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Migranti, fissato a 500 euro il tetto per le trasferte di avvocati e interpreti in Albania

Il Ministero della Giustizia ha stabilito un limite di 500 euro per il rimborso delle spese di viaggio e soggiorno degli avvocati e degli interpreti che assistono i migranti trasferiti in Albania. Questa misura è stata ufficializzata con il decreto del 5 luglio 2024, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 agosto 2024. Il decreto, emanato in collaborazione con il Ministero dell’Economia, regola le modalità di rimborso per i professionisti che, in base alla legge n. 14 del 21 febbraio 2024, prestano assistenza legale in presenza ai migranti ammessi al gratuito patrocinio.

Il provvedimento si inserisce nel quadro del Protocollo siglato tra il Governo italiano e quello albanese, volto a rafforzare la collaborazione in materia migratoria. Tale accordo, firmato a Roma il 6 novembre 2023, permette all’Italia di utilizzare specifiche aree in Albania per la costruzione di strutture destinate alle procedure di frontiera e al rimpatrio dei migranti. Le strutture, che possono ospitare fino a un massimo di 3.000 migranti contemporaneamente, sono gestite dalle autorità italiane e operano sotto la giurisdizione italiana, secondo la normativa nazionale ed europea.

L’articolo 4, comma 5, della legge 14/2024 stabilisce che, in caso di necessità, l’avvocato del migrante ammesso al patrocinio a spese dello Stato deve recarsi in Albania per partecipare alle udienze. Questo avviene quando la partecipazione da remoto non è possibile e il rinvio dell’udienza potrebbe compromettere i tempi del procedimento. In tali circostanze, il decreto prevede un rimborso massimo di 500 euro per le spese di viaggio e soggiorno documentate, sia per l’avvocato sia per l’interprete coinvolto.


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Vendere immobili ristrutturati con il Superbonus: un’operazione rischiosa

Secondo le più recenti interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate e alcune sentenze della Corte di Cassazione, tale operazione potrebbe essere considerata attività imprenditoriale, con conseguenze fiscali non trascurabili.

Il nodo della questione riguarda il possibile recupero delle imposte come l’IVA e l’IRAP, qualora il Fisco consideri la vendita come parte di un’attività economica vera e propria. Questo rischio si concretizza soprattutto quando la cessione dell’immobile avviene subito dopo i lavori di ristrutturazione, sfruttando il Superbonus per aumentare il valore del bene.

Con l’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2024, di nuove normative fiscali che impongono la tassazione della plusvalenza realizzata dalla vendita dell’immobile entro dieci anni dalla conclusione dei lavori, i venditori si trovano a fronteggiare una situazione ancora più complessa. Sebbene ristrutturare e poi vendere un immobile con il Superbonus sia legale, tale operazione potrebbe portare a una revisione della natura della transazione, facendola rientrare nella sfera imprenditoriale.

La Corte di Cassazione, con sentenze come la n. 36992 del 2022, ha affermato che un singolo affare di rilevante importanza economica, realizzato attraverso una serie di operazioni complesse, può configurare un’attività d’impresa. Questo implicherebbe la necessità di assoggettare la vendita all’IVA e all’IRAP. Inoltre, la normativa che regola il Superbonus esclude esplicitamente chi svolge attività imprenditoriali dal beneficio fiscale. Di conseguenza, il venditore potrebbe trovarsi a dover restituire l’intero Superbonus al Fisco.

Non si tratta di un’interpretazione isolata: anche in precedenti pronunce, come l’ordinanza n. 15931 del 2021, la Cassazione ha sottolineato che il profitto derivante da un singolo affare di rilevante portata economica può essere considerato reddito d’impresa. Questa posizione è coerente con la linea adottata dall’Agenzia delle Entrate, che fin dal 2002 ha ritenuto imprenditoriale l’attività di ristrutturare immobili al solo scopo di rivenderli, soprattutto quando l’operazione richiede una serie di adempimenti complessi dal punto di vista economico e fiscale.

 


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I grandi classici del cinema sugli avvocati: un omaggio al Festival di Venezia

In occasione dell’inizio del Festival del Cinema di Venezia, Servicematica vuole celebrare il legame profondo tra il mondo della giurisprudenza e il grande schermo. Il cinema ha spesso raccontato le storie di avvocati impegnati in cause che hanno segnato la storia, mostrando la complessità della professione forense e il peso della giustizia.

Ecco alcuni dei film più iconici dedicati agli avvocati, capolavori che continuano a ispirare e a far riflettere.

1. “La parola ai giurati” (1957) Un classico intramontabile, diretto da Sidney Lumet, che ci porta nella stanza della giuria dove un solo uomo (interpretato da Henry Fonda) lotta contro il pregiudizio e l’indifferenza per ottenere giustizia. Un vero capolavoro che mostra la forza del diritto e la responsabilità di chi lo esercita.

2. “Philadelphia” (1993) Questo toccante film, con Tom Hanks e Denzel Washington, affronta il tema della discriminazione nei confronti delle persone affette da HIV. La pellicola ha il merito di aver sensibilizzato l’opinione pubblica su un tema delicato, mettendo in luce il coraggio di un avvocato che lotta contro l’ingiustizia.

3. “Il buio oltre la siepe” (1962) Gregory Peck, nel ruolo dell’avvocato Atticus Finch, ha regalato al cinema una delle interpretazioni più memorabili della professione legale. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Harper Lee, racconta la difesa di un uomo nero accusato ingiustamente di violenza sessuale negli Stati Uniti segregazionisti degli anni ’30.

4. “Il socio” (1993) Con Tom Cruise nei panni di un giovane avvocato ambizioso, questo thriller legale diretto da Sydney Pollack esplora il lato oscuro delle grandi firme legali. Intrighi e corruzione mettono alla prova l’etica professionale e personale del protagonista.

5. “Il verdetto” (1982) Paul Newman interpreta un avvocato che cerca redenzione attraverso un difficile caso di negligenza medica. Un dramma potente diretto da Sidney Lumet che mette in luce il dilemma morale e la lotta per la giustizia.


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Ddl Sicurezza, l’allarme delle associazioni di settore: “Migliaia di aziende e posti di lavoro a rischio”

Un nuovo fronte si apre nella battaglia per la legalizzazione in Italia. Stavolta, però, non si tratta di cannabis a scopo ricreativo, ma della canapa industriale, una coltura dalle mille potenzialità, messa a rischio da un recente emendamento al Decreto Sicurezza. Confagricoltura e altre associazioni di categoria hanno espresso forte preoccupazione per questa misura che rischia di mettere in ginocchio un settore in piena espansione.

Il cuore del problema

L’emendamento in questione prevede il divieto assoluto della coltivazione, lavorazione e vendita delle infiorescenze di canapa, anche quelle a basso contenuto di THC. Una decisione che, secondo Confagricoltura, è un duro colpo al Made in Italy agroindustriale. “Si tratta di una filiera giovane, dinamica e fortemente legata ai principi della bioeconomia”, dicono dall’associazione degli agricoltori, “Un settore che sta creando occupazione, soprattutto tra i giovani, e contribuendo a rilanciare l’economia di molte aree rurali”.

Le conseguenze

Le conseguenze di questo divieto potrebbero essere devastanti. La chiusura di moltissime aziende, la perdita di migliaia di posti di lavoro e un danno all’immagine dell’Italia come paese all’avanguardia nel settore agricolo sono solo alcune delle possibili ricadute. Inoltre, la decisione potrebbe vanificare gli sforzi compiuti in questi anni per valorizzare tutte le parti della pianta di canapa, dai semi alle fibre fino alle infiorescenze.

Un’opportunità persa

L’Italia, con il suo clima favorevole, si è affermata come uno dei principali produttori di canapa in Europa. La coltivazione di questa pianta, oltre a generare ricchezza, contribuisce a migliorare la qualità del suolo, a ridurre l’impatto ambientale e a creare nuovi prodotti sostenibili. Un’opportunità che il nostro Paese sembra intenzionato a sprecare.

La voce delle associazioni

Diverse associazioni di categoria si sono unite per lanciare un appello al governo affinché ritiri l’emendamento. “Siamo di fronte a una scelta politica miope che danneggia l’economia, l’ambiente e la società, la canapa è una risorsa preziosa che non possiamo permetterci di perdere”.

Una petizione per salvare l’indotto

Per sostenere la battaglia delle associazioni di settore, tra cui Imprenditori Canapa Italia, Sardinia Cannabis e altre, è stata lanciata una petizione online che ha raccolto già migliaia di firme. L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere il governo a riconsiderare la sua posizione.

Perché è importante?

  • Sostenibilità: La canapa è una coltura ecologica, che aiuta a ripulire il terreno e può sostituire materiali inquinanti.
  • Economia: Questo settore crea lavoro, soprattutto nelle zone rurali, e contribuisce all’economia circolare.
  • Salute: I prodotti a base di infiorescenze di canapa aiutano molte persone a migliorare la propria qualità di vita.

Cosa chiedono le associazioni?

  • Ritirare l’emendamento: Vogliono che il governo elimini il divieto sulle lavorazioni delle infiorescenze di canapa.
  • Dialogo costruttivo: Chiedono al governo di parlare con loro per creare regole chiare e sostenibili per il settore.

Per firmare, cliccare sul link


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Stop ai cellulari in classe da settembre per elementari e medie

Roma – Dal prossimo anno scolastico, le aule delle scuole elementari e medie italiane si preparano a un cambiamento radicale: stop ai cellulari. Il Ministero dell’Istruzione ha infatti emanato una direttiva che vieta l’utilizzo degli smartphone in classe, anche a fini didattici.

Perché questo divieto?

La decisione è stata presa sulla base di numerosi studi internazionali che hanno evidenziato come la presenza dei cellulari in classe possa distrarre gli studenti, riducendo la loro capacità di concentrazione e apprendimento. Inoltre, l’uso eccessivo di questi dispositivi può avere un impatto negativo sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi.

Eccezioni ben precise

Tuttavia, il divieto non è assoluto. Ci sono casi in cui l’utilizzo dello smartphone può essere consentito, ma solo se strettamente necessario e debitamente motivato. Le eccezioni riguardano principalmente:

  • Alunni con disabilità o DSA: In questi casi, il cellulare può essere utilizzato come strumento compensativo, purché previsto nel Piano Educativo Individualizzato (PEI).
  • Condizioni personali documentate: In presenza di particolari condizioni personali che richiedono l’utilizzo del cellulare, come ad esempio problemi di salute, è possibile richiedere una deroga. Tuttavia, questa deve essere supportata da una documentazione medica e inserita nel Piano Didattico Personalizzato (PDP).

Come ottenere una deroga?

Per ottenere una deroga, è necessario seguire una procedura precisa:

  1. Valutazione individuale: La scuola valuterà caso per caso le richieste di deroga, sulla base di una documentazione completa e dettagliata.
  2. Motivazione rigorosa: Le motivazioni devono essere oggettive e documentate, non basate su opinioni personali o richieste generiche.
  3. Revisione periodica: Le deroghe devono essere riviste periodicamente per verificare se sussistono ancora le condizioni che le hanno giustificate.

Cosa cambia nella didattica?

Il divieto dei cellulari in classe non significa rinunciare alla tecnologia. Anzi, la scuola è invitata a valorizzare l’utilizzo di altri dispositivi come computer e tablet, sotto la supervisione dei docenti. Inoltre, le scuole dovranno lavorare per educare gli studenti all’uso consapevole delle tecnologie digitali e a prevenire i rischi connessi all’uso eccessivo dei dispositivi mobili.

Le reazioni

La decisione del Ministero ha suscitato reazioni contrastanti. Da un lato, ci sono coloro che accolgono con favore questa misura, ritenendola necessaria per garantire un ambiente di apprendimento sereno e concentrato. Dall’altro, ci sono coloro che esprimono preoccupazione per le possibili difficoltà che potrebbero incontrare gli studenti con bisogni speciali.


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Fisco più clemente: uno scudo contro le sanzioni per chi si adegua

Roma – Dal 1° settembre entra in vigore una nuova norma che promette di offrire un respiro ai contribuenti. Il decreto legislativo 87/2024, attuativo della riforma fiscale, introduce un meccanismo che consente di evitare sanzioni in caso di errori commessi in buona fede.

Come funziona?

Immaginiamo che un contribuente abbia interpretato una norma fiscale in un certo modo, diverso da quello indicato successivamente dall’Agenzia delle Entrate in una circolare o in un parere. Prima di questa nuova norma, il contribuente rischiava una sanzione per aver commesso un errore, anche se involontario.

Dal 1° settembre, le cose cambiano. Se il contribuente si accorge dell’errore entro 60 giorni dalla pubblicazione del documento dell’Agenzia e presenta una dichiarazione integrativa, correggendo l’importo dovuto, non subirà alcuna sanzione.

Perché questa novità?

L’obiettivo è quello di evitare che i contribuenti vengano puniti per errori dovuti a interpretazioni soggettive delle norme fiscali, soprattutto quando queste norme sono complesse e soggette a diverse interpretazioni. In questo modo, si vuole favorire un rapporto più collaborativo tra contribuenti e Agenzia delle Entrate.

A chi si rivolge?

Questa nuova norma si rivolge a tutti i contribuenti, dalle persone fisiche alle imprese, che si trovano ad affrontare situazioni di incertezza interpretativa. È importante sottolineare che la depenalizzazione è prevista solo per gli errori commessi a partire dal 1° settembre 2024 e che si riferiscono alle interpretazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate dopo questa data.

Cosa bisogna fare?

Per beneficiare di questa nuova norma, i contribuenti dovranno:

  • Essere informati: Tenere d’occhio le circolari e i pareri dell’Agenzia delle Entrate.
  • Essere tempestivi: Entro 60 giorni dalla pubblicazione del documento che chiarisce la corretta interpretazione, presentare una dichiarazione integrativa.
  • Agire in buona fede: La depenalizzazione è prevista solo per gli errori commessi in buona fede, ovvero quando il contribuente non aveva intenzione di evadere le tasse.

E’ importante sottolineare che la buona fede del contribuente dovrà essere dimostrata in caso di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.


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Addio alle strisce bianche? La Cassazione dice no agli spazi di sosta gratuita obbligatori

Roma – Una nuova sentenza della Corte di Cassazione getta luce su una questione che da tempo divide automobilisti e amministrazioni locali: l’obbligo di riservare spazi di sosta gratuiti nelle città.

Con l’ordinanza n. 20293 del 23 luglio 2024, i giudici hanno stabilito che nei centri storici, nelle aree pedonali e nelle zone a traffico limitato i comuni non sono tenuti a garantire parcheggi liberi.

La vicenda. Tutto è nato dal ricorso di un automobilista multato a Catania per aver parcheggiato senza pagare il ticket. L’uomo aveva contestato la sanzione, lamentando la scarsità di posti auto gratuiti nelle vicinanze. Tuttavia, i suoi ricorsi sono stati respinti sia dal Giudice di pace che dal Tribunale.

Le motivazioni della Cassazione. Secondo la Suprema Corte, la presenza di parcheggi a pagamento in zone di particolare pregio artistico o ambientale è legittima e non viola alcuna norma. L’obiettivo è quello di limitare la presenza di veicoli in questi contesti e favorire la mobilità sostenibile.


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Dal 25 agosto 2024, è entrata in vigore la riforma del codice di procedura penale, nota come “riforma Nordio”, che introduce un importante cambiamento: le assoluzioni per reati come evasione fiscale, furto, ricettazione e lesioni stradali diventano definitive, non potendo più essere appellate dal pubblico ministero.

Questa novità è stata introdotta dalla legge 9 agosto 2024, n. 114, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 10 agosto 2024, che ha modificato l’articolo 593 del codice di procedura penale. La riforma limita quindi la possibilità per il pubblico ministero di impugnare le sentenze di proscioglimento per una serie di reati per i quali il processo viene avviato con citazione diretta davanti a un giudice monocratico, come previsto dall’articolo 550 Cpp.

Con questa modifica, il legislatore ha voluto garantire una maggiore certezza del diritto, riducendo i casi in cui le sentenze di assoluzione possono essere messe in discussione, rafforzando così la stabilità delle decisioni giudiziarie.


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La Corte di Cassazione ha stabilito che l’indennità di disoccupazione Naspi non può essere concessa senza la presentazione della Dichiarazione di Immediata Disponibilità (Did) al lavoro. Con la sentenza n. 22993/2024, la Corte ha accolto il ricorso dell’Inps, che aveva posticipato l’erogazione della vecchia Aspi (l’indennità che precedeva la Naspi) al momento della presentazione della Did, che nel caso specifico era stata effettuata con alcuni mesi di ritardo rispetto alla domanda di indennità.

Questa sentenza chiarisce che per ottenere la Naspi, non è sufficiente essere disoccupati, ma è necessario dimostrare anche la volontà di rientrare nel mondo del lavoro. La Naspi, infatti, viene riconosciuta solo a coloro che, oltre a essere senza impiego, manifestano attivamente l’intenzione di cercare una nuova occupazione, come indicato dalla normativa vigente.


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Il Tribunale di Siena ha recentemente emesso un’ordinanza che solleva una rilevante questione di legittimità costituzionale riguardo all’art. 34, secondo comma, del codice penale. Tale articolo prevede che, in caso di condanna di un genitore per reati commessi abusando della responsabilità genitoriale, si applichi automaticamente la sospensione dell’esercizio di tale responsabilità. Il tribunale ha sollevato dubbi sulla costituzionalità di questa norma, ritenendo che essa potrebbe violare i principi sanciti dagli articoli 2, 3, 27, 29 e 30 della Costituzione italiana, oltre che l’art. 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo.

In particolare, la Corte è chiamata a valutare se sia costituzionalmente legittimo che la sospensione della responsabilità genitoriale sia automatica, anziché discrezionale e decisa dal giudice. Inoltre, la questione riguarda anche la durata della sospensione, che attualmente è fissata in un periodo pari al doppio della pena principale inflitta, piuttosto che corrispondere alla durata della pena stessa.

Tribunale di Siena, Ordinanza del 6 giugno 2024
Presidente: dott. Spina; Giudici: dott. Cerretelli, dott.ssa Cavaciocchi


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