Risarcimento esclusivo al nipote menzionato in testamento

La Corte di Cassazione, ord. n. 10583 del 22 aprile 2021, individua quali eredi siano destinatari del risarcimento danni in caso di decesso di una zia – che abbia menzionato nel suo testamento solo uno dei nipoti – in incidente stradale.

Caso: I tre nipoti, tutti eredi legittimi del fratello della vittima, giungono al Tribunale di Roma allo scopo di veder loro riconosciuto il risarcimento danni per la perdita della zia, avvenuta a causa della condotta colposa di guida di un soggetto assicurato con r.c.a. presso una società di Assicurazioni.

Nello specifico, essi vogliono essere risarciti per:

– danni iure proprio da perdita del rapporto parentale, perché nipoti conviventi, accuditi a lungo dalla zia;

– danno iure hereditatis, patito dal fratello della vittima, convivente della stessa per tutta la vita, oltre che del danno catastrofale acquisito dal primo a titolo di erede universale della zia e successivamente trasmesso loro in qualità di eredi legittimi.

Accogliendo la domanda, il Tribunale liquida la somma complessiva di euro 270.472,40; d’altro canto, la Corte d’Appello: da un lato conferma l’esclusiva responsabilità del guidatore, negando -tuttavia- il diritto dei fratelli al risarcimento del danno iure proprio. Dall’altro, accoglie l’appello incidentale, aumentando di quattro punti percentuali il risarcimento del danno riconosciuto al fratello e -dato il rapporto di convivenza- porta la somma dovutagli ad euro 122.642,00;

Ora, gli attori ricorrono in Cassazione, deducendo la violazione dell’art. 132 comma II n.4 c.p.c.: ritenendo che la Corte d’Appello abbia:

  1. Elevato la convivenza a connotato minimo per esteriorizzare l’intimità delle relazioni parentali;
  2. Negato la dimostrazione di circostanze tali da far ritenere la sussistenza di un legame affettivo zia- richiedenti, visto che la zia aveva istituito un erede universale, escludendo loro da ogni disposizione testamentaria;
  3. Omesso la considerazione della prova -agli atti dello stato civile- della loro convivenza con la zia fino alla costituzione di ciascun proprio nucleo familiare.

Dichiarando inammissibile il ricorso, gli Ermellini osservano che:

-i ricorrenti, patendo dall’erronea premessa che la Corte territoriale equipari alla diseredazione la loro mancata menzione testamentaria, censurano le conclusioni del giudice di secondo grado;

-la Corte d’Appello -in realtà- non ritiene che l’istituzione dell’erede universale implichi la loro diseredazione; tuttavia, la considera circostanza indiziaria per il rafforzamento della convinzione che il legame ricorrente fosse solo tra nipote e vittima, non tra quest’ultima e gli altri nipoti non menzionati nel testamento.

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Le PA non sono tenute a rispettare sempre l’equo compenso

Legge Severino e referendum sulla giustizia

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Le PA non sono tenute a rispettare sempre l’equo compenso

Dopo aver fornito loro tutti i documenti legati alla causa da intraprendere, il Comune di Cernusco sul Naviglio (Mi) chiede a cinque avvocati i preventivi con l’intento di affidare a uno di loro l’incarico.

Dopo aver visionato le proposte ricevute, il Comune affida il lavoro all’avvocato più conveniente.

Uno degli avvocati che si sono visti rifiutare il preventivo ricorre perché, secondo lui, la scelta del Comune ha violato il principio dell’equi compenso. La somma prevista dal preventivo vincitore risulta infatti inferiore persino ai parametri minimi sanciti dal DM Giustizia n. 55/2014.

IL RICORSO

Secondo l’avvocato ricorrente, il Comune avrebbe violato:

– quanto disposto dagli artt. 13-bis, legge n. 247/2012, e 19-quaterdecies, co. 3, del DL n. 148/2017, che impongono alle PA il rispetto del principio dell’equo compenso nel caso di conferimenti di incarichi a  professionisti. Questo perché il Comune ha considerato due preventivi nettamente “a ribasso”;

– artt. 4, 17 e 95, comma 3, del dlgs n. 50/2016, per aver seguito il criterio del prezzo più basso nell’affidare un incarico basato su una prestazione intellettuale.

Il Tar Lombardia Sezione 1 respinge il ricorso.

Poiché il Comune ha fornito i documenti relativi alla causa, gli avvocati hanno avuto la possibilità di valutare la propria proposta economica, e la sua convenienza, in base all’effettiva entità del lavoro richiesto.

Il Comune ha poi effettuato una semplice procedura comparativa, senza la necessità di tener conto del principio dell’equo compenso.

EQUO COMPENSO E PA

Nella sentenza n. 1071/2021 si legge:

La disciplina dell’equo compenso non trova applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti o, nelle fattispecie di formazione della volontà dell’amministrazione secondo i principi dell’evidenza pubblica, ove l’ amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare.”

La Pa non è tenuta “sempre e comunque a corrispondere al professionista incaricato di un servizio legale un compenso non inferiore al minimo dei parametri stabiliti dal decreto ministeriale, anche ove il compenso non sia imposto unilateralmente o non si ravvisi un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista, non può dunque essere accolta”.

Il TAR non concorda nemmeno con l’idea sostenuta dal ricorrente che la mancata applicazione del principio dell’equo compenso comporti il rischio di giungere a prestazioni di basso livello, poiché, indipendentemente dal prezzo, vige sempre il dovere di diligenza da parte del professionista, come indicato dall’art 1176 c.c. comma 2.

Anche il criterio comparativo adottato dal Comune non è contestabile, poiché segue l’orientamento dell’Anac secondo cui gli incarichi legali sono affidati valutando l’offerta economicamente più vantaggiosa. Ciò però non mette in discussione la preparazione e la serietà degli avvocati a cui è stata chiesto il preventivo. In sostanza, i principi di economicità, di efficacia e di proporzionalità non sono violati.

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Legge Severino e referendum sulla giustizia

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Legge Severino e referendum sulla giustizia

A breve si decideranno le sorti del processo penale e della prescrizione ed è in questo contesto di prossime riforme che Matteo Salvini propone il referendum sulla giustizia.
Il leader leghista ha dichiarato:

«Questo Parlamento con Pd e 5 stelle non farà mai una riforma della giustizia, perciò stiamo organizzando con il Partito radicale una raccolta di firme per alcuni quesiti referendari»

E ancora:

«Se i partiti non troveranno un accordo in Parlamento su riforme necessarie e urgenti, saranno i cittadini a farlo, tramite referendum»

I CONTENUTI DEL REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA

Salvini ha indicato chiaramente i temi del referendum sulla giustizia:

«La responsabilità penale dei magistrati, perché qualunque lavoratore che sbaglia, paga, tranne in aula di tribunale; la separazione delle carriere; la cancellazione della legge Severino».

LE REAZIONI ALL’IPOTESI DI UN REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA

Eugenio Albamonte, segretario di Area, corrente progressista dei magistrati, ha così commentato l’idea del referendum sulla giustizia:

«Vedo scarsa materia di referendum. Forse, guarda caso, l’unica materia che si presta a un quesito referendario è la legge Severino, che non è una cosa che riguarda la magistratura ma la politica. Mettere insieme questi temi significa soprattutto cercare di trovare l’occasione per svincolare i politici dalla Severino e dalle conseguenze di eventuali condanne
[…]
Per il resto la responsabilità civile dei magistrati c’è, esisteva già ed è stata modificata da Renzi; non si può intervenire su questo se non con un referendum propositivo, e allora si torna alla parola al Parlamento, quindi tanto vale lavorare adesso lì.
[…]
Sulla separazione delle carriere la raccolta delle firme è già stata fatta, c’è una proposta in Parlamento, c’è un percorso avviato»

Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Pd, sostiene invece che «la riforma della Giustizia si farà prima del Referendum».

LA LEGGE SEVERINO

La legge n.190 del 6 novembre 2012 è nata dopo le rilevazioni dell’UE e dell’OCSE sull’impatto della corruzione nei diversi paesi. Le stime hanno posto l’Italia al terzo posto dei paesi OSCE più corrotti. Una situazione che all’epoca costava già 60 miliardi di euro l’anno.

La Legge Severino mira dunque a limitare la corruzione e la concussione, introducendo l’ineleggibilità, la sospensione, la decadenza e l’incandidabilità di quei soggetti “a rischio”. In particolare:

i condannati per concussione non sono considerati idonei a ricoprire cariche nella Pubblica Amministrazione o cariche politiche;

chi è stato condannato a più di due anni di reclusione per reati punibili almeno fino a quattro anni non può essere considerato eleggibile o cangiabile;

una carica comunale, regionale e parlamentare può essere sospesa in caso di condanna, anche quando questa avviene dopo la nomina. La condanna può essere anche non definitiva e la sospensione che può durare fino a 18 mesi;

chi è stato condannato per corruzione non può essere candidato a cariche negli enti locali, nel Parlamento italiano e nel Parlamento Europeo.

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Informazioni personali: il criterio di minimizzazione nell’uso

A seguito di un esposto al Consiglio dell’Ordine da parte di un ex-superiore, un avvocato vede diffuse alcune informazioni personali, relative a precedenti sanzioni disciplinari, sempre annullate. L’avvocato, convinto che la tale condivisione di informazioni private fosse finalizzata a screditare la sua reputazione, chiede la condanna dell’ex-superiore e un risarcimento.
La vicenda però giunge fino in Cassazione.

IL TRATTAMENTO DELLE INFORMAZIONI PERSONALI

L’ex-superiore sostiene che la mancata tutela del diritto di riservatezza non ricada su di lei ma sul responsabile del trattamento dati, nel caso specifico il Presidente del tribunale.

La Corte però respinge questa visione, sostenendo che si applichi l’art. 15 Codice della Privacy nella versione ratione temporis (articolo abrogato dall’art. 27 c. 1, lett. a), n. 2), d.lgs. 101/2018), che dispone:

“chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”.

In sostanza, il danno è responsabilità di chi lo commette a prescindere che sia o meno responsabile del trattamento.

L’ex superiore sostiene però che la comunicazione delle informazioni personali dell’avvocato non violi l’art. 15 d. lgs. 196/2003, poiché è avvenuta in un ambiente circoscritto (il Consiglio dell’Ordine).

La Corte rigetta anche questa visione.
Sebbene “il trattamento delle informazioni personali effettuato nell’ambito di un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in relazione ad una asserita condotta deontologicamente scorretta posta in essere da un legale” sia lecito, è anche vero che questa condotta deve rispettare il criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali.

IL CRITERIO DI MINIMIZZAZIONE NELL’USO DEI DATI PERSONALI

Secondo queso criterio, quando si ha a che fare con dati personali altrui, si possono utilizzare solo quelli indispensabili, pertinenti e necessari al perseguimento delle finalità per cui sono stati raccolti e trattati (principi affermati anche dal GDPR all’art. 5, lett. c)

Nel caso specifico, la divulgazione delle informazioni relative ai procedimenti disciplinari nei confronti dell’avvocato non risulta pertinente allo scopo per i quali quei dati erano stati trattati. Al contrario, il loro uso da parte dell’ex-superiore risulta perpetrato proprio per minare l’immagine dell’avvocato.

L’ordinanza del 26 aprile 2021 n. 11020 della Corte di Cassazione spiega chiaramente che:

“non è ostativa all’integrazione della violazione dell’art. 15 codice della privacy la mera circostanza che la divulgazione della notizia riservata avvenga nel contesto di un procedimento di rilevanza pubblica, risultando comunque illecita la comunicazione dei dati personali non pertinente ed eccedente le finalità per cui essi sono raccolti e trattati”.

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Riportiamo alcuni contenuti dell’interessante articolo “Giustizia decentrata in 26 poli responsabili di governance e budget” apparso su Il Sole 24 Ore il 22 aprile scorso.

Un gruppo di magistrati, dirigenti, avvocati e docenti universitari vuole utilizzare i fondi del Next Generation Ue per realizzare dei progetti che rendano la giustizia una “risorsa e non un freno alla crescita”.

DECENTRAMENTO: I POLI GIUDIZIARI

Una delle proposte più interessanti riguarda l’organizzazione giudiziaria decentrata.

Il decentramento si realizza con «la costituzione di un livello intermedio tra attori centrali e uffici locali». Si tratta di poli giudiziari territoriali che coincidono con i 26 distretti delle corti d’appello.

I poli hanno il compito di assicurare un uso adeguato delle risorse assegnate ai vari uffici giudiziari sul territorio.

Come funzionano i poli

Ogni polo è gestito da un Consiglio che riunisce tutti i capi degli uffici giudiziari territoriali ed è coordinato dal presidente di corte di appello.

I singolo polo ha autonomia operativa ma anche doveri di accountability.

Le risorse a disposizione del polo sono finanziarie e di personale (togato e non togato), necessarie alla gestione dell’organizzazione, della logistica, dello sviluppo digitale e tecnologico.
Il polo riceve anche le somme derivanti dal recupero crediti e dalle sanzioni e  ha il dovere di rendicontare le spese attraverso gli strumenti di bilancio, di programmazione, controllo di gestione e di valutazione più idonei.

I piani d’azione

La distribuzione di risorse ai poli e la definizione di loro obiettivi si basano su piani d’azione triennali, con obiettivi e performance attese, soggetti a monitoraggio e valutazione periodici anche da parte di soggetti indipendenti, e accompagnati da un sistema di incentivi.

I piani di azione sono stesi dai poli giudiziari a partire dalle linee guida e le priorità elaborate da Csm e ministero della Giustizia. Il ministero definisce il budget massimo disponibile a livello nazionale e a livello dei singoli poli.
Sempre il ministero approva il piano, in base anche al parere del Csm.

I poli stabiliscono i budget degli uffici giudiziari e approva i loro piani di gestione e sviluppo.

DIGITALIZZAZIONE DEL PROCESSO

Un’altra proposta riguarda il superamento degli attuali modelli processuali cartacei a favore di un unico rito di cognizione digitale, che sia «non solo coerente con le tecnologie oggi disponibili, ma anche trasparente, garantito, semplice, unitario e flessibile, lasciando agli attori professionisti del processo la responsabilità di scegliere il percorso più efficace».

Questo nuovo rito digitale porta all’eliminazione, o quanto meno alla riduzione, dei tempi morti che incidono sull’attuale eccessiva durata dei processi. Parte di questo risultato deriva dall’automazione di quelle fasi a basso contenuto giuridico, impiegando così le professionalità umane nelle elaborazioni concettuali e nella fase di decisione.

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Lo scorso 2 marzo 2021 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso una sentenza con la quale ha dichiarato che i tabulati telefonici di un indagato possono essere acquisiti dall’Autorità Giudiziaria solo dopo il vaglio o il benestare di un’autorità indipendente o di un giudice terzo e imparziale.

Il successivo 25 aprile, il Gip di Roma ha affermato che questa sentenza ha ripercussioni dirette sul nostro ordinamento e che i tabulati telefonici possono essere acquisiti solo nelle fattispecie in cui le intercettazioni siano ammesse.

TABULATI TELEFONICI, PRIMA DELLA SENTENZA

Prima della sentenza i tabulati potevano essere acquisiti su richiesta della Polizia Giudiziaria e con decreto di autorizzazione del Pubblico Ministero, senza alcun vaglio.

Entrato in vigore il Gdpr (Reg. Ue 16/679) la normativa è mutata. Ma sia la Corte costituzionale che le Sezioni Unite della Cassazione non hanno mai considerato l’acquisizione dei tabulati telefonici così invasiva da richiedere le medesime garanzie di un’intercettazione vera e propria.

È anche vero però che il nostro sistema giudiziario permette che, se una prima ipotesi di reato iscritta nel registro consente di far effettuare intercettazioni, queste possano essere utilizzate anche nel caso in cui il reato accertato sia meno grave, addirittura al di fuori del campo di applicazione delle intercettazioni stesse.

LEGISLATORE SÌ O NO? E PER QUALI REATI?

Trattandosi di una sentenza recente, non è ancora possibile sapere se verrà recepita in modo uniforme nel nostro paese, soprattutto in relazione a due questioni:
– la sua applicazione diretta senza passare per il legislatore,
– la sovrapponibilità o meno tra i “gravi reati” indicati dalla Corte di Giustizia e quelli per i quali il nostro ordinamento consente le intercettazioni.

In tal senso il Gip di Roma ha preso una posizione:
la sentenza è applicabile in modo diretto e immediato,
i “gravi reati” sono quelli per cui è possibile effettuare le intercettazioni di conversazioni.

L’ Avvocato Massimo Borgobello, vicepresidente di Assodata, nell’articolo “Tabulati telefonici, sì all’acquisizione ma solo per reati intercettabili: come cambia la disciplina” da cui è tratto questo post, spiega:

“Nel nostro sistema giudiziario […] se si viene indagati per associazione a delinquere, ma viene accertato solo un abuso edilizio punito con sanzione pecuniaria (ammenda), le intercettazioni saranno comunque utilizzabili, fermi restando i limiti di legittimità generali.

Per questo la decisione del Gip di Roma ha il sapore di un messaggio “politico” interno alla magistratura.

Dalla limitazione dell’utilizzo dei tabulati, anche per mezzo di una garanzia ulteriore (il vaglio giurisdizionale), si passerà, verosimilmente, ad ipotesi di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in ipotesi ulteriori rispetto a quelle oggi ammesse dalla giurisprudenza di legittimità.

[…] Che la Corte di Giustizia abbia affermato la necessità che sia un giudice terzo a disporre l’acquisizione dei tabulati telefonici è un segnale molto significativo per un ordinamento che, come il nostro, ha ritenuto di sacrificare sempre di più la privacy e la riservatezza delle comunicazioni in nome della sicurezza e dell’accertamento dei reati.

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Con una specifica delibera inviata alla Min. Cartabia, il CNF si esprime sull’indagine giudiziaria della Procura di Trapani durante la quale diverse sarebbero state eseguite delle intercettazioni di conversazioni tra avvocati e giornalisti a proposito della strategia difensiva.

INTERCETTAZIONI, LA DELIBERA DEL CNF

Nella delibera si legge:

“Il Consiglio nazionale forense stigmatizza la reiterata violazione della segretezza e riservatezza delle conversazioni del difensore che abbiano ad oggetto momenti della strategia difensiva e rileva la necessità di una più ampia tutela della riservatezza delle conversazioni dei difensori che non si limiti alla semplice inutilizzabilità processuale delle intercettazioni illegittimamente acquisite, atteso che lo stesso ascolto, quando ha ad oggetto momenti rilevanti ai fini della strategia difensiva, impatta in maniera significativa sullo stesso rapporto di fiducia con la parte assistita, che deve essere garantito dalla piena libertà dei colloqui”.

E ancora:

“Il Cnf auspica il rafforzamento sanzionatorio a tutela del principio di riservatezza e del segreto professionale e invita gli organi di stampa a condividere la necessità di cautela nel caso di pubblicazione delle intercettazioni di conversazioni di difensori, al fine di non favorire una prassi disfunzionale che, nel caso dell’inchiesta di Trapani sulle Ong, ha interessato anche diversi giornalisti”.

TRA LIBERTÀ E PRIVACY

Ancora nel 2014, l’allora presidente del Consiglio Nazionale Forense, Guido Alpa, in occasione della I° Giornata europea degli Avvocati, aveva sottolineato l’importanza di tutelare la “confidenzialità tra clienti e avvocaticomeprincipio insopprimibile dello Stato di diritto”.

Quell’anno la Giornata europea degli Avvocati fu dedicata proprio alla tutela del segreto professionale forense ma anche della privacy dei cittadini nei confronti dell’autorità pubblica in un’epoca in cui la crescente importanza dei Big Data era già chiara.

LA TUTELA DEI DATI

La raccolta di informazione di ogni tipo sui cittadini rende potenti le corporation che se ne occupano. Gli Stati possono attingere a queste informazioni per attività di intelligence, le aziende per finalità commerciali.
Bilanciare la sicurezza pubblica con la libertà di espressione o di informazione e la privacy non è semplice. E questo è particolarmente vero quando si parla di giustizia.

L’allora presidente del CNF Guido Alpa ebbe modo di dichiarare:

“In ogni Paese i Consigli nazionali e gli Ordini locali sono invitati a discutere la problematica, specie nell’ottica della difesa del segreto professionale. Occorrono in altri termini garanzie concrete perché il legale possa comunicare con il cliente in piena sicurezza. Ciò implica che la tutela della privacy sia rafforzata anche nei confronti della pubblica Amministrazione quando il segreto professionale è in pericolo”.

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Cassazione: prorogati al 31 luglio i limiti di accesso ai servizi

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Il provvedimento dello scorso 28 aprile stabilisce la proroga ai limiti d’accesso ai servizi della Cassazione fino al 31 luglio.

Il provvedimento riprende il precedente del 29 settembre 2020 e le sue successive proroghe, con scadenza definitiva al 30 aprile 2021.

L’obiettivo è consentire la prosecuzione delle attività dell’amministrazione della giustizia nonostante il perdurare della pandemia e delle misure di contenimento alla stessa. Ciò si inserisce nel più ampio contesto di ripresa delle attività private e pubbliche del Paese nel rispetto della tutela della salute di tutti.

CANCELLERIA CIVILE, PENALE E U.R.P.

Cancelleria Centrale Civile

I servizi rimangono attivi dalle 9 alle 13:30.

La priorità d’accesso alla Cancelleria Centrale Civile è va a chi deve depositare atti urgenti in scadenza lo stesso giorno o il giorno successivo.

Uffici di cancelleria delle sezioni civili

Gli uffici di cancelleria delle sezioni civili sono operativi dalle 9 alle 14.

I depositi  degli atti cartacei e la consultazione dei fascicoli vanno richiesti inviando una mail. Nella risposta saranno indicati il giorno e l’orario per l’accesso alla cancelleria.

La procedura per il rilascio della copia degli atti è la seguente:

  • – l’avvocato invia alla cancelleria la richiesta via mail,
  • – la cancelleria verifica le pagine, quantifica l’importo e comunica giorno e orario per il ritiro. È possibile l’invio di copie via mail.

Uffici di cancelleria delle sezioni penali

Gli uffici di cancelleria delle sezioni penali sono operativi dalle 9 alle 14.

Anche in questo caso, le richieste di deposito degli atti cartacei e di consultazione dei fascicoli devono avvenire esclusivamente tramite posta elettronica. Nella risposta saranno indicati il giorno e l’orario per l’accesso alla cancelleria.
La priorità d’accesso va a chi deve depositare atti urgenti in scadenza lo stesso giorno o il giorno successivo.
Le modalità per il rilascio della copia è la stessa del settore civile.

U.R.P Centrale

I servizi sono attivi dalle 9 alle 14.

Le richieste di informazioni vanno inviate tramite PEC.
I privati privi di PEC possono usare la mail comune allegando un documento di identità.

Le modalità per il rilascio della copia degli atti  e per le richieste di certificati sono le medesime del settore civile.

 

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diritto alla disconnessione

Diritto alla disconnessione in via di approvazione

Il disegno di conversione del DL n. 30 del DL 13 marzo 2021 che contiene il diritto alla disconnessione di chi lavora smart working potrebbe diventare legge.

L’iter di approvazione dovrebbe concludersi entro il 12 maggio 2021.

La disposizione si inserisce nell’orientamento già segnato dall’unione europea con la Risoluzione UE del 21 gennaio 2021 che raccomandava gli stati di riconoscere questo diritto come fondamentale.

COS’È IL DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE

Il diritto alla disconnessione prevede che il lavoratore in smart working possa disconnettersi da tutti gli strumenti digitali utilizzati per svolgere le proprie mansioni quando non è in orario di lavoro, nel rispetto di eventuali periodi di reperibilità concordati col datore.

L’obiettivo è tutelare il riposo e la salute del lavoratore in un contesto in cui il confine fra lavoro e vita privata è diventato meno netto.

PERCHÈ È IMPORTANTE

In smart working si lavora di più.

La conclusione viene da uno studio realizzato dalla Harvard Business School e della New York University, dopo aver analizzato le abitudini di oltre 3 milioni di lavoratori in 16 città del mondo, comprese Roma e Milano,

Dallo studio è emerso che i soggetti analizzati hanno lavorato 48,5 minuti in più ogni giorno da quando in smart working, con un incremento medio dell’8,2% sul totale delle ore.

La causa sta nella diversa organizzazione del lavoro in smart working, per il quale sono richiesti più passaggi rispetto al lavoro in ufficio (per esempio il tempo da dedicare a telefonate e email in sostituzione a una più veloce conversazione di persona).

Altro fattore è il tempo per la scrittura, l’invio e la lettura di email fuori dall’orario di lavoro, aumentate dell’8%.   

Anche il report “ Working anytime, anywhere:The effects on theworld of work ” ha evidenziato che chi lavora da casa ha il doppio delle probabilità di lavorare oltre le 48 ore a settimana e di avere tempi di riposo fra un giorni lavorativo e l’altro inferiori alle 11 ore.

Tutto ciò ha un impatto negativo sulla salute del lavoratore e anche sulle sue performance professionali.

La normativa sul diritto alla disconnessione si propone dunque di stabilire una definizione chiara delle condizioni, degli orari di lavoro e dei periodi di riposo previsti in smart working.

 

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gratuito patrocinio e mediazione

Gratuito patrocinio e mediazione, dubbi sulla costituzionalità

Riportiamo un’interessante riflessione dal parte del Tribunale di Palermo sulla legittimità costituzionale delle norme che escludono il gratuito patrocinio in caso di una mediazione dall’esito positivo.

IL CASO

Un avvocato chiede la liquidazione dei compensi per l’attività di difesa svolta in favore di due soggetti ammessi al gratuito patrocinio nell’ambito di un procedimento di mediazione obbligatoria conclusasi con la conciliazione delle parti.

Il Tribunale di Palermo ha evidenziato quanto segue:

  • la possibilità di liquidare l’attività professionale svolta dall’Avvocato in ambito mediatorio è esclusa quando alla stessa non sia seguita la proposizione di domanda giudiziale.
    Gli artt. 74 e 75 del D.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002  limitano il patrocinio a spese dello Stato all’ambito sia penale che civile e alle procedure “comunque connesse” a un processo.
    L’attività stragiudiziale non seguita dall’instaurazione di un processo non può ricadere tra le attività che possono essere svolte con oneri a carico dello Stato.
  • – questo limite non può essere superato dal giudice neanche con attività d’interpretazione, “posto che in tal modo lo stesso verrebbe ad incidere sulla sfera afferente alla gestione del pubblico denaro ed alle disposizioni di spesa, così interferendo su materia riservata al Legislatore e presidiata da precisi dettami costituzionali“.

GRATUITO PATROCINIO E MEDIAZIONE, LA COSTITUZIONALITÀ

Il Tribunale quindi si interroga sulla legittimità costituzionale degli articoli 74 (comma 2) e 75 (comma 1) del D.P.R. n. 115, considerando che :

  • – l’art. 3 della Costituzione chiede la rimozione di qualsiasi ostacolo di ordine economico e sociale che limiti la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Il principio di uguaglianza viene invece compromesso se il professionista in sede di mediazione viene trattato differentemente, a livello economico, a seconda che si raggiunga o meno un accordo tra le parti. Tra l’altro, al professionista che effettivamente concluda in maniera positiva la mediazione è riconosciuto un trattamento peggiore.
  • – l’art. 24 della Costituzione garantisce ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione;
  • – l’art. 36 della Costituzione prevede che all’attività lavorativa corrisponda una retribuzione adeguata alla qualità e alla quantità di lavoro svolto. Ciò però non può escludere da qualsiasi tutela quei liberi professionisti che prestano la propria attività lavorativa obbligatoria gratuitamente.

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