Riscossione, la Commissione propone lo stralcio di 408 miliardi e più poteri di accesso ai conti correnti

Roma, 17 settembre 2025 – Una montagna di debiti fiscali mai riscossi, che pesa per 1.272 miliardi di euro, rischia di travolgere il sistema della riscossione. La Commissione tecnica istituita per analizzare il “magazzino” dell’ex Equitalia propone un taglio radicale: cancellare 408,5 miliardi di crediti ritenuti irrecuperabili e rafforzare allo stesso tempo i poteri dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione per colpire chi evade davvero.

Secondo i dati presentati, le cartelle destinate a essere stralciate riguardano 9,3 milioni di contribuenti e oltre 27 milioni di posizioni, con una media di 44mila euro a testa. Si tratta in gran parte di somme riferite a persone fisiche decedute, società cancellate, soggetti falliti o posizioni ormai prescritte. A pagare il prezzo più alto sarebbe l’Erario, con oltre 347 miliardi di euro da eliminare, ma anche INPS (38 miliardi) e Comuni (5 miliardi) dovrebbero rinunciare a incassi ormai considerati solo teorici.

La relazione della Commissione non si limita allo “sfoltimento” dei conti. Viene tracciata una vera e propria strategia per il futuro:

  • Accesso esteso ai dati bancari, non solo per verificare l’esistenza di un conto ma anche la sua effettiva consistenza, pur nel rispetto della privacy;

  • Utilizzo dei dati della fatturazione elettronica, così da pignorare crediti vantati dai contribuenti verso terzi in modo rapido e mirato;

  • Digitalizzazione delle notifiche tramite piattaforma SEND, con riduzione degli adempimenti preliminari;

  • Limiti all’uso dilatorio delle rateizzazioni, spesso usate solo per guadagnare tempo;

  • Rafforzamento degli organici dell’Agenzia, con l’assunzione di personale specializzato in materia informatica e gestionale.

Un passaggio centrale riguarda la programmazione dei controlli: troppo spesso, come rilevato dalla Corte dei conti, le verifiche si concentrano su soggetti che finiscono per non pagare, rendendo inefficace l’impiego delle risorse. Nel 2023 quasi il 40% delle maggiori imposte accertate riguardava contribuenti che non avevano né aderito né contestato, con il risultato di cartelle destinate a restare inevase.

Per la Commissione, dunque, occorre cambiare radicalmente approccio: dare priorità a chi può realmente pagare e archiviare rapidamente le posizioni senza chance di incasso. Solo così, sostengono i tecnici, sarà possibile liberarsi da un sistema che negli ultimi vent’anni ha prodotto un arretrato enorme e reso la riscossione inefficace.

La palla ora passa alla politica, che dovrà decidere se seguire la strada indicata dai tecnici o continuare con le periodiche “rottamazioni delle cartelle”. Con una certezza: senza una riforma strutturale, il rischio è di accumulare nuovo debito mentre si cerca di cancellare quello vecchio.

Riscossione, svolta sui crediti inesigibili: stralcio da 408 miliardi e accesso ai conti correnti
La relazione della commissione tecnica propone pignoramenti più rapidi grazie ai dati della fattura elettronica e priorità ai debitori realmente solvibili

Il magazzino della riscossione potrebbe presto alleggerirsi di un peso enorme: 408,5 miliardi di crediti ormai giudicati irrecuperabili, accumulati in oltre 27,6 milioni di cartelle esattoriali a carico di circa 9,3 milioni di contribuenti. Una media di 44mila euro a testa che, secondo la commissione tecnica incaricata di elaborare proposte, rappresenta un fardello ingestibile e destinato a non produrre mai entrate effettive per lo Stato.

La relazione finale, appena completata, indica due linee di azione. Da un lato, lo stralcio dei crediti inesigibili, così da liberare risorse e concentrare l’attività della riscossione su posizioni realisticamente esigibili. Dall’altro, un deciso rafforzamento degli strumenti investigativi e operativi a disposizione dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione: accesso alla Superanagrafe dei conti correnti, consultazione massiva dei rapporti finanziari e utilizzo dei dati della fattura elettronica per intercettare eventuali crediti vantati dal contribuente verso terzi, così da procedere immediatamente al pignoramento.

La strategia punta a rendere la riscossione più rapida e mirata: niente più atti di intimazione multipli, notifiche digitali attraverso la piattaforma SEND, e limiti all’abuso delle rateizzazioni, spesso usate solo per rinviare i pagamenti.

Secondo la commissione, occorre anche cambiare approccio nella programmazione dei controlli: concentrare le verifiche su soggetti realmente in grado di versare quanto dovuto ed evitare di disperdere energie su posizioni destinate a rivelarsi infruttuose. Non a caso, i dati della Corte dei conti mostrano come nel 2023 quasi il 40% delle maggiori imposte accertate derivasse da contribuenti che poi non hanno né aderito né contestato gli accertamenti, finendo col lasciare in sospeso debiti difficilmente esigibili.

Il risultato atteso? Una riscossione meno dispersiva, capace di colpire chi può pagare davvero, liberando al contempo il sistema da un enorme “magazzino” di cartelle fantasma che finora hanno solo ingolfato i bilanci dello Stato.


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Cassazione: la presenza di minori non blocca lo sfratto

Roma. Non è un precedente vincolante, ma la sentenza depositata dalla Corte di Cassazione rischia di segnare una svolta nel delicato tema delle occupazioni abusive. I giudici del terzo grado hanno stabilito che la presenza di minori o di persone vulnerabili all’interno di un immobile occupato non può essere motivo sufficiente per sospendere a tempo indeterminato l’esecuzione di uno sfratto.

Il caso riguarda una donna di Firenze, proprietaria di un capannone di circa 700 metri quadrati, occupato abusivamente da una trentina di persone fin dal 2013. Nonostante le ordinanze di sgombero, l’esecuzione è stata rinviata per anni a causa della presenza, tra gli occupanti, di bambini e disabili. Solo nel 2018 il Comune aveva proposto una sistemazione alternativa, ma nel frattempo la proprietaria aveva subito pesanti danni economici: avrebbe voluto ristrutturare e affittare l’immobile.

La decisione della Suprema Corte

Accogliendo il ricorso, i giudici hanno stabilito un principio chiaro: il proprietario non può farsi carico delle emergenze sociali, che spettano invece allo Stato e agli enti pubblici affrontare. «La pubblica amministrazione tiene una condotta illecita se ritarda o rifiuta di dare esecuzione a un provvedimento giudiziario», hanno scritto i magistrati.

La conseguenza è stata la condanna al risarcimento: alla donna dovranno essere riconosciuti oltre 180 mila euro per il danno subito in cinque anni di mancato utilizzo dell’immobile.

Implicazioni per il futuro

La sentenza non crea diritto nuovo – l’Italia non è un Paese di common law – ma rappresenta una forte indicazione per giudici, ufficiali giudiziari e pubbliche amministrazioni. Potrà dunque essere richiamata in casi analoghi, rafforzando la tutela della proprietà privata e limitando la prassi dei rinvii sine die quando si tratta di famiglie con minori.

Resta fermo che la questione abitativa è un problema sociale serio, ma la Cassazione ha ribadito che non può essere scaricato sui singoli cittadini, già tenuti a contribuire con la tassazione.


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Italia protagonista nel diritto dello spazio: la nuova frontiera tra legge, tecnologia e politica

Lo spazio non è più dominio esclusivo degli Stati. Accanto alle grandi agenzie governative, il settore vede oggi la crescente presenza di operatori privati che, come dimostrano i casi di SpaceX di Elon Musk e Blue Origin di Jeff Bezos, hanno assunto un ruolo di primo piano nella corsa al cosmo. In questo scenario, l’Italia si colloca tra i Paesi più avanzati grazie all’adozione della legge 13 giugno 2025, n. 89, che disciplina per la prima volta l’economia dello spazio e fissa regole chiare per autorizzazioni, trasparenza e sostenibilità.

Un riconoscimento della capacità italiana è arrivato anche dall’estero: poche settimane fa, il governo francese ha concesso ad Avio, società privata italiana, la licenza decennale per gestire i lanci del razzo Vega dal centro spaziale della Guyana francese, al fianco della storica Arianespace.

Una cornice internazionale e un primato europeo

La normativa italiana si fonda sul principio cardine fissato dall’articolo VI dell’Outer Space Treaty del 1967: ciascuno Stato deve garantire che i propri operatori privati rispettino le norme applicabili alle attività spaziali. Con la legge 89/2025, l’Italia ha colmato un vuoto normativo e, di fatto, anticipato l’Unione Europea, che solo lo scorso giugno ha presentato la proposta di regolamento European Space Act. Quest’ultima, però, non entrerà in vigore prima del 2030, mentre l’Italia ha già posto le basi di un sistema nazionale operativo.

La legge introduce requisiti stringenti di sostenibilità, elevati standard di sicurezza e un regime di autorizzazioni pensato per integrare pubblico e privato. Tuttavia, molte questioni cruciali sono rinviate ai decreti attuativi, ancora in fase di elaborazione.

I nodi irrisolti

Tre sono le principali criticità aperte.

  1. Il confine tra spazio e atmosfera.
    La linea di Kármán, a 100 km sopra il livello del mare, è generalmente considerata il limite tra aeronautica e spazio. Ma la realtà è più complessa: la legge italiana classifica come spaziali le piattaforme stratosferiche (che operano tra i 18 e i 50 km) e sembra includere anche i voli suborbitali, destinati a decollare e atterrare dagli spazioporti. Un settore, questo, dove l’Italia gioca d’anticipo: l’Enac ha firmato un accordo con Virgin Galactic per i voli dal futuro spazioporto di Grottaglie, in Puglia. Resta però da chiarire chi avrà la competenza regolatoria definitiva: Asi o Enac?

  2. L’ambito di applicazione territoriale.
    La legge italiana adotta un doppio criterio: autorizza sia le attività spaziali svolte sul territorio nazionale, indipendentemente dalla nazionalità dell’operatore, sia quelle condotte da operatori italiani all’estero. Una scelta che amplia la giurisdizione, avvicinando l’Italia alla Francia, ma diversa dall’approccio olandese, che applica il criterio territoriale in modo più restrittivo.

  3. Il coordinamento con altre leggi nazionali.
    Resta complesso armonizzare la disciplina spaziale con norme già vigenti come la legge 241/1990 sul procedimento amministrativo e il Decreto legge 21/2012 sul golden power, che attribuisce al governo poteri speciali in settori strategici. La convivenza tra queste norme e la legge 89/2025 dovrà essere chiarita con i decreti attuativi.

Una sfida di governance globale

Il cammino dell’Italia nel diritto dello spazio rappresenta un passo decisivo per governare un settore in rapida espansione, la cosiddetta space economy, che ormai vale centinaia di miliardi a livello mondiale. Le regole non hanno soltanto una funzione tecnica, ma anche geopolitica: garantire trasparenza e sicurezza significa infatti incidere sugli equilibri futuri tra Stati, agenzie e operatori privati.

Con la legge 89/2025 l’Italia ha scelto di collocarsi in posizione di avanguardia, ma molto dipenderà dalla rapidità e dall’efficacia con cui verranno sciolti i nodi ancora irrisolti. Perché nello spazio, più che altrove, le regole sono il vero motore che decide chi può correre e chi resta indietro.


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Musk scommette su Tesla: maxi acquisto di azioni per 1 miliardo di dollari

New York. Un gesto simbolico e al tempo stesso concreto: Elon Musk ha investito circa 1 miliardo di dollari per acquistare 2,57 milioni di azioni Tesla sul mercato aperto, la più grande operazione personale mai compiuta dal patron della casa automobilistica americana. La notizia ha immediatamente spinto il titolo a Wall Street, dove ieri ha chiuso in rialzo del 6%.

Si tratta del primo acquisto diretto di Musk dal febbraio 2020 e di un’operazione rarissima: l’ultima volta si era limitato a poco più di 200 mila azioni, per un valore intorno ai 10 milioni di dollari. Stavolta la cifra è di ben altra portata e il mercato l’ha interpretata come un forte segnale di fiducia nelle prospettive del gruppo.

Una mossa inattesa dopo le vendite del 2022

Il gesto appare ancora più significativo se si considera che nel 2022 Musk aveva ceduto oltre 20 miliardi di dollari di azioni Tesla per finanziare l’acquisizione di Twitter (oggi X). Ora invece inverte la rotta, puntando nuovamente sull’azienda che resta il fulcro del suo impero industriale, in cui detiene circa il 13% delle quote.

Tra difficoltà e nuove scommesse

L’acquisto arriva dopo una prima parte dell’anno complicata: le vendite globali di veicoli Tesla sono calate del 13%, con segnali di debolezza nei principali mercati. In Cina, le spedizioni dalla fabbrica di Shanghai sono scese nei mesi estivi; in Europa, le immatricolazioni hanno registrato un andamento in flessione; negli Stati Uniti, secondo Cox Automotive, la quota di mercato dei veicoli elettrici del marchio è scesa sotto il 40% ad agosto.

A pesare è anche la decisione di Washington di eliminare gli incentivi federali all’acquisto di auto elettriche entro fine mese, scelta che rischia di incidere sulle vendite nei prossimi trimestri.

I nuovi orizzonti

Musk, tuttavia, guarda oltre. Nelle ultime dichiarazioni ha ribadito l’impegno verso i robotaxi e i robot umanoidi, progetti che definisce cruciali per il futuro di Tesla. Ha però avvertito che l’azienda dovrà affrontare “alcuni trimestri difficili” prima di vedere i frutti di queste innovazioni.

Un messaggio agli azionisti

Il maxi acquisto di titoli avviene a poche settimane dalla proposta di un nuovo piano di compensi miliardario per Musk, legato a obiettivi di crescita estremamente ambiziosi. In questo quadro, la mossa del fondatore assume il valore di un messaggio: nonostante i venti contrari, Tesla resta al centro della sua scommessa sul futuro della mobilità e della tecnologia.


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I nuovi signori del potere: quando i miliardi delle Big Tech plasmano la politica

La politica, in America come in Europa, si scopre spesso incapace di resistere all’avanzata dei mega miliardari della tecnologia. Quelli che un tempo erano imprenditori di frontiera, oggi sono diventati i protagonisti di un nuovo potere globale, capace di mettere d’accordo persino ideologie lontanissime: dalla sinistra radicale di Yanis Varoufakis, che li definisce “tecnofeudatari”, alla destra estrema di Steve Bannon, che usa lo stesso termine.

Oligarchi digitali senza confini

Elon Musk, Tim Cook, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg: agli occhi dei critici non esistono differenze, ma un unico blocco di oligarchi digitali che vivono di rendite monopolistiche, costruite su piattaforme ormai essenziali per la vita sociale. Accusati di sottrarre lavoro tramite l’automazione, di imporre ecosistemi chiusi e di progettare un futuro modellato sulle proprie ambizioni, vengono percepiti come un’élite in grado di sostituirsi agli Stati.

I governi provano a reagire. L’Europa discute di regole antitrust, Washington minaccia restrizioni e maxi multe. Ma la realtà è che le lobby delle Big Tech restano più veloci, più influenti e quasi sempre vincenti. Così, in fin dei conti, gli Stati Uniti finiscono per difendere i loro giganti e l’Europa per subirne la forza.

Il salto dalla ricchezza al potere

Ciò che rende unica questa generazione di imprenditori è la capacità di trasformare la ricchezza in potere politico e culturale. Le Big Tech non sono più semplici aziende: sono infrastrutture indispensabili per comunicare, lavorare, commerciare. Non sorprende allora che i loro leader aspirino a gestire funzioni che un tempo appartenevano esclusivamente allo Stato: dal controllo delle valute digitali alle politiche spaziali, fino alla regolamentazione del commercio online.

Figura emblematica è Peter Thiel, meno appariscente di Musk ma ideologicamente più consapevole. Autore di un pensiero che mescola filosofia, religione e suggestioni letterarie, Thiel teorizza senza imbarazzi la legittimità di perseguire il monopolio e il ruolo dell’imprenditore come capro espiatorio e insieme salvatore della società, seguendo suggestioni di Ayn Rand e René Girard.

Strumenti e strategie

I tecnocapitalisti non si collocano lungo l’asse tradizionale dei partiti: li utilizzano. Musk oscilla tra provocazioni e sostegno diretto a leader politici; Zuckerberg cerca di adattarsi agli equilibri; Reid Hoffman si schiera all’opposizione; Thiel alimenta consapevolmente una visione radicale. Ciò che li unisce è la volontà di accumulare sempre più risorse, usarle per consolidare il potere e modellare il futuro secondo la propria immagine.

Un potere senza veri contrappesi

Il risultato è un panorama in cui la politica appare spiazzata. Le istituzioni cercano di imporre limiti, ma l’asimmetria di risorse e di influenza resta enorme. Nel frattempo, i tecnocapitalisti consolidano il loro ruolo di architetti del domani, imponendo agende e priorità che spesso prescindono dal bene comune.

La domanda che resta aperta è: il potere delle Big Tech sarà mai riportato entro confini democratici, o stiamo assistendo alla nascita di un nuovo feudalesimo digitale?


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Pechino mette nel mirino Nvidia: indagine antitrust sull’acquisizione Mellanox

Pechino. La tensione tecnologica tra Stati Uniti e Cina si arricchisce di un nuovo capitolo: la State Administration for Market Regulation (SAMR) ha accusato Nvidia di aver violato la normativa antitrust nell’acquisizione della israeliana Mellanox Technologies, operazione conclusa nel 2020.

Secondo l’autorità cinese, il gruppo guidato da Jensen Huang non avrebbe rispettato pienamente le condizioni stabilite al momento dell’approvazione del deal. Non sono stati resi noti i dettagli dell’inadempimento, né le eventuali sanzioni. Tuttavia, la sola apertura del procedimento rappresenta un segnale forte che alza ulteriormente il livello dello scontro economico e regolatorio tra le due superpotenze.

Impatto finanziario contenuto, ma rischio elevato

Nonostante la rilevanza della notizia, le reazioni dei mercati sono state relativamente moderate: il titolo Nvidia ha segnato un lieve ribasso a Wall Street. Gli analisti sottolineano che le multe antitrust in Cina possono variare dall’1% al 10% del fatturato annuo, e nel caso di Nvidia la posta in gioco potrebbe essere miliardaria. Il mercato cinese pesa infatti tra il 10 e il 17% dei ricavi complessivi della società.

Una mossa politica oltre che economica

Molti osservatori ritengono che la scelta di Pechino abbia una valenza politica. L’intervento contro Nvidia si colloca in un contesto di crescente pressione da parte di Washington, che negli ultimi anni ha imposto restrizioni sempre più severe sull’export di semiconduttori avanzati verso la Cina. Con questa decisione, Pechino sembra voler mostrare di essere pronta a rispondere con strumenti analoghi.

Secondo fonti citate dal Financial Times, la mossa della SAMR rientrerebbe in una più ampia strategia volta a ridurre la dipendenza tecnologica dalle aziende statunitensi e a favorire lo sviluppo di player locali come Huawei e Cambricon, già impegnati nella produzione di chip per l’intelligenza artificiale.

Il precedente che ribalta i ruoli

Per anni gli Stati Uniti hanno utilizzato il diritto antitrust come leva contro le società cinesi – emblematico il caso Huawei. Ora il copione sembra rovesciarsi: è la Cina a contestare i comportamenti di un gigante Usa, in un settore – quello dei chip AI – che rappresenta uno dei fronti più caldi della “guerra tecnologica”.

Le prossime mosse

Resta da capire se le accuse sfoceranno in sanzioni concrete. Un’eventuale multa, anche se onerosa, potrebbe non essere il vero problema per Nvidia: la posta più alta riguarda la possibilità di operare senza ostacoli in Cina, un mercato fondamentale per il futuro dell’AI.

Per mantenere un accesso parziale, l’azienda ha già sviluppato chip “adattati” alle regole locali, come l’H20, progettato con prestazioni ridotte per rispettare i limiti imposti dalle autorità. Una strategia che finora ha funzionato, ma che rischia di non bastare più in un contesto sempre più politicizzato.

Con i negoziati tra Pechino e Washington riaperti a Madrid, la tempistica dell’annuncio sembra tutt’altro che casuale: il caso Nvidia potrebbe trasformarsi in una pedina importante sul tavolo delle trattative.


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Washington e Pechino trovano un’intesa su TikTok

New York. Una svolta che sembrava impensabile fino a poche settimane fa: Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo preliminare sulla sorte di TikTok, il social di condivisione video con 170 milioni di utenti americani. L’intesa prevede la cessione della proprietà dal gruppo cinese ByteDance a una società americana, condizione indispensabile per evitare il bando imposto dal Congresso con motivazioni di sicurezza nazionale.

Ad annunciare la novità è stato il segretario al Tesoro Scott Bessent, a margine di un round negoziale a Madrid con il vicepremier cinese He Lifeng. «I termini commerciali sono stati definiti – ha dichiarato – l’operazione metterà TikTok sotto una proprietà statunitense». Il presidente Donald Trump completerà il dossier venerdì in un atteso colloquio con Xi Jinping, definito dallo stesso leader americano «un incontro che sarà molto positivo».

Una trattativa al fotofinish

L’accordo è arrivato a poche ore dalla scadenza dell’ultima proroga concessa da Washington: senza un’intesa, TikTok sarebbe stato bloccato dagli store digitali già da domani. La legge bipartisan firmata nel 2024 dall’allora presidente Joe Biden prevedeva infatti l’uscita della piattaforma dal mercato Usa se non fosse stata acquisita da un soggetto americano.

Trump, che ha più volte rinviato l’applicazione della misura, ha commentato su Truth Social: «Abbiamo trovato una soluzione per un’azienda molto amata dai giovani. Saranno felici».

I nodi ancora aperti

Rimane da chiarire il destino dell’algoritmo, cuore tecnologico di TikTok e fino a oggi considerato da Pechino una tecnologia strategica soggetta a restrizioni all’export. Alcuni osservatori leggono il compromesso come una concessione di Xi per spianare la strada a una sua visita di Stato negli Usa, mentre in parallelo l’antitrust cinese ha lanciato segnali distensivi nei confronti di gruppi americani come Nvidia.

Sul fronte degli acquirenti restano invece top secret i dettagli: indiscrezioni citano nomi di primo piano come Oracle, Elon Musk e cordate miste tra Big Tech e fondi di investimento.

Una partita politica e commerciale

La vicenda TikTok è diventata uno dei dossier più delicati nei rapporti tra le due superpotenze. Da un lato Washington rivendica la necessità di tutelare i dati sensibili dei cittadini americani, dall’altro Pechino denuncia restrizioni arbitrarie e chiede maggiore stabilità nelle relazioni economiche.

Al di là della tecnologia, l’accordo rappresenta il segnale di una più ampia ripresa del dialogo commerciale tra Stati Uniti e Cina, rilanciato proprio nei colloqui madrileni. «Un confronto rispettoso e di ampio respiro», lo ha definito Bessent. Resta ora da vedere se la diplomazia riuscirà a trasformare questo fragile compromesso in un’intesa duratura.


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Telecamere “intelligenti” o occhi indiscreti? Servicematica rilancia l’allarme sulla sorveglianza digitale

Già dieci anni fa Servicematica denunciava per prima i pericoli insiti nella diffusione massiva delle telecamere di videosorveglianza. Oggi, purtroppo, i fatti di cronaca parlano da soli. La promessa di maggiore sicurezza rischia di trasformarsi in un boomerang per la privacy e la tutela dei cittadini, con sistemi che – anziché garantire protezione – espongono utenti e imprese a un controllo occulto senza precedenti.

Test inquietanti: dati in Asia anche a telecamere spente

Le verifiche condotte da Servicematica e da altri osservatori indipendenti su un ampio campione di dispositivi hanno evidenziato due criticità principali:

  • facilità di hackeraggio, con possibilità per terzi non autorizzati di accedere alle immagini in diretta;

  • trasmissione continua di dati verso server collocati in Asia, anche quando le telecamere risultano apparentemente spente.

Un fenomeno che non si limita a compromettere la sicurezza informatica, ma che alimenta una vera e propria rete globale di controllo: i produttori asiatici, che dominano il mercato grazie a prezzi estremamente competitivi, finiscono così per estendere la loro influenza ben oltre i confini nazionali.

L’illusione del “buon affare”

Il consumatore medio, attratto da offerte vantaggiose, pensa di risparmiare acquistando questi dispositivi. In realtà, installa inconsapevolmente in casa o in ufficio un “cavallo di Troia digitale”, che rende i propri dati accessibili a infrastrutture estere con finalità poco trasparenti.

«La sete di controllo massivo trova forza proprio nell’ingenuità degli acquirenti» – commentano i tecnici di Servicematica. – «Chi crede di aumentare la propria sicurezza con queste telecamere spesso ottiene l’effetto opposto: esporsi a intrusioni e sorveglianza invisibile».

Non solo telecamere: Alexa e social nella stessa partita

Il problema non riguarda solo la videosorveglianza. Assistenti vocali, social network e dispositivi domestici “intelligenti” raccolgono quotidianamente parametri fisici, abitudini di consumo e dati personali. Il risultato è una mappa dettagliata delle nostre vite che viene gestita da soggetti privati e, spesso, archiviata su server extraeuropei, fuori da ogni reale controllo democratico.

L’assenza del Garante

In questo scenario, appare evidente il ruolo evanescente delle istituzioni di vigilanza. Il Garante per la protezione dei dati personali, a fronte di fenomeni così invasivi, sembra inadeguato e impreparato. La stessa inefficacia si osserva nel settore dei call center, dove da anni i cittadini subiscono telefonate indesiderate nonostante l’esistenza del Registro delle Opposizioni.

Un sistema che, nei fatti, si è rivelato poco più che simbolico: davvero qualcuno pensa che i call center “selvaggi” vadano a controllare se l’utente è iscritto al registro prima di chiamare? L’esperienza quotidiana dei cittadini dice l’esatto contrario.

Il risultato è paradossale: strumenti pensati per tutelare finiscono per essere percepiti come una beffa, alimentando sfiducia e rassegnazione.

Servicematica, un impegno di lungo periodo

Servicematica non si limita a denunciare: da oltre dieci anni studia soluzioni tecnologiche affidabili, sviluppa sistemi sicuri e sensibilizza utenti e imprese sui rischi della sorveglianza digitale. L’obiettivo è duplice: garantire la protezione reale delle persone e spingere il legislatore a dotarsi di strumenti concreti per contrastare un fenomeno che non è più futuro, ma presente.

«La sfida – ribadisce l’azienda – non è solo tecnologica, ma culturale: bisogna capire che la sicurezza non si compra al ribasso, e che la libertà oggi passa soprattutto  dalla difesa dei dati personali, dalla difesa della sfera personale violentata ogni giorno dal cyber mondo».


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Un sogno di vacanza trasformato in incubo: cinque stelle su TripAdvisor, commenti entusiastici, foto da cartolina. Ma dietro quei giudizi brillanti, pagati a pacchetto come fossero caramelle, si nascondeva una realtà ben diversa: aria condizionata rotta, colazione al distributore automatico e personale tutt’altro che accogliente. È l’altra faccia del turismo digitale, quella delle recensioni false, un fenomeno che solo nel 2022 ha costretto TripAdvisor a cancellare 1,3 milioni di commenti fraudolenti, pari al 4,3% del totale.

Un business globale che pesa sulle scelte

Il mercato delle recensioni truccate prospera soprattutto in Italia, India, Russia, Stati Uniti, Turchia e Vietnam. E le conseguenze sono enormi: l’82% delle prenotazioni alberghiere e il 70% delle scelte nei ristoranti dipendono da quelle “stelline”. In pratica, otto consumatori su dieci scelgono dove dormire o cenare basandosi su giudizi che potrebbero essere completamente inventati. Un meccanismo che altera non solo le classifiche online, ma anche i prezzi e le mode.

La stretta normativa

L’Unione Europea ha deciso di intervenire con un codice di condotta vincolante. L’Italia, entro fine anno, approverà un decreto che estenderà il giro di vite non solo agli hotel, ma anche ai ristoranti. Stop dunque ai commenti lasciati da chi non ha mai usufruito del servizio: d’ora in avanti, solo chi ha soggiornato o consumato potrà recensire, e le opinioni dovranno essere pubblicate entro 15 giorni dall’esperienza. Dopo due anni, quelle “vecchie” potranno essere rimosse.

«Garantire recensioni autentiche è fondamentale per rafforzare la fiducia dei consumatori e promuovere un turismo di qualità», ha dichiarato il ministro del Turismo Daniela Santanchè.

Il precedente Amazon

Il problema riguarda anche l’e-commerce. Nel marzo scorso, Amazon ha vinto la prima causa civile in Italia contro le recensioni fake, ottenendo la chiusura del sito Realreviews.it che offriva rimborsi ai clienti in cambio di valutazioni positive. Il tribunale di Milano ha riconosciuto la pratica come concorrenza sleale, fissando un precedente importante a tutela di aziende e consumatori.

Quando la recensione diventa diffamazione

Non mancano i casi giudiziari legati all’uso improprio dei commenti. A Recanati, una donna di 53 anni è stata condannata a 7mila euro tra multa e risarcimento per aver definito su Facebook e TripAdvisor un ristorante «una bettola». Il tribunale ha stabilito la differenza tra una critica negativa legittima e una recensione diffamatoria, quindi sanzionabile.

Come difendersi dalle recensioni fasulle

Esistono strumenti online, come ReviewMeta, che aiutano ad analizzare l’autenticità dei commenti. Ma anche l’occhio del consumatore può fare la differenza: diffidare di frasi troppo generiche («Prodotto eccellente!»), di recensioni eccessivamente entusiaste con emoticon o punti esclamativi multipli, così come di giudizi estremamente negativi. Le opinioni autentiche sono quasi sempre più dettagliate, spontanee e coerenti.


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Giustizia civile e Pnrr, Venezia al centro della sfida: se 66 magistrati non bastano

Con la delibera del 3 settembre, il Consiglio superiore della magistratura ha dato attuazione al decreto legge 117/2025, che introduce misure emergenziali per centrare gli obiettivi del Pnrr in materia di giustizia civile. Il traguardo fissato dall’Europa è ambizioso: ridurre del 40% i tempi medi dei procedimenti entro giugno 2026, portando il disposition time nazionale da 2.512 a 1.507 giorni, considerando i tre gradi di giudizio.

Le applicazioni straordinarie

Il Csm ha individuato sedi e numeri dei magistrati applicabili in via straordinaria nei tribunali e nelle corti d’appello. L’Ufficio statistico di Palazzo dei Marescialli ha lavorato in tempi strettissimi: i dati ministeriali erano arrivati solo il 27 agosto. Ora spetta ai capi degli uffici elaborare piani straordinari di smaltimento, benché resti da chiarire quale parametro utilizzare: l’obiettivo generale del -40% o quelli differenziati fissati da una circolare ministeriale del 2021 (-56% per tribunali e corti d’appello, -25% per la Cassazione).

Venezia, il nodo più critico

Il caso emblematico è quello di Venezia, che registra un boom di sopravvenienze, soprattutto in materia di cittadinanza: 44.983 procedimenti pendenti al 30 giugno 2025. Al tribunale lagunare sono stati assegnati 66 magistrati, ma il calcolo delle potenzialità lascia pochi margini di ottimismo.

Anche considerando che ciascun applicato possa definire fino a 100 procedimenti, l’apporto aggiuntivo non supererebbe le 6.600 cause, cui si sommano le circa 12.226 definizioni attese con l’organico ordinario. Una stima semplice ma significativa: il disposition time del tribunale veneziano, a giugno 2026, si attesterebbe a 854 giorni, ancora lontanissimo dai 334 previsti come obiettivo Pnrr per i tribunali di primo grado.

Le disparità e i dubbi

Le scelte del Csm sollevano più di una perplessità. Alcuni uffici con alti carichi e performance ancora critiche, come Santa Maria Capua Vetere o Messina, non hanno ricevuto rinforzi, mentre altre sedi più contenute – come Urbino o Forlì – sono state incluse. Discrepanze emergono anche nel confronto tra Catania e Napoli: tempi medi simili, ma solo la città partenopea ha ottenuto ben 67 applicazioni straordinarie.

Il ruolo della Cassazione

Resta infine il peso della Corte di Cassazione, che a marzo 2025 presentava un disposition time di 942 giorni, il più alto in assoluto, contro i 492 delle corti d’appello e i 467 dei tribunali. Senza un intervento incisivo sul giudizio di legittimità, anche gli sforzi di redistribuzione straordinaria dei magistrati rischiano di non bastare.


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