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Condominio e Green pass: quando serve?

Anammi ha rilasciato il vademecum con le istruzioni per il corretto utilizzo del certificato verde

Dal 15 ottobre, il Green pass è obbligatorio per accedere agli studi dell’amministrazione condominiale. Si tratta dell’applicazione del decreto legge approvato lo scorso 16 settembre e che l’Anammi (Associazione nazional europea amministratori d’immobili) accoglie e disciplina in un apposito vademecum. Allora, essendo l’amministratore di condominio un libero professionista, lavoratore autonomo con partita iva, egli dovrà possedere il Green Pass.

Green pass necessario per accedere alle assemblee condominiali

Come anticipato, al decreto legge del 16 settembre 2021, l’Associazione Nazional Europea Amministratori d’immobili reagisce con la diffusione di un apposito vademecum. In esso di disciplinano situazioni quali le assemblee condominiali e corsi di formazione per il personale dipendente. Non solo: l’Anammi specifica che in qualità di libero professionista titolare di partita iva, l’amministratore condominiale deve possedere il Green pass.

 

 

Invece, le modalità delle assemblee condominiali rimarranno le stesse del periodo emergenziale: vanno mantenuti distanza interpersonale e utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Se possibile, a questi due elementi, si deve aggiungere il fatto che le assemblee di condominio devono essere tenute in uno spazio di sicurezza: la superficie minima è di 7 mq per partecipante. In questo contesto, risulta fondamentale il ruolo del presidente dell’assemblea: “sarà suo compito verificare e controllare preventivamente il possesso del Green Pass dell’amministratore”.

Inoltre, l’amministratore, nel convocare l’assemblea, deve chiedere preventivamente al gestore dei locali affittati se ne condizionerà l’accesso al possesso del certificato verde. Infatti, in questo caso, se anche solo un partecipante non avesse la certificazione, l’amministratore dovrà scegliere un altro posto.

Green pass per i formatori condominiali 

Il certificato verde sarebbe obbligatorio anche nel caso in cui uno studio di amministrazione organizzi corsi di formazione per il personale dipendente, o aperti al pubblico. Infatti, in questi casi, i formatori che terranno il corso dovranno necessariamente essere muniti di green pass.

 

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Microsoft: basta password, l’autenticazione si fa via app

Microsoft: basta password, l’autenticazione si fa via app

Tutti gli utenti Microsoft non accederanno più ai loro account tramite password ma utilizzando l’app Authenticator.
Come mai questa decisione? Cosa bisogna fare?

PASSWORD INEFFICACI E ATTACCHI BRUTE FORCE

L’abbandono dell’autenticazione via password era stata già avviata da tempo all’interno di Microsoft. L’azienda vuole migliorare la tutela della sicurezza degli account dei propri clienti, eliminando alla radice i rischi connessi all’uso di login tradizionali.

Le password che l’utente medio crea sono il più delle volte molto vulnerabili: nomi di persone care, date di nascita, parole semplici legate ad elementi della propria esistenza che un cybercriminale fa presto a individuare.

Giusto per darvi un’idea, Vasu Jakkal, vicepresidente del comparto Security, Compliance e Identity di Microsoft, ritiene che il 40% degli utenti usi come password ‘Autunno2021’ a fine estate, per poi passare a ‘Inverno2021’, ‘Primavera2022’ e così via. Le declinazioni di questa formula sono innumerevoli e tutte ugualmente scarse nel proteggere gli account.

Anche chi sceglie password più forti (qui alcune istruzioni su come creare una buona password) compie alcuni errori. Il più comune è quello di usare la stessa password per più servizi. Per quanto possa essere comoda, questa scelta fa sì che un cybercriminale, una volta individuata la password, riesca ad accedere a diversi account.

Alle debolezze degli utenti  consumer si somma il fatto che questi sono le vittime predilette di phishing e di data breach. La decisione di Microsoft trova la sua origine anche nell’aumento degli attacchi brute force, durante i quali vengono tentate tutte le combinazioni possibili di lettere, numeri e caratteri speciali fino a individuare la password corretta. L’azienda sostiene che ci siano circa 18 miliardi di attacchi brute force all’anno, 579 ogni secondo.

COME PASSARE ALL’AUTENTICAZIONE VIA APP AUTHENTICATOR DI MICROSOFT

Riportiamo le istruzioni che Microsoft indica ai suoi utenti per rimuovere la password del proprio account e impostare l’autenticazione via app:

  1. scaricare la app Microsoft Authenticator
  2. configurare l’account nell’app seguendo le istruzioni
  3. accedere alle opzioni di sicurezza aggiuntive
  4. in ‘Account senza password‘, selezionare ‘Attiva
  5. seguire le istruzioni per verificare l’account
  6. approvare la richiesta inviata all’app Microsoft Authenticator.

Al momento il passaggio a Microsoft Authenticator riguarda Microsoft Edge e Microsoft 365 (che comprende Teams, Outlook, OneDrive e Family Safety). Col tempo verrà esteso a tutti gli altri servizi.

Qui il link alla pagina di supporto nel sito Microsoft.

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Ufficio del processo: domande entro il 23 settembre

Ultima chiamata del ministero della Giustizia ai giovani giuristi per partecipare al concorso per l’UPP

Scade alle 14:00 del 23 settembre 2021 il bando di per il reclutamento di una prima parte di giovani giuristi destinati all’Ufficio per il processo. Sono 8mila posti totali, messi a bando per l’Ufficio del processo dalla Commissione Ripam (Commissione Interministeriale per l’attuazione del Progetto di Riqualificazione delle Pubbliche Amministrazioni). Come spiega il decreto legge del 2014, i giovani supporteranno i magistrati nelle attività propedeutiche e collaterali alla decisione del processo.

Ufficio del processo, come candidarsi

Il Bando per il reclutamento di 8.171 giovani giuristi addetti all’UPP pubblicato in Gazzetta Ufficiale N. 62 del 6 agosto 2021 ne spiega approfonditamente modalità di candidatura e processo selettivo. Infatti, si legge, la domanda di ammissione deve essere presentata esclusivamente per via telematica attraverso SPID, compilando l’apposito modulo elettronico sul sistema “Step-One 2019” da www.ripam.cloud.

 

 

Ufficio del processo, requisiti

I requisiti per candidarsi all’ufficio del processo prevedono:

-laurea triennale in Scienza dei servizi giuridici L-14;

-o laurea in giurisprudenza;

-laurea specialistica o magistrale in ambito economico e giuridico.

Inoltre, sono anche ammesse le lauree L-18 (Scienze dell’economia e della gestione aziendale); L-33 (Scienze economiche); L-36 (Scienze politiche e delle relazioni internazionali), ma solo per una quota ristretta dei posti banditi.

Ufficio del processo, le prove

La procedura di reclutamento si basa sulla valutazione dei titoli; a punteggio pari, il tirocinio svolto presso il ministero della Giustizia è titolo preferenziale. Inoltre, la prova scritta: un test di quaranta quesiti a risposta multipla da risolvere in sessanta minuti; punteggio massimo trenta punti.

Le materie sono: diritto pubblico; ordinamento giudiziario; lingua inglese. Per ogni risposta: esatta +0.75; mancata 0 punti; sbagliata -0.375 punti. Si supera la prova se si raggiunge il punteggio minimo di 21/30. La prova si svolgerà esclusivamente attraverso strumentazione informatica.

Ufficio del processo, assunzioni e retribuzioni 

Le assunzioni all’ufficio del Processo sono finanziate con fondi del piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). I contratti saranno a tempo determinato e della durata di circa tre anni. In merito alle retribuzioni: funzionario di Area III, posizione economica F1, 29.511,36 euro (con 13 mensilità). Il lordo mensile è di 2.303,39; il netto tra i 1.600/1.650 euro mese.

 

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Sprint alla digitalizzazione, fibra ottica in crescita in Italia ed Europa

Nel nostro paese e in tutta Europa aumenta la copertura della fibra ottica. Il futuro del mercato è delineato dalle previsioni del Ftth (Fiber To The Home) Council Europe, l’associazione industriale che ha la missione di promuovere in tutta Europa la connettività e basata su fibra.

L’associazione si aspetta 197 milioni di case in più connesse alla fibra ottica entro il 2026 nell’Unione Europea e nel Regno Unito, con un aumento del 67% rispetto a quest’anno.

Ma com’è la situazione in Italia?

LA FIBRA OTTICA IN ITALIA

Si stima che quest’anno 16 milioni di abitazioni in Italia risulteranno connesse alla fibra ottica. Questo colloca il nostro paese al terzo posto in EU per copertura e al secondo in termini di crescita percentuale (+46%). Per il 2021, risultati migliori di quelli italiani sono stati raggiunti solo da Regno Unito (+65% ) e dai Paesi Bassi (+49%)

Il  Ftth Council Europe prevede che, rispetto al 2020, l’incremento della fibra in Italia toccherà il +136% nel 2026. Per Il Regno Unito si prospetta un +488%, per la Germania +385% e per i Paesi Bassi +144%.

COPERTURA NON SIGNIFICA ABBONAMENTI

Rispetto al numero totale, nel 2021 il 10% delle abitazioni è connessa alla fibra e la percentuale salirà al 29,3% nel 2026, lasciando scoperte 2 milioni di abitazioni.

Questo è il problema minore.

La crescita dell’infrastruttura in fibra non è infatti accompagnata da una crescita di abbonati.
Ciò significa che nel 2026 ben 19,6 milioni di abitazioni non avranno sottoscritto un abbonamento pur essendo connesse alla rete della fibra ottica. Le previsioni indicano performance peggiori solo in Russia.

Altra incognita futura riguarda l’andamento del divario tra zone rurali e zone urbane. Sia in UE che nel Regno Unito solo il 22% di coloro che abitano in zone rurali ha accesso a una connettività full-fibra, rispetto al 45% di coloro che abitano in altri territori.

FIBRA OTTICA E STIMOLI ALLA DIGITALIZZAZIONE

Nonostante le perplessità sul futuro, gran parte dei passi in avanti ottenuti finora in Italia si devono all’operato di Open Fiber, terzo fornitore europeo di connettività FTTH.

Gli stimoli principali, anche al di fuori del nostro paese, sono venuti dalla crisi generata dalla pandemia, che ha spinto gli investitori privati verso progetti a favore della fibra Ftth/B per sostenere l’aumento del traffico internet, dalle politiche nazionali di sostegno alla digitalizzazione e dai nuovi obiettivi UE in tema per il 2025 e il 2030.

Qui il comunicato stampa completo del Ftth (Fiber To The Home) Council Europe.

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Pensionati professionisti: stop al contributo di solidarietà

Il contributo di solidarietà dei professionisti in pensione è incompatibile con il principio del pro-rata

Per la Cassazione (sentenza n. 23363/ 2021), il contributo di solidarietà richiesto al professionista titolare di pensione di anzianità non è dovuto perché impone “una trattenuta su un trattamento […] già determinato in base ai criteri ad esso applicabili, dovendosi ritenere che tali atti siano incompatibili con il rispetto del principio del pro-rata e diano luogo a un prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali ex art. 23 Cost. la cui imposizione è riservata al legislatore.” In effetti, il principio del pro-rata prevede che le modifiche alle regole del calcolo debbano essere applicate per il futuro e non per quanto già versato in passato.

Non dovuto il contributo di solidarietà: viola il principio del pro-rata

Succede che, riformando la decisione del giudice di primo grado, il giudice d’Appello dichiari non dovuto da parte del professionista titolare della pensione di anzianità, il contributo di solidarietà reclamato dalla Cassa previdenziale di appartenenza. Quindi, succede che tale Cassa ricorra in Cassazione, sostenendo la violazione dell’art.3, comma 12 legge n.335/1995 in combinato disposto con l’art. 13 del Regolamento di disciplina previdenziale della Cassa stessa.

 

 

Infatti, secondo la Cassa, la Corte di appello ha ritenuto non dovuto il contributo di solidarietà, sulla base di un’erronea attribuzione di illegittimità del Regolamento di disciplina previdenziale della Cassa a carico dei pensionati. Inoltre, ha ignorato la pronuncia della Suprema Corte proprio in merito al contributo di solidarietà adottato dalla Cassa di Previdenza dei Ragionieri commercialisti ed esperti contabili (2004-2008) che applica legittimamente l’art. 2 del Dlgs. n. 509/1994 e dall’art. 3, comma 12 della legge n. 335/1995.

A questo punto, la Cassazione rigetta il ricorso: il motivo sollevato è manifestamente infondato. Ciò, in quanto gli enti di previdenza privati non possono -nemmeno al fine di garantire l’equilibrio tra bilancio e stabilità della gestione- emanare “atti o provvedimenti che impongano una trattenuta (nella specie un contributo di solidarietà) su un trattamento già determinato in base ai criteri ad esso applicabili, perché incompatibili con il principio del pro-rata”. Nello specifico, l’art.23 della Costituzione dispone che “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. Infine, un ultimo chiarimento: gli atti e le deliberazioni degli enti sono legittimi ed efficaci se la loro finalità è di assicurare equilibro finanziario a lungo termine. Finalità che, per il suo carattere provvisorio e temporaneo, rende il contributo di solidarietà incompatibili con obiettivi prolungati nel tempo.

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Cassazione: la sentenza della Corte di Giustizia UE sull’acquisizione dei tabulati telefonici non è applicabile all’Italia

Qualche tempo fa vi avevamo parlato della sentenza di marzo 2021 della Corte di Giustizia Europea secondo cui l’Autorità Giudiziaria può acquisire i tabulati telefonici di un indagato solo dopo il benestare di un’autorità indipendente o di un giudice terzo.

Con l’entrata in vigore del Gdpr (Reg. Ue 16/679) la tutela dei dati dei cittadini si è fatta più stringente. Proprio questi cambiamenti hanno spinto la Corte UE a sviluppare una normativa comunitaria in materia e a introdurre la necessità di una valutazione indipendente.

Ma nell’ordinamento italiano i tabulati possono essere acquisiti su richiesta della Polizia Giudiziaria e con decreto di autorizzazione del Pubblico Ministero. Non serve alcun vaglio.

Del resto, la Corte costituzionale e la Cassazione non hanno mai ritenuto che l’acquisizione dei tabulati telefonici fosse un’operazione così invasiva della privacy da richiedere le stesse garanzie previste per un’intercettazione vera e propria.

ACQUISIZIONE DEI TABULATI TELEFONICI, LE REAZIONI

La sentenza della Corte di Giustizia Europea ha dato il via a un vivace dibattito interno.

Già ad aprile 2021, poche settimane dopo la sentenza, il Gip di Roma ne riconosceva le ripercussioni sul nostro ordinamento e proponeva che l’acquisizione dei tabulati telefonici seguisse la procedura prevista per l’autorizzazione delle intercettazioni telefoniche (procedura che non si discosta molto da quella richiesta dalla Corte di Giustizia UE).

A maggio, il Tribunale di Rieti ha dichiarato che applicare in modo diretto la sentenza UE determinerebbe notevoli difficoltà in via di prassi.

Il Gip di Tivoli ha invece definito impossibile la diretta applicazione alla sentenza a causa dei principi troppo generici in essa contenuti e delle specificità del nostro ordinamento.

La Corte d’Assise di Napoli ha così commentato: «la disciplina italiana di conservazione dei dati di cui all’art. 132 d. lgs. 196/2003 deve ritenersi compatibile con le direttive in tema di privacy, e ciò poiché la deroga stabilita dalla norma alla riservatezza delle comunicazioni è prevista dall’art. 132 cit. per un periodo di tempo limitato, ha come esclusivo obiettivo l’accertamento e la repressione dei reati ed è subordinata alla emissione di un provvedimento di una autorità giurisdizionale indipendente (come è in Italia il PM)».

Con la sentenza del luglio 2021, depositata il 7 settembre, la Corte di Cassazione ha confermato che non è possibile l’applicazione diretta alla sentenza della Corte di Giustizia UE.

TRA GIUSTIZIA E PRIVACY

Il valore della sentenza della Corte di Giustizia UE e del dibattito scaturito in Italia sta nel conflitto tra due principi fondamentali che appaiono in conflitto tra loro: la necessità di garantire la giustizia accertando i reati e la tutela della privacy.

L’Avv. Massimo Borgobello, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, spiega che «va dato atto che nel sistema penale italiano la cultura della protezione dei dati non è particolarmente sviluppata: basti pensare che l’utilizzo del trojan horse è ai primi posti nel mondo ed è stato necessario il famoso “caso Palamara” perché si facesse luce sull’utilizzo, spesso distorto, dello strumento captativo. […] Resta però un dato di fondo: c’è un Giudice a Bruxelles e le normative europee in termini di data retention e data protection sono realtà

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Può un cliente chiedere a un esercente di mostrare il proprio green pass?

L’estensione della certificazione sanitaria sui luoghi di lavoro a partire dal prossimo 15 ottobre pone una questione di cui ancora poco si è dibattuto: può un cliente chiedere a un esercente di mostrare il proprio green pass?

Del resto, se il titolare di una palestra o di un ristorante può chiedere di visionare il green pass del cliente, perché questo non dovrebbe fare altrettanto?

La necessità di ottenere garanzie sulla sicurezza sanitaria di un determinato contesto è infatti bidirezionale.

Il bisogno di verificare il green pass di un esercente o di un fornitore può essere particolarmente sentito in quelle situazioni in cui il rischio di contagio può aumentare. Pensiamo, ad esempio, all’intervento di un artigiano presso la propria abitazione, o per quesi servizi in cui è richiesto un contatto diretto molto stretto (es.: parrucchieri).

VIOLA LA PRIVACY IL CLIENTE CHE CHIEDE IL GREEN PASS ALL’ESERCENTE?

Per capire se un cliente possa o meno chiedere a un esercente di esibire il proprio green pass, bisogna considerare le conseguenze sulla privacy.
La questione, alla fine, si riduce a questo: capire se la richiesta del cliente comporti una violazione della riservatezza dell’esercente.

Il Consiglio di Stato ha offerto degli spunti utili a definire la questione.
Dopo aver respinto in sede cautelare un ricorso deciso dal Tar Lazio, il Consiglio ha confermato che la richiesta di mostrare il green pass non rappresenti una violazione della privacy.
Infatti, l’esibizione della certificazione non espone dati sanitari o dati sensibili (categorie indicate dall’art. 9 del GDPR), ma attesta solamente se un individuo possiede o meno un documento richiesto per legge, nulla più.

Se ne deduce che un cliente può tranquillamente chiedere a un esercente, un commerciante o un professionista di mostrare il proprio green pass. Questo però può rifiutarsi di mostrarlo.

La legge infatti non riconosce al cliente la facoltà di controllare il green pass, quindi l’esercente non ha l’obbligo di esibirlo. A supporto di ciò, vi è il fatto che non sono previste sanzioni in caso di mancata esibizione.

Insomma, chiedere è lecito e rispondere è cortese. Ma non obbligatorio.
E al cliente rimane sempre la possibilità di rifiutare il servizio se la mancata esibizione del green pass da parte dell’esercente rappresentasse per lui una minaccia alla salute.

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Decreto ingiuntivo: messaggi WhatsApp sono prova

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Il Giudice di Latina ritiene i messaggi WhatsApp prova documentale per credito ingiuntivo

La stampa di messaggi Whatsapp attestanti l’esistenza di un credito è prova idonea per l’accoglimento di un ricorso per decreto ingiuntivo. Questa è la decisione espressa dal Giudice di Pace di Latina nel decreto n. 2399 depositato in data 25.06.2021.

I messaggi WhatsApp costituiscono prova documentale

Succede che nell’ambito di una compravendita di due cani di piccola taglia vi sia un inadempimento dell’obbligazione di pagamento. Infatti, pur avendo regolarmente consegnato all’acquirente i due animali da compagnia, il venditore si vede negare il pagamento dalla controparte. Succede quindi che il venditore indirizzi all’acquirente numerosi solleciti, sia a mezzo telefonico, sia a mezzo dell’app WhatsApp.

 

 

In questo caso, si tratta di messaggi che lasciano una doppia traccia: una nella memoria dell’app, l’altra nello smartphone. In effetti, leggendo un estratto dello scambio di messaggi tra i due, si assiste alla formulazione di una vera e propria ricognizione di debito ex art. 1988 c.c da parte dell’acquirente. Vale la pena riportarne qui un passaggio fondamentale:

Acquirente: “Ciao F. va bene per me 200 [euro] alla volta è perfetto. Quanto vuoi per tutti e due. Così mi organizzo. Ogni volta ti mando foto [del pagamento]”.

Venditore: “Per tutte e due 1400, visto che [il cane] è piccola e io non l’avrei venduta come fattrice”.

Acquirente: “Ok perfetto, va bene, ogni volta scaliamo ok, ogni fine settimana ti carico”.

Ora, in linea con sentenze precedenti in materia di SMS (Cassazione, Sez. I, n. 19155, datata 17.07.2019), il Giudice ritiene tali messaggi WhatsApp sufficienti prove scritte ex artt. 633 ss. C.p.c. In effetti, per funzionare, suddetta app si serve dell’utenza telefonica di mittente e destinatario: tali messaggi rientrano nelle riproduzioni informatiche e rappresentazioni meccaniche. In questo quadro, proprio come gli SMS, i messaggi WhatsApp sono da considerarsi alla stregua di una qualunque altra prova documentale.

 

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Tar del Friuli sul vaccino anti Covid-19: fase sperimentale ultimata con la commercializzazione

Con la sentenza del 10 settembre 2021, n. 261, il Tar Friuli Venezia Giulia prende posizione su una serie di questioni attualmente molto dibattute. Stiamo parlando della sperimentalità del vaccino contro il Covid-19 e di un eventuale indennizzo da parte dello Stato. Non solo: il Tar affronta anche il tema della limitazione della libertà individuale ad un trattamento sanitario.

Il Tar del Friuli frena i no-vax: i vaccini anti Covid-19 non sono sperimentali

E’ recente la decisione del Tar del Friuli Venezia Giulia in merito ad alcuni tra i più importanti celebri cavalli di battaglia dei no-vax. Nello specifico, i punti affrontati sono tre:

 

 

  • Innanzitutto, la parte più interessante, ovvero, la natura ancora sperimentale del vaccino contro il Covid-19. Infatti, per i giudici, i quattro vaccini attualmente disponibili per la battaglia contro l’infezione da Covid-19 «non sono in “fase di sperimentazione”». Ciò, in quanto «non può considerarsi tale la procedura di autorizzazione condizionata da parte della Commissione, previa raccomandazione dell’EMA. Si tratta [invece] di uno strumento “collaudato” che arriva a valle di un “rigoroso processo di valutazione scientifica” che non consente alcuna equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”».
  • In secondo luogo, l’indennizzo da parte dello Stato in caso di danni da vaccinazione. A tal proposito, i giudici ricordano che non c’è alcuna esenzione di responsabilità nel firmare il consenso informato al momento dell’inoculazione del siero. Dunque, l’indennizzo scatta di diritto per tutti i cittadini, e non solo per chi ha l’obbligo di vaccinazione (ad esempio, gli operatori sanitari). Ciò, in quanto la Corte Costituzionale (sentenza del 23 giugno 2020, n. 118) estende il risarcimento anche alle vaccinazioni non obbligatorie ma solo “raccomandate”.
  • In ultimo, la limitazione della libertà individuale ad un trattamento sanitario. Circa questo argomento, il Tar ricorda che, nel contesto dell’emergenza pandemica, l’interesse generale a prevenire lo sviluppo del Covid-19, è di natura pubblica, perciò deve necessariamente venire prima dell’interesse del singolo. Dunque «la salute collettiva giustifica la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non vuole sottostare all’obbligo vaccinale» (nel caso di specie, un operatore sanitario).

 

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Cos’è il domicilio digitale e a cosa serve

Con il Decreto “Semplificazioni” (DL. 76/2020), dal 1° ottobre 2020 imprese e professionisti sono soggetti all’obbligo di comunicare il proprio domicilio digitale.

COS’È IL DOMICILIO DIGITALE

Come suggerisce il nome, il domicilio digitale è il corrispettivo virtuale del domicilio fisico.

IL CAD, il Codice dell’Amministrazione Digitale (D.Lgs. n. 82/2005), lo definisce così:

“un indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata o un servizio elettronico di recapito certificato qualificato, come definito dal regolamento (UE) 23 luglio 2014 n. 910 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE, di seguito “Regolamento eIDAS”, valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale”.

DOMICILIO DIGITALE, PEC E SERCQ

Molti pensano che domicilio digitale è PEC siano la stessa cosa. Del resto, per attivare un domicilio digitale è necessario avere una casella di Posta Elettronica Certificata.

Ma la PEC, che rappresenta la versione digitale delle raccomandate A/R, è solo uno degli strumenti con cui in futuro sarà possibile attivare un domicilio digitale.
Si attende infatti una normativa che dia il via libera ai SERCQ, i Servizi elettronici di recapito certificato qualificato.

La differenza tra PEC e SERCQ riguarda la certezza dell’identità del mittente. Con la PEC questa certezza può essere raggiunta solo con l’utilizzo della firma elettronica, con i SERCQ è automatica.

I VANTAGGI DEL DOMICILIO DIGITALE

Il vantaggio principale per chi detiene un domicilio digitale è la comodità. A differenza del domicilio reale, quello digitale è accessibile ovunque e in qualsiasi momento e garantisce la valenza legale delle comunicazioni emesse e ricevute.

Anche la PA ne beneficia, sia in termini di risparmio di carta, sia di rispetto di scadenze che potrebbero invalidare alcuni atti (es.: le multe).

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