Quando il Nord perde voce e mercati: l’effetto combinato di dazi e scelte di governo

I dazi americani colpiscono duro e a pagare il prezzo più alto rischia di essere il Nord produttivo. Persino il Fondo monetario internazionale avverte: l’inasprimento delle tariffe commerciali USA penalizzerà soprattutto le aree settentrionali, cuore dell’export made in Italy. Province come Vicenza, un tempo campioni di vendite all’estero, oggi vedono erodersi il loro primato.

Eppure, mentre la questione economica è evidente, la “questione settentrionale” politica sembra scomparsa dai radar. I movimenti e i leader che in passato l’avevano alimentata hanno cambiato rotta o perso peso nell’arena nazionale.

Emblematico il percorso della Lega: Matteo Salvini ha messo in archivio simboli e parole d’ordine del nordismo storico, privilegiando altre battaglie. L’alleanza con figure come il generale Vannacci ha segnato una svolta identitaria, ma è la decisione di puntare sul Ponte sullo Stretto a rappresentare la frattura più netta con la tradizionale base leghista del Nord.

Sul fronte governativo, le risposte alla crisi dell’export appaiono deboli. Il ministro Adolfo Urso ha portato in Parlamento una legge sul made in Italy che, secondo i critici, si limita a promuovere eventi celebrativi e a distribuire riconoscimenti, senza incidere sulla competitività internazionale delle imprese.

Così, mentre i dazi mordono e il Nord industriale perde terreno, manca una strategia capace di coniugare difesa economica e identità territoriale. Il rischio è che, oltre alle quote di mercato, si dissolva anche la spinta politica che per anni ha tenuto alta la bandiera del settentrione produttivo.

Nord Italia nel mirino dei dazi USA

  • Potenziali perdite fino a 37,5 miliardi €: secondo Confindustria, ogni punto percentuale di dazio imposto dagli Stati Uniti potrebbe tradursi in circa 874 milioni € di esportazioni italiane in meno; con un dazio al 30 %, il calo stimato è di circa 37,5 miliardi €.

  • Fino a 140 mila posti di lavoro a rischio: stime parlano di una perdita occupazionale compresa tra 115 000 e 145 000 in settori chiave come moda, farmaceutica, meccanica, agroalimentare. Il 75 % di questo impatto si concentrerebbe nelle regioni del Nord, in aree come Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte.

  • Strategie lombarde per contrastare i dazi: oltre la metà delle imprese esportatrici della Lombardia stanno mettendo in campo contromisure, che includono la ricerca di nuovi mercati o l’apertura di filiali e sedi negli Stati Uniti.

  • Agroalimentare settentrionale sotto attacco: in Toscana, i dazi del 30 % minacciano tra le 15 000 e le 18 000 imprese agricole e artigianali, settore vitale per l’economia locale.


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Contributi omessi, fino a 25 anni per ottenere la copertura pensionistica

L’articolo 13 della legge 1338/1962 prevede una tutela speciale per i lavoratori in caso di contributi previdenziali non versati dal datore di lavoro. Anche dopo la prescrizione ordinaria di cinque anni, l’azienda può chiedere di versare una somma a copertura della quota di pensione mancante, così da evitare penalizzazioni nell’assegno finale.

Questa possibilità deve essere esercitata entro i dieci anni successivi alla prescrizione ordinaria, quindi entro 15 anni dal momento in cui i contributi avrebbero dovuto essere versati. Se il datore non si attiva, la stessa facoltà può essere esercitata dal lavoratore, versando in proprio la rendita vitalizia e mantenendo il diritto a chiedere il risarcimento danni al datore.

Con la sentenza n. 22802/2025 a Sezioni Unite, la Cassazione ha chiarito i tempi:

  • 5 anni per la prescrizione definitiva dei contributi dovuti;

  • 10 anni dalla prescrizione per il datore di lavoro per chiedere la costituzione della rendita vitalizia;

  • 10 anni ulteriori per il lavoratore per far valere il proprio diritto al risarcimento del danno.

In totale, il termine massimo per agire è di 25 anni dal mancato versamento dei contributi. Oltre questo limite, resta comunque salva la facoltà del lavoratore di chiedere la costituzione della rendita vitalizia, a proprie spese, per salvaguardare l’anzianità contributiva e il diritto alla pensione.


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Il costo del vuoto di competenze: 44 miliardi l’anno e milioni di posti scoperti

Il mercato del lavoro italiano è segnato da un divario crescente tra ciò che le aziende cercano e ciò che i lavoratori sanno fare. Un fenomeno noto come skill mismatch, che ha un costo stimato di 44 miliardi di euro l’anno – pari al 2,5% del PIL – in termini di produttività e competitività.

Le cause principali? Una formazione non sempre adeguata alle esigenze del tessuto produttivo e la rapida evoluzione delle competenze richieste, spinta dall’avanzamento tecnologico e dalla trasformazione digitale.

Secondo un’indagine di Confindustria sul mercato del lavoro nel 2024, il 69,2% delle imprese fatica a reperire profili tecnici, mentre il 47,2% incontra difficoltà persino per mansioni manuali. Le criticità si concentrano soprattutto nei settori della transizione digitale e dell’internazionalizzazione, ritenuti strategici da un numero crescente di aziende.

I dati di Unioncamere confermano la tendenza: nel 2024, il 48% delle assunzioni programmate ha registrato difficoltà di reperimento. Inoltre, circa il 40% degli occupati lavora in settori non coerenti con la propria formazione. In totale, 10 milioni di italiani non possiedono le competenze oggi richieste dal mercato.

L’arrivo e la diffusione dell’intelligenza artificiale generativa promettono di ridefinire ulteriormente lo scenario occupazionale. Il World Economic Forum stima che, entro il 2030, quasi il 40% delle competenze oggi richieste sarà destinato a cambiare o diventare obsoleta.


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Parità di genere, i punteggi premiali valgono per tutti gli appalti: via libera anche alle forniture

La spinta verso la parità di genere entra a pieno titolo in tutte le procedure di gara basate sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Lo ha ribadito il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con il parere n. 3636 del 23 giugno 2025, chiarendo che i criteri premiali previsti dall’articolo 108, comma 7, del d.lgs. 36/2023 si applicano anche agli appalti di forniture, oltre che a lavori e servizi.

La norma, inserita nel nuovo Codice dei contratti pubblici, impone alle stazioni appaltanti di attribuire un punteggio aggiuntivo alle imprese che abbiano adottato politiche concrete per raggiungere la parità di genere, certificate ai sensi dell’articolo 46-bis del Codice delle pari opportunità. L’obiettivo, come sottolineato anche dalla giurisprudenza amministrativa, è incentivare modelli organizzativi e produttivi inclusivi, premiando chi ha già intrapreso un percorso strutturato in questa direzione.

Il dubbio interpretativo era nato da un apparente contrasto con l’articolo 57, comma 2-bis, introdotto dal “correttivo” al Codice appalti (d.lgs. 209/2024), che menziona meccanismi premiali per pari opportunità e inclusione ma non chiarisce l’ambito oggettivo di applicazione. Alcune stazioni appaltanti avevano quindi ipotizzato che tali criteri si limitassero ai soli appalti di lavori e servizi con posa in opera.

Il parere ministeriale fuga l’incertezza: l’articolo 108, comma 7, è una disposizione di carattere generale e non restringe l’applicazione a specifiche tipologie di contratto. Pertanto, ogni gara in cui si utilizzi un criterio di aggiudicazione diverso dal solo prezzo – sia essa relativa a lavori, servizi o forniture – deve prevedere punteggi premiali per le imprese certificate in parità di genere.


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Decontribuzione Sud valida anche in smart working: conta la sede aziendale, non dove lavori

La decontribuzione Sud si applica anche ai lavoratori in smart working. È questo uno dei chiarimenti forniti dall’Inps nel corso del tavolo tecnico del 22 luglio con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili.

La questione nasce dal fatto che, nel lavoro agile, il luogo della prestazione non coincide necessariamente con la sede fisica dell’azienda: il dipendente può operare da casa, in un’altra regione o persino dall’estero. L’Inps ha precisato che, in questi casi, il datore di lavoro può continuare a beneficiare dell’incentivo se il dipendente è formalmente in forza a un’unità operativa situata in una delle regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna).

Introdotto dal 1° gennaio 2025, lo sgravio prevede una riduzione dei contributi previdenziali pari al 25%, fino a un massimo di 145 euro mensili per lavoratore, e riguarda micro, piccole e medie imprese con non più di 250 dipendenti.

Oltre al tema smart working, l’Inps ha fornito altri chiarimenti:

  • Sportivi in regime forfettario: la franchigia di esenzione contributiva di 5.000 euro annui va calcolata sui compensi percepiti nell’anno d’imposta per attività sportive dilettantistiche, includendo anche eventuali incarichi come collaboratore coordinato e continuativo o lavoratore autonomo occasionale.

  • Trattamento di fine mandato (Tfm): nella Gestione separata vale il principio di cassa, quindi la contribuzione è dovuta nel momento in cui l’importo viene effettivamente corrisposto, non quando matura.

  • Bonus Giovani Zes: in caso di contratto a termine trasformato in tempo indeterminato, la domanda di esonero va presentata prima della trasformazione e dell’invio della comunicazione obbligatoria (CO).


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Giovani autonomi, sconto Inps del 50% sui contributi per tre anni: domande al via

Dal 7 agosto 2025 è ufficialmente aperta la finestra per richiedere lo sconto contributivo dedicato ai giovani artigiani e commercianti che, per la prima volta, si iscrivono all’Inps quest’anno. La misura, introdotta dalla legge n. 207/2025 nell’ambito della manovra economica, consente di ridurre del 50% i contributi previdenziali dovuti per 36 mesi consecutivi.

L’Inps, con il messaggio n. 2449, ha attivato la procedura sul Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo), rendendo disponibile il modulo “Riduzione 50% ART-COM 2025”. Possono accedere al beneficio i titolari di ditte individuali, anche in regime forfettario, i soci di società di persone o di capitali, e i collaboratori familiari. La condizione è che l’avvio dell’attività e l’iscrizione al Registro imprese e all’Inps avvengano nei termini di legge: chi inizia il 20 dicembre 2025, ad esempio, dovrà completare entrambe le registrazioni entro il 19 gennaio 2026.

Lo sconto riguarda esclusivamente l’aliquota IVS, cioè la quota destinata alla pensione (invalidità, vecchiaia e superstiti). Restano dovuti per intero il contributo di maternità (7,44 euro annui) e, per i commercianti, quello per l’indennizzo da cessazione attività.

C’è però un aspetto cruciale da considerare: l’accredito dei contributi ai fini pensionistici avviene in proporzione a quanto versato. Con metà contributi si accumula metà dell’anzianità contributiva. Per coprire un intero anno occorre avere un reddito almeno pari al minimale di 18.555 euro; in caso contrario, il 2025 varrà solo sei mesi ai fini del diritto alla pensione. Con un reddito di 37.110 euro, invece, pur versando il 50% dei contributi si raggiunge la soglia minima necessaria per “coprire” tutti i 12 mesi.

Per presentare la domanda, è necessario autenticarsi con SPID, CNS o CIE 3.0, selezionando il percorso “Imprese e Liberi Professionisti” > “Strumenti” > “Portale delle Agevolazioni” > “Utilizza lo strumento”. In questa fase, l’accesso è consentito ai profili “cittadino” e “consulente/commercialista”, mentre ulteriori modalità saranno comunicate in seguito. Il richiedente deve autocertificare il possesso dei requisiti e dichiarare di non superare i limiti previsti dalla regola del de minimis sugli aiuti di Stato.

La riduzione resta valida anche in caso di trasferimento dell’attività in un’altra provincia o di cambio di gestione previdenziale, senza necessità di presentare una nuova istanza.


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IA ferma al palo: il Portale anti–lavoro nero non parte e i controlli restano quelli del secolo scorso

Il 25 luglio scorso, al Rione Alto di Napoli, tre operai – Luigi Romano, Ciro Pierro e Vincenzo Del Grosso – sono precipitati da oltre venti metri quando il cestello del montacarichi su cui lavoravano si è ribaltato. Nessuno di loro si è salvato. Le indagini hanno rivelato che due erano impiegati in nero e che nessuno indossava l’imbracatura di sicurezza. Una scoperta che arriva, come troppo spesso accade, solo a tragedia avvenuta.

Eppure, gli strumenti per prevenire queste situazioni esistono già, almeno sulla carta. Tra questi, il Portale nazionale del sommerso (Pns), una piattaforma digitale destinata a raccogliere e condividere in tempo reale dati su ispezioni, sanzioni e irregolarità in materia di lavoro e sicurezza. Previsto dal Pnrr e finanziato con 20 milioni di euro, avrebbe dovuto essere operativo dal 30 maggio 2025. Oggi, però, è ancora fermo: banche dati che non dialogano, ritardi procedurali, e un via libera del Garante della Privacy arrivato solo a fine aprile scorso.

«Siamo terribilmente in ritardo – ammette una fonte interna dell’Ispettorato nazionale del lavoro – e anche se il Portale fosse attivo, senza l’accesso immediato per tutte le sedi territoriali resterebbe inutile». Il problema, spiega, non è solo tecnologico: stipendi bassi, carichi di lavoro elevati e un uso inadeguato del personale rendono la funzione ispettiva poco attrattiva. «Abbiamo ispettori pagati duemila euro al mese per imbustare lettere: è uno spreco e un ostacolo all’efficacia dei controlli».

Le risorse vengono talvolta dirottate su misure di scarso impatto, come la “patente a punti” per le imprese: i punti vengono detratti solo a procedimento concluso, dopo mesi o anni, permettendo nel frattempo all’azienda di continuare a operare. «Nemmeno 10 mila assunzioni risolverebbero la situazione se non cambiano l’organizzazione e la mentalità», aggiunge l’ispettore, denunciando come molti dirigenti incaricati della trasformazione digitale non abbiano competenze digitali.

Sul campo, la realtà è ancora analogica: per verificare la regolarità di un lavoratore, un ispettore deve attendere il documento cartaceo portato dal datore o dal consulente. Nessuna piattaforma consente di controllare, ad esempio, i doppi impieghi nel pubblico impiego, lasciando irrisolto il problema di infermieri o agenti che, fuori orario, possono lavorare in nero.

Eppure, agli occhi di Bruxelles, l’Italia ha già “spuntato la casella”: il Portale del sommerso è un obiettivo formalmente raggiunto nel quadro del Pnrr. Ma gli obiettivi concreti – aumentare del 20% le ispezioni e ridurre del 2% l’incidenza del lavoro nero nei settori a rischio entro il secondo trimestre 2025 – restano lontani.


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Vite in corsa: 11 lavori in una sola esistenza

Cosa definisce davvero la nostra epoca? Per il sociologo tedesco Hartmut Rosa, che già nel 2013 pubblicava Accelerazione e alienazione (Einaudi), la risposta è netta: viviamo immersi in un’accelerazione continua. Dodici anni fa sembrava già un cambiamento epocale, ma allora non c’erano né pandemia né intelligenza artificiale a dare ulteriore slancio a questo vortice.

La velocità non è un effetto esclusivo delle innovazioni tecnologiche, ma il frutto di una lunga storia: dal passaggio dai cavalli al treno, fino alla sostituzione delle lettere scritte a mano con la posta elettronica, ogni passo avanti ha compresso spazi e tempi. Con l’IA capace di fare in secondi ciò che un essere umano compie in ore, il ritmo si è ulteriormente impennato.

Eppure, avverte Rosa, il vero motore non è la tecnologia, ma l’organizzazione sociale e produttiva che spinge a sfruttare ogni minuto guadagnato… per fare ancora di più. Se una volta due ore bastavano per rispondere a venti lettere, oggi quello stesso tempo serve per smaltire sessanta email. Il tempo liberato non diventa mai tempo libero: viene subito riempito.

La logica è quella di una competizione permanente. Restare fermi, o rallentare, significa perdere terreno. E allo stesso tempo, la promessa è seducente: un ventaglio di esperienze e opportunità prima impensabile. Viaggi, attività, oggetti – tutto a portata di mano, purché si sappia correre abbastanza per afferrarli.

Ma il cambiamento non riguarda solo il ritmo: modifica anche la traiettoria delle nostre vite. Nelle società agricole, il lavoro passava di padre in figlio; in quelle industriali, si restava nella stessa azienda per decenni. Oggi, invece, gli studi indicano che un lavoratore con buona istruzione cambierà impiego fino a undici volte nel corso della sua vita.

È un segno di libertà o una condanna all’instabilità? Forse entrambe le cose. Di certo, la domanda resta aperta – ed è una di quelle che meritano di accompagnarci, che sia in ufficio o sotto l’ombrellone.


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L’Oriente è il nuovo Occidente: i giovani italiani migrano dove c’è futuro

Dimenticate New York, Londra e Berlino. Per i giovani italiani la nuova terra promessa è a Oriente: Sydney, Singapore, Jakarta, Brisbane. Secondo le ultime rilevazioni, il 78% dei laureati italiani vuole lasciare il Paese, e non per inseguire sogni americani o nostalgie europee, ma per costruire altrove un futuro che qui appare irraggiungibile.

Il dato più sorprendente? L’Est, fino a pochi anni fa percepito come “altro”, oggi incarna il dinamismo e l’innovazione che un tempo appartenevano all’Occidente. L’area del Pacifico, con l’Australia come faro e le metropoli del Sud-Est asiatico in rapida ascesa, sta ridefinendo i confini geografici delle ambizioni giovanili.

Il fascino dell’altrove: non solo fuga, ma scelta razionale

Non si tratta di una fuga istintiva, ma di una decisione ponderata, organizzata, quasi progettuale. I giovani italiani – e soprattutto le giovani – non si muovono per capriccio, ma per rispondere a bisogni precisi: mobilità, benessere, accesso a un mondo del lavoro flessibile e creativo, qualità della vita, sostenibilità.

L’Australia, con le sue sette grandi città costiere, le università accessibili, le opportunità professionali e il forte equilibrio tra lavoro e tempo libero, sta diventando il nuovo punto di riferimento. Il Working Holiday Visa, in particolare, rappresenta un trampolino strategico per chi cerca un’esperienza formativa, ma anche un’ipotesi di radicamento.

Quando il futuro cambia latitudine

Non è solo l’attrazione per paesaggi mozzafiato o per uno stile di vita rilassato. Il vero punto di svolta è culturale. L’Asia-Pacifico, spiegano i sociologi, concentra oggi l’energia che un tempo apparteneva alla civiltà occidentale: la tensione verso il nuovo, l’idea che le discontinuità siano opportunità, il bisogno di reinventarsi, di costruire e scoprire.

Per molti under 30, il futuro è un luogo fisico, e si trova da un’altra parte del globo. Dove si sperimenta, si rischia, si cresce. In Indonesia, Thailandia, Vietnam, Corea del Sud. Dove l’idea stessa di società appare più mobile, più aperta, meno bloccata da vincoli generazionali o burocratici.

Dati, tendenze e una generazione che non si ferma

Le statistiche parlano chiaro: anche tra i ragazzi che hanno vissuto brevi esperienze all’estero durante gli anni scolastici, due su tre vorrebbero ripartire. E il dato si consolida tra chi ha già avviato un percorso lavorativo in Italia, spesso frustrato da stipendi bassi, rigidità contrattuali e mancanza di prospettive.

Interessante è anche il comportamento dei giovani stranieri che studiano in Italia: la maggior parte non intende restare, soprattutto per ragioni economiche. Un segnale inequivocabile che il sistema Paese non riesce più ad attrarre né a trattenere talenti.

L’Oriente che cambia le regole del gioco

Il quadro che emerge è quello di un vero e proprio ribaltamento simbolico: l’Occidente che guarda con nostalgia al passato e l’Oriente che incarna la novità. Ciò che un tempo era prerogativa dell’Europa rinascimentale – la scoperta, il movimento, l’innovazione – oggi si trova dall’altra parte del mondo.

La mobilità non è solo geografica, ma esistenziale – osservano gli studiosi –. I giovani cercano contesti in cui sia possibile cambiare, reinventarsi, crescere. E l’Oriente, oggi, lo permette più dell’Occidente.”

Una nuova geografia generazionale

Questo spostamento di orizzonte non è solo migratorio, ma culturale. Cambia la geografia delle aspirazioni, delle scelte, delle identità. Cambia il modo di guardare il mondo e di abitarlo. Cambia, in fondo, l’idea stessa di “futuro”.

Così, mentre l’Occidente si interroga sul proprio declino, una nuova generazione si affaccia su un’altra sponda del pianeta, pronta a riscrivere la propria storia. E forse anche quella globale.


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Trump può sbagliare, l’America no: perché l’economia USA continuerà a correre

Il “Giorno della Liberazione” proclamato da Donald Trump – quello in cui ha annunciato dazi a tappeto contro alleati e rivali – è stato per molti analisti il simbolo del declino americano. Previsioni allarmistiche hanno dipinto un’America destinata al collasso: fine dell’eccezionalismo, recessione globale, fuga dal dollaro, impennata del debito. Eppure, a distanza di mesi, l’economia USA si dimostra più solida che mai.

Non perché le politiche dell’ex presidente abbiano funzionato, ma proprio nonostante esse.

L’economia resiste agli strappi della “Trumponomics”

Le tariffe commerciali, la stretta sull’immigrazione, i tentativi di influenzare la Federal Reserve, il deficit fiscale galoppante: tutto faceva presagire una tempesta perfetta. Ma il sistema americano ha mostrato un equilibrio di fondo che ha saputo contenere gli eccessi. I dazi, per esempio, sono rimasti perlopiù sulla carta o sono stati ammorbiditi da accordi negoziati.

Trump – spesso aggressivo nella retorica (TALO: Trump Always Lashes Out) – ha dimostrato nei fatti un atteggiamento più cauto (TACO: Trump Always Chickens Out). Quando i mercati hanno iniziato a tremare, ha scelto di ritirarsi piuttosto che spingere fino in fondo.

Il motore invisibile: innovazione e capitale umano

La vera forza degli Stati Uniti, tuttavia, non risiede nelle decisioni della Casa Bianca, ma nella capacità straordinaria del settore privato di innovare. In campi cruciali come l’intelligenza artificiale, la biotecnologia, la robotica e l’energia pulita, gli USA sono ancora leader assoluti.

Questa supremazia tecnologica compensa – e in prospettiva supera – gli effetti negativi delle politiche protezionistiche. Se da un lato i dazi frenano lo scambio globale, dall’altro l’innovazione americana aumenta la produttività e spinge verso una crescita potenziale superiore.

Secondo alcune proiezioni, entro la fine del decennio il tasso di crescita potenziale del PIL USA potrebbe salire dal 2% al 4% annuo, con un ulteriore balzo atteso negli anni Trenta.

Il debito? Sostenibile se la crescita accelera

Un altro tema spesso agitato come spauracchio è il debito pubblico. Ma anche qui, lo scenario cambia se si riconsidera la variabile crescita. Se l’economia accelera – come suggeriscono i trend tecnologici – il peso del debito in rapporto al PIL tenderà a stabilizzarsi e poi a diminuire.

I calcoli più allarmanti, infatti, si basano su previsioni conservative: il Congressional Budget Office ipotizza una crescita stagnante all’1,8%, ma se la spinta dell’innovazione si concretizzerà, quel parametro sarà superato ampiamente.

Il dollaro resta centrale, l’America resta centrale

Chi preconizzava la fine del “privilegio esorbitante” del dollaro come moneta di riserva globale potrebbe doversi ricredere. Finché gli Stati Uniti restano all’avanguardia per stabilità finanziaria, peso economico e supremazia tecnologica, il dollaro continuerà a essere il punto di riferimento dei mercati.

L’America quindi continuerà a crescere e a influenzare il mondo. Non perché immune agli errori politici, ma perché dotata di anticorpi robusti: una democrazia resiliente, un’economia aperta, e soprattutto un settore privato capace di reinventarsi continuamente.


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