limite 30.000 caratteri

Il limite dei 30.000 caratteri a tutela del giusto processo

Il limite dei 30.000 caratteri per gli atti da presentare al Consiglio Stato non è solo un modo per rendere la lettura degli stessi più agevole, ma anche uno strumento a tutela del giusto processo.

È lo stesso Consiglio di Stato a sottolinearlo con l’ordinanza n. 9365/2021.

A PROPOSITO DEL LIMITE DIMENSIONALE DEGLI ATTI

Va ricordato che, secondo l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., i giudici sono tenuti a esaminare solo i contenuti presenti entro il limite dimensionale stabilito dal decreto del presidente del Consiglio di Stato n.167 del 22 dicembre 2016.

Questo limite è fissato a 30.000 caratteri, circa 15 pagine.

Tutto ciò che va oltre questo limite può non essere considerato dai giudici.

Dall’ordinanza, si deduce però che il limite possa essere superato ma solo nel caso di vicende complesse o che riguardino questioni di interesse economico o sociale.

PERCHÈ IL LIMITE DEI 30.000 CARATTERI TUTELA IL GIUSTO PROCESSO

Il giusto processo è descritto dall’art.111 della Costituzione.

Nell’ordinanza, il Consiglio di Stato illustra come il limite dei 30.000 caratteri favorisca il rispetto di questo principio.
Si legge:

“- ciascuna Sezione del Consiglio di Stato, non contemplando il nostro ordinamento processuale alcun meccanismo di filtro (a differenza della stragrande maggioranza delle Supreme Corti europee), ogni settimana deve scrutinare nel merito un numero elevatissimo di cause (nell’ordine delle centinaia), ciascuna delle quali (salvo che gli avvocati non compaiano o vi rinuncino) è ammessa alla discussione orale;
– in questo contesto, la redazione di scritti chiari e sintetici, in grado cioè di selezionare in modo competente le sole questioni (di fatto e di diritto) rilevanti al fine del decidere, è dirimente per l’assunzione di decisioni approfondite e consapevoli;
– la brevità dell’atto processuale (in termini di caratteri, pagine e battute) è appunto lo strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di “sintesi” giuridica della materia controversa, sul presupposto che l’intellegibilità dell’atto (e quindi la giustizia della decisione) è grandemente ostacolata da esposizioni confuse e causidiche;
– in assenza (e aspettando) l’introduzione di meccanismi deflattivi, al fine di amministrare nel migliore modo possibile una imponente mole di contenzioso, il servizio giustizia, in quanto “risorsa scarsa”, ha bisogno della collaborazione dell’intero ceto giuridico.”

La conclusione a cui giunge è che la sinteticità degli atti non è un “mero canone orientativo della condotta delle parti” ma una regola vera e propria funzionale al rispetto del giusto processo, in particolare dal punto di vista della ragionevole durata.

 

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