del ministero della Giustizia parlano chiaro: al 31 marzo 2025, su oltre 62mila detenuti, ben 9.271 erano in attesa del primo giudizio.

Il sottosegretario Andrea Delmastro ha riconfermato l’attenzione del ministro Nordio alla questione, ma ha anche ribadito che ogni iniziativa in materia è nelle mani della Commissione Mura, incaricata di elaborare una proposta complessiva di riforma del processo penale. Tradotto: i tempi saranno lunghi.

Calderone, però, non intende aspettare e ha proposto un’accelerazione sull’iter della sua proposta di legge per modificare l’articolo 299 del codice di procedura penale, eliminando — con le dovute eccezioni per mafia, terrorismo e reati sessuali — la reiterazione del reato come motivo per applicare la custodia cautelare. Una strada già disponibile, ma che non trova slancio politico.

Perché? La risposta sta nei delicati equilibri interni alla maggioranza. La riforma della giustizia è diventata merce di scambio nella partita più grande della separazione delle carriere, considerata una priorità assoluta dal governo Meloni. In questo scenario, le proposte più garantiste — retaggio della cultura giuridica berlusconiana — rischiano di apparire troppo “liberali” per l’elettorato sovranista, mettendo a rischio la compattezza della coalizione e, soprattutto, l’esito del futuro referendum.

Non è l’unica battuta d’arresto. Sempre ieri, la proposta di legge per istituire la “Giornata Enzo Tortora” dedicata alle vittime di errori giudiziari non ha ottenuto il via libera in commissione, incagliandosi nella burocrazia parlamentare. Settimana prossima si deciderà se bocciarla o rinviarla, ma in entrambi i casi il rischio concreto è l’archiviazione.

Un altro fronte caro al ministro è la lotta al processo mediatico. Nordio ha dichiarato di voler intervenire sull’istituto dell’informazione di garanzia e sul registro degli indagati, che da strumento di tutela si sarebbero trasformati in strumenti di condanna preventiva e gogna mediatica. La miccia, in questo caso, è stata probabilmente la pubblicazione delle intercettazioni relative al calciatore Nicolò Fagioli, coinvolto in un’inchiesta sulle scommesse.

Ma l’ambizione di Nordio va oltre. Il ministro vorrebbe mettere mano al Codice Rocco, ancora oggi in vigore, eredità del ventennio fascista. Una revisione che punterebbe a ridefinire i concetti di causalità e le scriminanti, riducendo l’area della perseguibilità penale. Un vecchio pallino del Nordio magistrato, che però oggi si scontra con l’atteggiamento opposto di Lega e Fratelli d’Italia, da sempre inclini ad aumentare i reati per ogni nuova emergenza percepita.

Il risultato? Le spinte riformatrici del Nordio “liberale” si scontrano con il pragmatismo politico del Nordio ministro, costretto a mediare tra ideali e convenienze di governo. A dettare la linea è la necessità di non compromettere il referendum sulla separazione delle carriere, ormai diventato la vera posta in gioco per l’esecutivo. E così, ogni altra riforma della giustizia, per quanto urgente e condivisibile, resta appesa a un filo.


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Fondazione UNCC, il presidente Angelini: “Giustizia civile: innovare senza perdere l’equilibrio”

Virginio Angelini, presidente della Fondazione Unione Nazionale Camere Civili, parla di formazione continua, giustizia digitale, intelligenza artificiale e delle prossime sfide della professione forense. Un’analisi lucida su come traghettare l’avvocatura nel futuro, restando fedeli alla sua missione fondamentale: garantire una giustizia efficiente e vicina ai cittadini.

Presidente Angelini, quali sono gli obiettivi della Fondazione Unione Nazionale Camere Civili?

«La formazione continua degli avvocati è un requisito imprescindibile per far fronte alle costanti trasformazioni normative e giurisprudenziali.

Il ruolo della Fondazione è duplice: da un lato, mettiamo a disposizione strumenti formativi all’avanguardia, con programmi di specializzazione che puntano a temi chiave del diritto civile e interdisciplinari; dall’altro, sviluppiamo momenti di confronto e di ricerca che favoriscono lo scambio di esperienze e di best practice, con l’obiettivo di elevare l’intero livello professionale dell’avvocatura civilista. Siamo impegnati nell’organizzazione di convegni, webinar, workshop tematici, pubblicazioni e progetti di studio, assicurandoci che siano sempre orientati non solo all’aggiornamento, ma soprattutto allo sviluppo di competenze innovative.

Il tema della riforma della giustizia civile è sempre centrale. Qual è la posizione della Fondazione in merito alle ultime novità legislative e quali sono, a vostro parere, gli aspetti che necessitano ancora di interventi significativi?

«La Fondazione UNCC accoglie con favore le novità legislative in materia di riforma della giustizia civile, nella misura in cui tali interventi siano fondamentali per rendere il sistema più efficiente, trasparente e vicino alle esigenze dei cittadini. In particolare, la spinta verso la digitalizzazione e la semplificazione dei procedimenti rappresenta un passo avanti significativo, capace di ridurre i tempi e i costi della giustizia, nonché di rendere più agevole la comunicazione tra gli operatori del diritto e le parti in causa.

Vi sono ambiti che necessitano di interventi incisivi?

«Primo fra tutti, è essenziale garantire un’adeguata formazione e un costante aggiornamento professionale per tutti gli attori del processo: magistrati, avvocati e personale amministrativo. Solo in questo modo le innovazioni legislative potranno tradursi in prassi operative efficaci, evitando disparità di interpretazione o di applicazione della norma.

Un secondo aspetto cruciale riguarda l’implementazione di misure che favoriscano la definizione stragiudiziale delle controversie, come la mediazione e l’arbitrato. Questi strumenti, se integrati in modo organico e sostenuti da incentivi concreti, possono contribuire in maniera rilevante alla riduzione dell’arretrato, liberando le corti da un carico eccessivo di cause.»

«La Fondazione UNCC, in linea con la propria missione, sostiene la necessità di proseguire su questa strada e si impegna a promuovere attività di studio, formazione e confronto per accompagnare e supportare al meglio l’evoluzione del nostro sistema di giustizia civile.»

Quali sono, a suo avviso, le principali sfide e opportunità che l’avvocatura civile sta affrontando in questo momento storico?

«La Fondazione UNCC guarda con interesse all’intelligenza artificiale, consapevole che rappresenti una rivoluzione tecnologica di grande impatto nel settore legale e che possa offrire importanti opportunità per la professione forense. In particolare, l’AI può favorire un’accelerazione dei processi di ricerca giuridica e analisi documentale, contribuendo a ridurre i tempi di elaborazione degli atti e liberando risorse che gli avvocati possono dedicare ad attività di maggior valore, come l’approfondimento giuridico e il rapporto diretto con i clienti.

Tuttavia, l’introduzione delle nuove tecnologie comporta anche alcune criticità da non sottovalutare.

«In primo luogo, è fondamentale assicurare la correttezza e l’affidabilità degli algoritmi: le soluzioni basate sull’AI devono essere trasparenti, prive di bias e costantemente verificate da professionisti competenti. In secondo luogo, emerge la necessità di una tutela adeguata dei dati e della riservatezza delle informazioni gestite dalle piattaforme tecnologiche, affinché non venga compromesso il segreto professionale. Infine, occorre evitare che la spinta verso l’automazione si traduca in una standardizzazione eccessiva delle soluzioni legali, a scapito della qualità del servizio e della personalizzazione dell’assistenza.

La Fondazione UNCC ritiene che la chiave per cogliere i vantaggi dell’AI sia la formazione continua: gli avvocati devono acquisire competenze digitali avanzate e saper valutare in modo consapevole le potenzialità e i limiti di questi strumenti. La Fondazione, pertanto, continuerà a promuovere iniziative di studio e confronto per accompagnare la trasformazione tecnologica e garantire che l’innovazione rimanga al servizio di una giustizia civile sempre più efficiente e vicina ai cittadini.»

Si può tentare un bilancio di questa prima fase “pioneristica” di introduzione della digitalizzazione nel processo civile?

«La digitalizzazione del processo civile ha già fornito risultati tangibili in termini di velocità e tracciabilità degli atti, offrendo strumenti come il deposito telematico, la consultazione online dei fascicoli e la possibilità di gestire alcune fasi del procedimento a distanza. Questi progressi hanno contribuito a ridurre i tempi e i costi amministrativi, rendendo il lavoro degli avvocati e l’operatività dei tribunali più efficienti. Tuttavia, il bilancio complessivo è ancora caratterizzato da alcune criticità che devono essere affrontate con urgenza.

In primo luogo, è necessario potenziare le infrastrutture tecnologiche su tutto il territorio nazionale, per garantire uniformità di servizi e ridurre gli episodi di malfunzionamento o rallentamento dei sistemi telematici. In secondo luogo, è indispensabile semplificare ulteriormente le procedure e migliorare le interfacce informatiche, affinché siano realmente intuitive e accessibili a tutti, compresi i professionisti meno avvezzi all’uso di strumenti digitali. Inoltre, un passaggio cruciale è rafforzare la sicurezza dei dati e la tutela della riservatezza, sia attraverso protocolli adeguati sia tramite la formazione specifica del personale e degli operatori.

Infine, è opportuno avviare una riflessione seria sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale, valutandone l’impiego come supporto nella gestione dei fascicoli, nell’analisi documentale e in altre attività a elevato contenuto ripetitivo, senza mai perdere di vista la garanzia di un processo giusto e rispettoso dei diritti di tutte le parti.»

«La Fondazione UNCC continuerà a svolgere un ruolo attivo in questo percorso, promuovendo momenti di confronto e progetti di ricerca che possano consolidare e ampliare i risultati raggiunti, nella prospettiva di costruire un sistema di giustizia civile sempre più moderno, efficiente e al servizio del cittadino.»

Quali sono i progetti futuri della Fondazione in agenda?

«Ci stiamo focalizzando su tre grandi direttrici. Partiamo dall’innovazione digitale e formazione a distanza: la pandemia ci ha insegnato l’importanza di poter contare su piattaforme di e-learning efficaci, che consentano di seguire corsi, seminari e tavole rotonde anche da remoto, garantendo una fruizione flessibile e inclusiva. Svilupperemo ulteriormente i nostri strumenti digitali per rendere più accessibili e personalizzati i percorsi formativi. Importanti sono le collaborazioni interistituzionali: stiamo rafforzando la rete di partnership con università, centri di ricerca e associazioni specialistiche, al fine di offrire opportunità di studio e di scambio di elevato profilo. Vogliamo mettere in contatto avvocati, docenti universitari e esperti del settore per promuovere un dialogo costruttivo e sempre aggiornato. Coltiveremo la formazione di profilo internazionale: l’avvocato civilista oggi deve essere sempre più in grado di interagire con contesti e normative sovranazionali. Intendiamo avviare progetti che guardino alle esperienze estere più virtuose e che aprano canali di confronto con professionisti di altri Paesi, anche attraverso percorsi di specializzazione mirati.»

Di fatto alimenterete una cultura della formazione continua che non sia vista come un mero obbligo deontologico.

«Vogliamo creare opportunità di crescita, che elevino non solo il singolo professionista, ma l’intera comunità degli avvocati civilisti. Siamo convinti che, così facendo, contribuiremo a rendere l’avvocatura civile più solida, autorevole e attenta alle esigenze di una società in continua evoluzione.»


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Incontro Nordio, ANM: “Basta offese e toni di scherno”

“L’incontro con il ministro Nordio è stato un momento di franco confronto al quale abbiamo partecipato con l’aspettativa di avviare un dialogo costruttivo sui temi dell’efficienza. Poiché nessuna interlocuzione può essere realmente proficua, se manca la fondamentale condizione del reciproco rispetto, confidiamo che finalmente cessino offese e toni di scherno ancora indirizzati all’ANM. Abbiamo esposto alcune gravi criticità del sistema giudiziario (come le perduranti disfunzioni degli applicativi informatici, le gravi carenze degli organici di magistrati e personale amministrativo, la solo parziale stabilizzazione degli UPP, le preoccupanti conseguenze della nuova causa dell’improcedibilità nel processo di appello, il sovraffollamento carcerario, la razionalizzazione delle circoscrizioni giudiziarie) che riteniamo abbiano prioritaria rilevanza al fine di garantire un servizio all’altezza delle aspettative dei cittadini tutti”. Lo afferma in una nota la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati.

“Con favore registriamo che il Ministro si sta adoperando per aprire sei nuove residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (REMS), in quanto le strutture attualmente disponibili sono del tutto insufficienti per garantire un adeguato trattamento nei confronti degli imputati affetti da problemi psichiatrici. Così pure apprezziamo l’attenzione mostrata sulla necessità di apportare significative modifiche al ddl sul femminicidio e rimeditare le norme che estendono l’applicazione del rito collegiale e vietano al Pubblico ministero di avvalersi della polizia giudiziaria per raccogliere le dichiarazioni della vittima”.

“Su tutte le altre fondamentali questioni da noi segnalate, dobbiamo però constatare, che il Ministro, pur consapevole della loro assoluta centralità e della piena correttezza dei dati posti a fondamento delle nostre richieste, non ha assunto impegni concreti, adducendo che l’amministrazione non ha le risorse necessarie per effettuare gli interventi indicati, sebbene sia pronto a realizzare una riforma costituzionale dai non trascurabili costi di attuazione che non servirà ad ottenere processi più rapidi. Tale posizione è però motivo di vivo rammarico, perché conferma il timore secondo cui a livello politico non esiste la volontà di dare ai problemi della giustizia ed alla tutela dei diritti fondamentali il primario rilievo che dovrebbero avere in ogni democrazia evoluta, con il rischio di far ricadere ancora una volta sui magistrati la responsabilità di ritardi e disservizi che non sono ad essi in alcun modo imputabili”.

“Esprimiamo altresì rincrescimento perché non c’è la volontà politica di adottare interventi straordinari ed immediati che pongano rimedio alla drammatica situazione del sovraffollamento carcerario, nonostante la consapevolezza che ciò possa tradursi nella lesione dei diritti fondamentali dei detenuti”, conclude la Giunta.


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Colpa medica, l’infermiere deve monitorare anche i pazienti in codice verde

Un infermiere di pronto soccorso non è un medico, ma ha il dovere di sorvegliare attivamente anche i pazienti assegnati a un codice verde. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15076/2025, che ha riconosciuto la responsabilità penale di un infermiere per il decesso di un paziente in crisi asmatica lasciato in attesa per oltre 45 minuti senza un adeguato monitoraggio e senza l’allerta tempestiva al medico di turno.

L’uomo, affetto da gravi episodi di asma, aveva riferito al personale del triage di avere difficoltà respiratorie. Nonostante ciò, gli era stato assegnato un codice verde, e nessun controllo ulteriore era stato effettuato dopo la prima rilevazione dei parametri vitali. L’infermiere, pur avendo rilevato una respirazione difficoltosa e rumorosa, si era basato esclusivamente sul dato dell’ossigenazione – risultato nei limiti – senza considerare l’aggravarsi delle condizioni o valutare altri fattori di rischio come una possibile allergia.

Un monitoraggio attivo è obbligatorio
Secondo la Corte, il comportamento dell’infermiere ha violato le linee guida per il triage stabilite dalla Conferenza Stato-Regioni del 25 ottobre 2021, che impongono il monitoraggio continuo dello stato del paziente e la rivalutazione della situazione in caso di peggioramento. L’errore è stato ritenuto determinante, perché l’intervento medico – tardivo a causa della mancata allerta da parte dell’infermiere – avrebbe potuto evitare l’esito fatale.

Compiti chiari: osservazione e sollecitazione
La Cassazione chiarisce che, pur non essendo tenuto a formulare una diagnosi, l’infermiere ha il dovere di osservare attivamente i sintomi manifesti o riferiti e di considerare le segnalazioni dei familiari o dei soccorritori. Il suo ruolo non si esaurisce nella semplice raccolta dei dati iniziali, ma include la responsabilità di verificare l’eventuale peggioramento delle condizioni del paziente, anche se classificato come non urgente.

Una lezione di responsabilità professionale
Questa sentenza rappresenta un punto fermo sull’importanza del ruolo degli infermieri nel processo decisionale del triage e nella sicurezza dei pazienti. Il codice verde non deve mai tradursi in un’abdicazione al dovere di vigilanza: la cura inizia fin dal primo contatto, e ogni sintomo può evolversi rapidamente.


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Patteggiamento: anche con l’Eppo valgono le stesse regole del rito alternativo

Il patteggiamento resta patteggiamento, anche se la richiesta di rinvio a giudizio arriva dalla Procura europea. A stabilirlo è la Cassazione penale, con la sentenza n. 14835/2025, che ha respinto il ricorso di un ente non profit imputato per illecito amministrativo legato a fondi comunitari ottenuti indebitamente.

L’ente, accusato ai sensi del Dlgs 231/2001 in relazione a una truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, aveva contestato la validità del patteggiamento sostenendo la violazione del diritto a essere sentiti e del diritto di difesa, come previsto dalla Carta europea dei diritti fondamentali e dalla CEDU. Il ricorso si fondava sul fatto che la Camera permanente della Procura europea (Eppo) aveva espresso parere favorevole all’azione penale senza un previo confronto con la difesa.

Ma per la Suprema Corte non c’è margine di dubbio: l’adesione volontaria al rito alternativo implica la rinuncia consapevole a molte prerogative difensive, compreso il diritto all’interlocuzione con le autorità procedenti, sia esse nazionali che europee.

Nessuna violazione, nessuna possibilità di ricorso
Il patteggiamento, ricordano i giudici, non è impugnabile se non per violazione dell’accordo o per illegalità della pena. Le doglianze dell’ente, che miravano a far rilevare una presunta illegittimità dell’azione penale dell’Eppo e a contestare la qualificazione del profitto illecito, sono quindi risultate inammissibili.

La scelta del rito veloce è una rinuncia consapevole
La Cassazione sottolinea che l’adesione al patteggiamento rappresenta una precisa scelta processuale, che comporta benefici in termini di sconti di pena in cambio della rinuncia al pieno esercizio dei diritti difensivi. Una logica prevista dallo stesso legislatore italiano, in linea con le indicazioni europee che spingono verso processi più rapidi e meno onerosi.

Le stesse regole, anche con la Procura europea
Infine, i giudici chiariscono che, anche in presenza dell’Eppo, le regole del gioco non cambiano: l’azione penale promossa dal procuratore europeo segue le stesse dinamiche di quella del pubblico ministero nazionale. E dunque, se si sceglie di patteggiare, non si può più tornare indietro per lamentare un mancato contraddittorio.

La sentenza rappresenta un chiarimento importante per l’applicazione uniforme del rito del patteggiamento nell’ambito della giurisdizione europea, confermando che la semplificazione processuale comporta inevitabilmente alcune rinunce, anche in presenza di organismi sovranazionali come la Procura europea.


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Braccialetto elettronico non disponibile? Niente automatismi: la Cassazione boccia le misure cautelari più gravi “a prescindere”

Se manca il braccialetto elettronico, non è possibile “rimediare” con una misura cautelare più grave solo per prassi. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8379 del 2025, annullando un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Milano nei confronti di un uomo accusato di atti persecutori.

Il caso ruota attorno alla misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.), accompagnata dalla prescrizione del braccialetto elettronico. Il Tribunale aveva previsto che, in caso di non fattibilità tecnica del dispositivo, si sarebbe applicata in automatico una misura più afflittiva: il divieto di dimora.

Una clausola ritenuta illegittima dalla Suprema Corte, che ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2024: il giudice, di fronte all’indisponibilità del braccialetto elettronico, non può disporre automaticamente misure più gravi. Deve invece procedere a una nuova e puntuale valutazione delle esigenze cautelari, applicando – se del caso – anche misure meno restrittive.

“Stop agli automatismi”
Le Sezioni Unite penali avevano già affermato questo principio con la sentenza n. 20769 del 2016, evidenziando che ogni misura cautelare deve essere valutata in base a idoneità, necessità e proporzionalità. Automatismi – sia in senso peggiorativo che migliorativo – sono contrari alla logica del sistema penale.

Le novità normative del 2025
A rafforzare questa impostazione interviene anche il nuovo art. 7 del D.L. n. 178/2024 (convertito nella legge n. 5/2025), che:

  • Modifica l’art. 275-bis c.p.p., estendendo la verifica della disponibilità del braccialetto anche alla fattibilità operativa;
  • Integra l’art. 276 c.p.p., permettendo la custodia cautelare in carcere solo in presenza di condotte gravi o reiterate che compromettano il funzionamento del dispositivo;
  • Introduce l’art. 97-ter nelle norme di attuazione, disciplinando modalità e tempi dell’accertamento preliminare, demandato alla polizia giudiziaria.

Il principio cardine resta uno: non è l’assenza dello strumento a giustificare automaticamente un aggravamento della misura cautelare. Ogni decisione deve passare attraverso un vaglio concreto e individualizzato, rispettoso dei diritti dell’indagato e dei principi costituzionali.


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Intercettazioni, la stretta della legge Zanettin: garantismo contro efficientismo

È un nuovo terreno di scontro quello che si è aperto tra il Parlamento e la magistratura associata, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge 31 marzo 2025, n. 47 – meglio nota come “legge Zanettin” – che modifica la disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione. La norma, approvata definitivamente alla Camera il 19 marzo scorso, entrerà in vigore il prossimo 24 aprile, ma già alimenta un acceso dibattito tra garantismo e efficientismo nel processo penale.

La legge introduce un limite massimo di 45 giorni alla durata complessiva delle intercettazioni nel regime ordinario, prorogabile solo se l’assoluta indispensabilità della misura è giustificata da «elementi specifici e concreti», oggetto di «espressa motivazione» da parte del Pubblico Ministero e sottoposti al vaglio del Giudice.

Un passaggio che, secondo la Giunta Unione Nazionale Camere Penali e l’Osservatorio Doppio Binario e Giusto Processo, rappresenta un tentativo chiaro di riequilibrare il sistema investigativo, ponendo un argine all’uso distorto delle intercettazioni e restituendo centralità al Giudice nel controllo della legalità e proporzionalità della misura.

Ma la reazione della magistratura associata è stata tutt’altro che conciliante. Il timore, dichiarato, è che il nuovo termine possa limitare l’efficacia delle indagini preliminari, generando un sistema troppo rigido e asimmetrico rispetto ai tempi lunghi concessi per l’intera fase investigativa.

Una posizione che, agli occhi dei firmatari della nota, tradisce «un’insofferenza verso ogni forma di controllo effettivo del Giudice sull’operato del Pubblico Ministero». È proprio questo, sottolineano, il nodo cruciale: «la novità vera è la richiesta di una reale motivazione, un onere rafforzato che eviti automatismi e garantisca la terzietà del Giudice».

Il nuovo art. 267, comma 3, c.p.p., diventa così uno snodo centrale del bilanciamento tra l’efficacia investigativa e i diritti fondamentali. Non solo dell’indagato, ma anche – e soprattutto – dei terzi estranei ai fatti oggetto d’indagine, sempre più spesso coinvolti da captazioni invasive.

Sul piano sistemico, la legge viene letta come una risposta alle censure della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel 2023, aveva condannato l’Italia per la mancanza di adeguate garanzie rispetto alla privacy di soggetti estranei alle indagini.

Tuttavia, la Giunta solleva anche perplessità su alcuni aspetti della riforma: mancano disposizioni transitorie che chiariscano l’applicazione ai procedimenti già in corso, e restano incertezze sull’ambito temporale entro cui debbano emergere gli elementi giustificativi della proroga.

E poi c’è il rischio opposto: che, mentre si limita il regime ordinario, si continui ad ampliare senza freni quello speciale previsto dall’art. 13 del D.L. n. 152/1991, già esteso a una vasta gamma di reati anche solo “assimilati” alla criminalità organizzata o al terrorismo. Una deriva che alimenta il timore delle “intercettazioni eterne” e di una normativa d’eccezione diventata la regola.

Non è un caso che, dopo che la Corte di Cassazione nel 2022 aveva ristretto l’ambito di applicazione del regime speciale, il legislatore sia prontamente intervenuto con una norma di interpretazione autentica per “riaprire gli argini”.

Secondo la Giunta, serve tornare allo spirito originario delle intercettazioni: uno strumento di ricerca della prova, non un mezzo generalizzato di investigazione preventiva. E l’efficacia delle nuove norme dipenderà in gran parte dalla capacità del Giudice di esercitare pienamente il proprio ruolo di garante, senza “appiattimenti” sulle richieste del P.M., come accaduto in passato anche con le misure cautelari.

In definitiva, la legge Zanettin tenta di ripristinare un equilibrio costituzionale troppo spesso sacrificato in nome dell’efficienza investigativa. Ma per realizzare davvero un processo giusto serve una svolta culturale nella giurisdizione: «un Giudice terzo – si legge nella nota – che non condivida gli scopi del P.M., ma li sorvegli, in nome dei diritti di tutti i cittadini».


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Sta per concludersi con una finale carica di emozioni la quinta edizione del “Torneo della Disputa – Dire e Contraddire”, il progetto nato nel 2017 dalla collaborazione tra Consiglio Nazionale Forense (CNF) e Ministero dell’Istruzione e del Merito, con l’obiettivo di promuovere tra gli studenti la cultura del confronto, della legalità e dell’argomentazione.

Il torneo, che quest’anno ha coinvolto oltre 50 scuole secondarie di secondo grado e più di 2.000 studenti, ha visto schierati 39 Ordini degli avvocati in veste di formatori, mentori e membri delle giurie. Dopo intense semifinali svoltesi in contemporanea a Venezia, Livorno e Napoli, sono tre le squadre finaliste: Torino, Palermo e Pescara, che si contenderanno il titolo il 21 maggio presso la sede del CNF a Roma, in via del Governo Vecchio.

Le squadre finaliste

Per Torino hanno partecipato i licei “Cavour”, “Gioberti” e il “Convitto Umberto I”.
Palermo è rappresentata dal liceo classico “Vittorio Emanuele” e dal liceo scientifico “Don Bosco Ranchibile”.
Pescara schiera una squadra composta da 12 studenti dei licei classico e scientifico “Leonardo da Vinci” e dell’istituto “Aterno-Manthone”.

Il progetto – spiega Federica Santinon, coordinatrice della Commissione progetti di educazione alla legalità del CNF – nasce per educare al confronto democratico, insegnando ai ragazzi a sostenere le proprie opinioni con rigore, rispetto e senso critico, anche sui temi più complessi del diritto e della cittadinanza.

Legalità, parola e pensiero critico

Il protocollo d’intesa tra CNF e Ministero prevede percorsi formativi e di orientamento con il coinvolgimento attivo degli Ordini forensi territoriali, finalizzati a rafforzare nei giovani la consapevolezza del ruolo dell’avvocato, non solo nel processo, ma come attore della vita democratica.

«Le scuole e i ragazzi hanno risposto con entusiasmo straordinario», commenta Santinon. «Abbiamo visto passione, preparazione e un livello altissimo di impegno. Le giurie hanno avuto il compito difficile di scegliere tra performance di altissimo livello. Gli studenti hanno discusso con forza e con grazia, trasformando le parole in pensieri lucidi e in emozione pura».

Il progetto è ispirato a una visione alta dell’educazione alla democrazia, come ricordano anche le parole scelte per questa edizione dal CNF: la celebre frase di Piero Calamandrei – «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della magistratura e della Corte costituzionale» – e una riflessione provocatoria del francescano Paolo Benanti, uno dei massimi esperti italiani di Intelligenza Artificiale: «Più dell’intelligenza artificiale ho paura della stupidità naturale».

La parola che forma e trasforma

“Dire e Contraddire” si fonda su un’idea semplice e potente: insegnare a dire e ad ascoltare, a costruire argomenti solidi, ma anche ad accettare il punto di vista dell’altro. In un’epoca in cui il dialogo è spesso sacrificato al confronto urlato, il torneo restituisce centralità al linguaggio come strumento di comprensione reciproca e cittadinanza attiva.

Santinon rivolge un ringraziamento speciale agli avvocati e ai Coa territoriali che hanno creduto nel progetto: «Stanno svolgendo una funzione sociale fondamentale, portando nelle scuole la Costituzione, il rispetto delle idee e l’importanza del confronto. I ragazzi ci hanno dimostrato che la parola, usata con onore, può ancora emozionare, muovere coscienze, e produrre idee».

La finale del 21 maggio sarà l’atto conclusivo di un percorso di crescita collettiva. Ma il seme è stato gettato: la cultura del dibattito e della legalità può diventare contagiosa, soprattutto se coltivata con passione e fiducia nel potere delle nuove generazioni.


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Disinformazione e Legal Marketing: il Fact-Checking diventa bussola etica (e istituzionale)

Nel mondo della comunicazione legale, la verifica dei fatti non è più un’opzione. È una responsabilità. A ricordarlo è stato l’International Fact-Checking Day, promosso dalla International Fact-Checking Network (IFCN) con un messaggio che non lascia spazio a dubbi: #FactCheckingIsEssential.

In un ecosistema informativo in cui miliardi di contenuti circolano in tempo reale, la credibilità professionale si costruisce con rigore, trasparenza e tempestività. E per gli studi legali, che spesso operano sotto i riflettori dei media o gestiscono crisi reputazionali delicate, il fact-checking diventa una pratica strategica.

Il fact-checking entra nella routine degli studi legali

Verificare le informazioni non è più solo compito di giornalisti o debunker. Per chi lavora nella comunicazione giuridica, la disinformazione è una minaccia concreta: una dichiarazione imprecisa può generare malintesi, alimentare polemiche, o addirittura esporre a contenziosi.

Durante la pandemia da COVID-19, la portata del fenomeno è emersa con forza: dalle bufale sui vaccini alle teorie complottiste, il dilagare di fake news ha mostrato quanto siano necessarie strategie di contenimento e verifica, anche nel contesto legale.

Due modelli a confronto: USA vs Europa

A livello internazionale, si delineano due approcci contrapposti. Negli Stati Uniti, Meta ha interrotto le collaborazioni con i fact-checker su Facebook e Instagram, rimpiazzandoli con le “note di comunità”, lasciando agli utenti il compito di interpretare le informazioni. Una mossa che, secondo Mark Zuckerberg, salvaguarda la libertà d’espressione ma aumenta il rischio di disinformazione.

L’Europa, invece, va in direzione opposta: il Digital Services Act ha introdotto i Trusted Flaggers, enti riconosciuti e incaricati di segnalare contenuti illegali o dannosi con priorità alle piattaforme. Una forma di regolazione pubblica che punta sulla responsabilità istituzionale.

La reputazione è la nuova priorità

Secondo il Report Comunicazione 2024, l’88% dei responsabili comunicazione considera la reputazione aziendale come priorità strategica. In questo scenario, il fact-checking diventa un’arma difensiva ma anche uno strumento proattivo.

Tra le piattaforme più utilizzate per la verifica troviamo: Facta.news – progetto di Pagella Politica per contrastare le bufale virali; NewsGuard – sistema di valutazione delle fonti; Google Fact Check Explorer – aggregatore di contenuti verificati; CrowdTangle – utile per il monitoraggio della viralità; Trusted Flaggers – infrastruttura legale UE in fase di implementazione.

Strategie concrete per gli studi legali

Per affrontare efficacemente la sfida della disinformazione, gli studi legali dovrebbero: monitorare attivamente le conversazioni online con strumenti come Talkwalker o Mention; Implementare procedure interne di verifica delle fonti prima della pubblicazione; Investire nella formazione continua dei team comunicazione; Comunicare in modo chiaro e accessibile per evitare incomprensioni; Adottare un approccio di thought leadership, pubblicando contenuti autorevoli.

Tecnologia e limiti etici

L’intelligenza artificiale e il machine learning stanno trasformando il fact-checking, accelerando i tempi di verifica. Ma la componente umana resta centrale: il contesto culturale e la sensibilità etica non si lasciano interpretare facilmente da un algoritmo.

Il vero nodo sta nel bilanciamento tra automazione e responsabilità umana. Quanta fiducia possiamo riporre nella tecnologia? E quanta ne dobbiamo restituire alle istituzioni e alla consapevolezza dei professionisti?

Il fact-checking non è una moda passeggera, ma un pilastro della comunicazione etica. Per gli studi legali, significa proteggere la propria reputazione oggi e difendere il valore del diritto alla verità domani. Un impegno che va oltre il marketing, toccando i principi stessi del diritto e della convivenza civile.


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Avvocati, la ripartizione degli utili si può cambiare a maggioranza

La ripartizione degli utili in uno studio associato tra avvocati può essere modificata a maggioranza, purché lo statuto non imponga esplicitamente il requisito dell’unanimità. A stabilirlo è la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 9782 depositata il 15 aprile 2025, che conferma quanto deciso dalla Corte d’appello di Roma.

Il caso nasce dal ricorso di un socio fondatore contro la modifica delle percentuali di distribuzione degli utili dello studio legale per l’anno 2015. Secondo il ricorrente, ogni variazione avrebbe richiesto il voto unanime dei soci fondatori, in base a quanto previsto dallo statuto. Tuttavia, la Corte ha escluso questa interpretazione, affermando che lo statuto distingue chiaramente tra la determinazione dell’ammontare complessivo degli utili, soggetta all’unanimità, e la ripartizione percentuale tra i soci, per la quale è sufficiente una delibera a maggioranza.

Nel dettaglio, l’articolo 14 dello statuto associativo riserva ai soci fondatori la decisione unanime sull’ammontare degli utili da distribuire, ma non impone vincoli specifici sulla modalità di distribuzione delle percentuali, che possono quindi essere ridefinite a maggioranza, salvo accordi diversi. L’Allegato A al contratto sociale prevedeva inizialmente una distribuzione fissa (due soci con il 32% ciascuno, uno con il 20% e uno con il 16%), ma la Corte ha sottolineato che le percentuali non sono fisse né intoccabili, specie se in passato erano già state modificate annualmente sulla base dei contributi professionali effettivi.

Anche la Corte d’appello di Roma aveva rigettato la tesi del ricorrente, osservando che l’articolo 23 dell’atto costitutivo, relativo alle modifiche dei patti associativi, non si applicava al caso di specie. La Cassazione ha confermato questa lettura, sottolineando che, in assenza di clausole statutarie che richiedano una maggioranza qualificata o l’unanimità, vale la regola generale prevista per le decisioni dell’assemblea dei soci: la maggioranza dei voti per teste.

In conclusione, la decisione chiarisce un punto delicato nella gestione delle associazioni professionali: la possibilità di ridefinire i criteri di distribuzione degli utili in modo dinamico e proporzionato agli apporti effettivi dei singoli professionisti, senza dover passare necessariamente da un voto unanime. Un principio che rafforza l’autonomia negoziale degli studi associati e ne valorizza la flessibilità operativa.


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