Demansionamento e perdita economica: la Cassazione stabilisce un nuovo principio risarcitorio per i lavoratori

ROMA – Una nuova e importante pronuncia della Corte di Cassazione ridefinisce i confini del risarcimento in caso di demansionamento, stabilendo che un lavoratore ha diritto a essere indennizzato per la perdita di un emolumento, anche se accessorio, causata da un illegittimo mutamento di mansioni. La decisione, destinata a fare giurisprudenza, ribalta una precedente sentenza che aveva negato il risarcimento a un dipendente.

Il caso e la posizione della Cassazione

La vicenda giudiziaria ha avuto inizio con il ricorso di un lavoratore che, dopo anni di servizio nel turno di notte, con la relativa maggiorazione in busta paga, era stato spostato unilateralmente al turno diurno, subendo una significativa perdita economica. La Corte d’Appello aveva negato il risarcimento per la perdita della maggiorazione, sostenendo che si trattasse di un “compenso accessorio” non risarcibile, in quanto l’azienda aveva il diritto di modificare i turni di lavoro.

La Cassazione, con l’ordinanza 22636/2025, ha respinto questa impostazione. I giudici hanno chiarito che, sebbene il datore di lavoro possa avere la facoltà di riorganizzare i turni, questa non può legittimare un demansionamento che comporti un “danno patrimoniale” per il lavoratore. Il punto cruciale, secondo la Suprema Corte, non è la natura dell’indennità, ma il fatto che la perdita economica sia una conseguenza diretta e oggettiva di un atto illecito del datore di lavoro.


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Zangrillo annuncia la riforma degli stipendi per i dirigenti PA e mette nel mirino le pagelle dei magistrati

ROMA – La “rivoluzione del merito”, promessa da Giorgia Meloni fin dall’inizio del suo mandato, sta per entrare nel vivo. A confermarlo è il Ministro per la Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo, che annuncia l’imminente approvazione di un decreto per la riforma degli stipendi dei dirigenti statali e, in un futuro prossimo, una revisione del sistema di valutazione anche per la magistratura.

Nuovi stipendi per i manager della PA

La riforma del sistema retributivo per i dirigenti pubblici è diventata un’esigenza dopo che la Corte Costituzionale ha bocciato il precedente tetto di 240mila euro. Ora, il governo si prepara a fissare un nuovo massimale, che potrebbe arrivare fino a 360mila euro, prendendo come riferimento lo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione.

Tuttavia, Zangrillo chiarisce che non si tratterà di un “libera tutti”: i nuovi tetti non saranno uguali per tutti i manager, ma verranno graduati in base alla complessità e alla responsabilità degli incarichi. “Non è possibile che un dirigente di secondo livello abbia la stessa retribuzione di un dirigente di primo livello che ha un ruolo più complesso e corre rischi più alti”, spiega il Ministro. Questo nuovo sistema, basato su “scaglioni”, mira a rendere il percorso di carriera più incentivante, replicando i modelli del settore privato.

Il provvedimento, atteso tra la metà di settembre e ottobre, si affianca al “Ddl Merito”, già in discussione in Parlamento, che introduce un nuovo sistema di valutazione della performance dei dipendenti pubblici, legando il risultato agli obiettivi raggiunti.

La sfida sulla valutazione delle toghe

Ma la questione del merito, secondo Zangrillo, non si ferma alla Pubblica Amministrazione. Il Ministro ha apertamente sollevato la necessità di una riforma per la magistratura, un tema che è già sul tavolo del Guardasigilli Carlo Nordio. “Le pagelle dei giudici sono tutte ‘eccellenti’, serve una riforma del merito”, ha dichiarato Zangrillo, facendo eco a una critica di lunga data del centrodestra.

L’obiettivo è intervenire sul sistema di valutazione, oggi regolato dalla legge Cartabia, che non sempre, a detta del governo, riesce a distinguere l’operato dei singoli magistrati, portando a promozioni quasi automatiche anche in casi di negligenza o incompetenza. Sebbene la questione sia delicatissima, con la magistratura associata pronta a fare le barricate, l’esecutivo non esclude di rimettere mano a questa materia nei prossimi mesi.

L’intento è lo stesso che guida la riforma per i dipendenti pubblici: premiare l’efficienza e la professionalità e mettere fine a una cultura del “tutti promossi”, che, come ha ironicamente notato Zangrillo, non rispecchia la realtà percepita dai cittadini.


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L’Italia rischia la paralisi: l’estrema sinistra e i sindacati minacciano di bloccare i porti in solidarietà con la “Flottiglia per Gaza”

ROMA – L’Italia rischia un “autunno caldo”, segnato da proteste e azioni dirompenti. La mobilitazione per la “Flottiglia per Gaza”, l’insieme di imbarcazioni che cercano di forzare il blocco navale israeliano per portare aiuti alla Striscia, sta diventando il punto di convergenza per un’ampia galassia di movimenti di sinistra, centri sociali e sindacati. L’obiettivo dichiarato è uno: bloccare il Paese.

Le minacce dal Nord-Est

La tensione si concentra in particolare sui porti. Collettivi antagonisti del Nord-Est, tra cui il centro sociale “Pedro” (storicamente legato alla figura di Luca Casarini) e il sindacato Adl Cobas, hanno lanciato un chiaro avvertimento: se le navi dirette a Gaza dovessero essere fermate, loro “si mobiliteranno per bloccare il porto di Venezia”.

Questa “azione diretta” si inserisce in un clima di crescente ostilità. I movimenti, reduci da manifestazioni come quella al Lido di Venezia, che definiscono “una straordinaria dimostrazione di forza collettiva” contro lo “Stato genocida di Israele”, sono pronti ad alzare il tiro. La parola d’ordine è la “disobbedienza”.

Mobilitazione a 360 gradi

La protesta non si limita ai porti. La propaganda pro-Palestina si sta diffondendo anche nelle università e nelle scuole. Per la giornata di domani, il collettivo giovanile “Cambiare Rotta” ha lanciato un appello alla mobilitazione generale di studenti e professori a sostegno della Flottiglia. A Roma, sono già stati annunciati blitz e sit-in nei rettorati degli atenei di Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza, oltre che all’Ufficio scolastico regionale. L’obiettivo, ancora una volta, è lo stesso: “se non fermano il genocidio, fermeremo il Paese”.

Le voci della protesta trovano risonanza anche in ambienti accademici. L’attivismo a favore della causa palestinese vede tra le sue fila figure di spicco come il rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Tomaso Montanari, che non esita a definire il conflitto “un genocidio made in Italy”.


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Fiera del Lavoro: 652mila euro in tre giorni per Job&Orienta, l’opposizione grida allo “spreco colossale”

Bari La recente edizione di Job&Orienta, la fiera del lavoro che si è svolta a Bari dal 14 al 16 maggio, è finita al centro di un acceso scontro politico. L’evento, promosso dalla Regione Puglia, ha sollevato un’ondata di polemiche a causa dei costi esorbitanti e della modalità di affidamento dei servizi, avvenuta tramite una procedura negoziata anziché una gara d’appalto pubblica.

Le cifre, rese pubbliche solo in questi giorni, lasciano poco spazio a interpretazioni: la Regione ha speso 652mila euro in soli tre giorni. Un costo che il consigliere di Fratelli d’Italia, Paolo Pagliaro, definisce senza mezzi termini “uno spreco colossale che grida vendetta”.


Le voci di spesa sotto la lente d’ingrandimento

L’analisi dettagliata dei costi, fornita da Pagliaro, mette in luce una serie di spese che hanno destato sconcerto. Tra le più clamorose, si registrano:

  • 10mila euro per “due desk e due sgabelli di benvenuto”.
  • 90mila euro per la cartellonistica interna al quartiere fieristico.
  • 45mila euro destinati alla produzione di video per i canali social della Regione e di Arpal.
  • 20mila euro spesi per garantire l’esclusiva su Job&Orienta, impedendo a Veronafiere di organizzare l’evento in altre città pugliesi.
  • 60mila euro per interviste e video, una somma che supera l’intero budget annuale per le comunicazioni del Consiglio regionale.

Secondo Pagliaro, diverse di queste voci, se considerate singolarmente, superano la soglia che rende obbligatoria l’indizione di una gara d’appalto. Questa frammentazione delle spese appare come un tentativo di aggirare le normative per affidare il progetto direttamente a Veronafiere.


Un affare per pochi, non per i pugliesi

Il consigliere di opposizione non nasconde la sua indignazione. “Job&Orienta è stato un grande affare, ma non per i pugliesi”, ha dichiarato. A suo avviso, i servizi acquistati “a prezzi di mercato sarebbero costati meno di un quinto”, e l’unica a trarne un guadagno “da capogiro” sarebbe stata proprio Veronafiere.

La polemica si è ulteriormente accesa per la dicitura apposta alla fine del contratto, che recita: “il rischio di maggiori costi è in capo a Veronafiere”, l’unico a conoscere i costi analitici degli stessi. Una postilla che suona come una beffa per l’opposizione, che ora pretende di visionare le lettere d’incarico, le fatture e ogni singolo dettaglio delle spese sostenute.


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Welfare e bonus pubblici, le mafie tra i veri beneficiari

Il sogno di una misura di inclusione sociale capace di aiutare i più fragili si è trasformato, in molti casi, in un canale privilegiato per le mafie. Lo dimostrano le inchieste della magistratura e i rapporti della Guardia di Finanza, che solo tra il 2024 e i primi mesi del 2025 hanno scoperto oltre 27 mila indebiti percettori di Reddito di cittadinanza, per un danno stimato di 1,7 miliardi di euro.

Un problema strutturale, legato non tanto alla finalità della misura, quanto alla sua gestione: procedure automatiche, assenza di verifiche preventive e una vigilanza insufficiente da parte dell’Inps hanno spalancato le porte a furbetti e clan. Non a caso, la Corte dei Conti ha più volte denunciato la voragine finanziaria generata dal sussidio, soprattutto nei primi anni di applicazione.

Le denunce inascoltate di Gratteri

Già nel pieno del dibattito politico, l’allora procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, aveva lanciato l’allarme: “In ogni indagine antimafia – ricordava – abbiamo trovato decine di persone che cambiavano residenza da un giorno all’altro per ottenere il Reddito di cittadinanza senza averne diritto”. E ancora, la fotografia grottesca del “boss col Suv da 80mila euro che a scuola chiede il tablet gratuito per la figlia”.

Secondo il magistrato, sarebbe bastato un semplice incrocio di dati tra Inps, Prefetture e procure per evitare che le cosche spolpassero risorse pensate per emancipare i poveri dalla loro influenza. Un monito che, all’epoca, rimase sostanzialmente inascoltato.

Non solo il Reddito: gli altri canali

Il Reddito grillino non è stato l’unico strumento finito nel mirino delle organizzazioni criminali. Dalla legge 104 alle false invalidità, dal Superbonus 110% ai Buoni Spesa Covid, le cosche hanno mostrato una straordinaria capacità di adattamento. La DIA già nel 2020 parlava esplicitamente di “ingordigia ‘ndranghetista”, documentando come i clan calabresi – dai Piromalli ai Mole, dai Pesce-Bellocco ai Tegano, fino ai Mancuso e ai Grande Aracri – avessero intercettato in maniera sistematica fondi pubblici destinati all’assistenza sociale o alla ripresa economica.

Un metodo collaudato

Il meccanismo è sempre lo stesso: risorse destinate agli ultimi che finiscono nelle mani dei più forti, con boss e affiliati che si presentano come nullatenenti, ottengono case popolari e sussidi, mentre continuano a gestire traffici milionari. Un cortocircuito che mina la fiducia dei cittadini nello Stato e rafforza il controllo mafioso sul territorio.

La lezione mancata

“Con il Reddito di emergenza e con gli aiuti Covid si rischia lo stesso fenomeno”, aveva profetizzato Gratteri, sottolineando come l’assenza di controlli efficaci spalancasse la porta a nuove distorsioni. Una previsione che, a giudicare dagli ultimi dati e dalle indagini in corso, si è rivelata tristemente fondata.


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Spese condominiali, paga il venditore se la delibera è precedente al rogito

Chi vende casa deve fare attenzione alle delibere condominiali approvate prima del rogito: le relative spese restano infatti a suo carico, anche se il pagamento viene richiesto solo dopo la stipula del contratto definitivo. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24236 del 30 agosto 2025, destinata a incidere sui rapporti tra venditori e acquirenti di immobili condominiali.

Il caso della caldaia condominiale

La vicenda riguardava la sostituzione della caldaia centralizzata, deliberata dall’assemblea pochi giorni prima della compravendita. Il venditore sosteneva che il beneficio dell’intervento sarebbe spettato unicamente al nuovo proprietario, e che pertanto fosse quest’ultimo a dover sostenere i costi. La Suprema Corte ha però respinto tale impostazione, stabilendo che ciò che conta è la data della delibera: se adottata prima del rogito, la spesa grava su chi era proprietario in quel momento.

Possibili accordi tra le parti

I giudici hanno comunque precisato che nulla vieta a venditore e acquirente di pattuire diversamente, ad esempio concordando una riduzione del prezzo a fronte dell’assunzione del costo da parte del compratore. In assenza di un accordo esplicito, tuttavia, resta ferma la responsabilità del venditore.

Il principio giuridico richiamato

La Cassazione ha ribadito che, in materia di innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazioni sulle parti comuni, il criterio da applicare è quello della titolarità dell’immobile al momento della delibera condominiale. Anche se le opere vengono eseguite successivamente alla vendita, il soggetto tenuto a partecipare alla spesa resta chi era proprietario al momento della decisione assembleare.

Solidarietà e diritto di regresso

Resta comunque in vigore il principio di solidarietà previsto dall’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, per cui l’acquirente può essere chiamato dal condominio a pagare i contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. In questo caso, tuttavia, egli ha diritto di rivalersi sul venditore, essendo l’obbligazione sorta prima del trasferimento della proprietà.


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Impugnazioni via PEC, la Consulta chiamata a decidere sui limiti della riforma Cartabia

Un semplice errore nell’indirizzo PEC può compromettere irrimediabilmente il diritto di difesa? La questione, di grande rilevanza pratica per avvocati e cittadini, approda davanti alla Corte costituzionale.

Con l’ordinanza n. 30071, la Cassazione ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’articolo 87-bis, comma 7, lettera c), del decreto legislativo n. 150/2022, introdotto dalla riforma Cartabia. La norma prevede che l’impugnazione sia dichiarata inammissibile se trasmessa a un indirizzo PEC diverso da quello dell’ufficio che ha emesso il provvedimento, anche quando l’atto perviene comunque al giudice competente entro i termini di legge.

Il caso concreto

Il ricorso trae origine da un reclamo proposto da un detenuto al Tribunale di sorveglianza, tramite posta elettronica certificata, ma inviato all’indirizzo dell’ufficio giudiziario e non a quello specifico della sezione di sorveglianza che aveva adottato il provvedimento. Nonostante la coincidenza fisica delle sedi e la circostanza che l’atto fosse comunque arrivato al giudice competente, il Tribunale dichiarava l’inammissibilità del reclamo.

I rilievi della Cassazione

Secondo la Suprema Corte, l’esigenza di rapidità e certezza delle comunicazioni processuali non può tradursi in un ostacolo sproporzionato all’accesso alla giustizia. Il formalismo rigido della norma rischia infatti di comprimere il diritto a un equo processo sancito dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali.

La Cassazione ha quindi rimesso la questione alla Consulta, chiamata a valutare se l’impossibilità di sanare un vizio meramente formale rappresenti una compressione eccessiva delle garanzie difensive, soprattutto nei procedimenti successivi al primo grado previsti dall’ordinamento.

Verso un chiarimento costituzionale

La decisione della Corte costituzionale potrà incidere significativamente sull’interpretazione delle regole processuali introdotte dalla riforma Cartabia e, più in generale, sul rapporto tra esigenze di efficienza del sistema giudiziario e tutela effettiva dei diritti. Una pronuncia che gli operatori del diritto attendono con particolare attenzione, perché potrebbe segnare un punto di svolta nell’uso degli strumenti telematici nel processo penale e civile.


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Banche venete, la Cassazione conferma le sanzioni Consob

Nessuno sconto sulle responsabilità emerse nei casi Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. Con quattro ordinanze depositate dalla Seconda sezione civile, la Corte di Cassazione ha confermato integralmente le sanzioni amministrative irrogate da Consob nei confronti di amministratori e sindaci delle due banche, a seguito delle irregolarità che hanno segnato i primi anni dello scorso decennio.

Le ordinanze, rubricate dai numeri 24238 a 24241, respingono i ricorsi presentati da alcuni ex amministratori e sindaci delle due popolari venete, già destinatari di sanzioni pecuniarie comprese tra i 30mila e i 140mila euro. Le contestazioni spaziavano dall’omessa adozione di procedure adeguate, alle scorrettezze in materia di valutazione di adeguatezza delle operazioni, fino alle pratiche opache nei trasferimenti di azioni e nei finanziamenti concessi ai clienti per l’acquisto di titoli propri.

Le violazioni contestate

Per Veneto Banca, le irregolarità riguardavano in particolare i rapporti con la clientela e i meccanismi di finanziamento incrociato per sostenere il valore delle azioni. Quanto a Popolare di Vicenza, sotto la lente era finito soprattutto l’aumento di capitale del 2014, accompagnato da informazioni poi rivelatesi non veritiere e da gravi ritardi nell’evasione delle richieste di disinvestimento dei soci.

Nessun bis in idem

Uno dei punti sollevati nei ricorsi riguardava la presunta natura “penale” delle sanzioni Consob, che – secondo i ricorrenti – avrebbe comportato una duplicazione rispetto alle condanne per manipolazione del mercato. La Cassazione, invece, ha ribadito che le sanzioni amministrative previste dagli articoli 190 e seguenti del Testo unico della finanza non sono assimilabili a quelle penali: hanno finalità e incidenza diverse e non pongono quindi problemi di compatibilità con il principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 6 della Cedu.

I doveri del collegio sindacale

La Suprema Corte ha inoltre richiamato l’attenzione sul ruolo dei sindaci nelle banche. La complessità dell’organizzazione interna, sottolineano i giudici, non può ridurre o attenuare l’obbligo di vigilanza di ciascun componente del collegio sindacale. In caso di carenze nei sistemi di controllo e nelle procedure aziendali, i sindaci rispondono per concorso omissivo “quoad functionem”. Non solo devono vigilare sul corretto operato della banca, a tutela degli azionisti e degli investitori, ma sono anche tenuti a denunciare immediatamente eventuali anomalie alla Banca d’Italia e alla stessa Consob.


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Giustizia amministrativa low cost: con 60 euro si può arrivare al Consiglio di Stato

Un procedimento amministrativo di alto livello, con decisione finale del Consiglio di Stato o del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Sicilia, a costi quasi simbolici. Non è fantascienza, ma la realtà del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, istituto giuridico nato nell’Ottocento e tuttora utilizzato, soprattutto da chi intende contestare provvedimenti in materia edilizia, urbanistica, ambientale o fiscale.

Introdotto con le cosiddette leggi Rattazzi del 1865, il ricorso straordinario si presenta come una delle forme più complete di “ADR” (Alternative Dispute Resolution) applicate al diritto amministrativo. La sua peculiarità è quella di coniugare la funzione consultiva del Consiglio di Stato con effetti pratici assimilabili a una sentenza: il parere reso dai giudici amministrativi, infatti, viene formalizzato in un decreto presidenziale vincolante per le amministrazioni coinvolte.

Accessibile a tutti, senza obbligo di avvocato

A differenza del ricorso al TAR, per il ricorso straordinario non è obbligatoria l’assistenza di un legale: può proporlo anche un privato cittadino o un’impresa senza intermediazioni professionali. I costi sono minimi: il contributo unificato ammonta a 650 euro, ridotto a 100 in Sicilia in base a recenti norme a sostegno dei cittadini con redditi medio-bassi.

Il procedimento, che va attivato entro 120 giorni dalla conoscenza dell’atto, si caratterizza per un contraddittorio ampio: le parti possono depositare memorie e documenti, ottenere – in presenza dei requisiti – la sospensione cautelare dell’atto impugnato e, se necessario, persino adire l’azione di ottemperanza contro le amministrazioni che non si adeguano alla decisione.

Tempi contenuti e garanzia di qualità

Nonostante la natura amministrativa, il ricorso straordinario offre tempistiche competitive: in media poco più di un anno per la definizione, con tempi analoghi sia al Consiglio di Stato che al CGA siciliano. Il valore del parere, reso da collegi di magistrati altamente qualificati, garantisce una solidità giuridica non inferiore a quella di una sentenza amministrativa di annullamento.

La rivoluzione digitale: basta un clic

Dal 2014, la Regione Siciliana ha digitalizzato il procedimento: tramite una piattaforma online accessibile con SPID o CIE, è possibile caricare il ricorso e la documentazione direttamente da casa, monitorando lo stato dell’iter in tempo reale. Una semplificazione che rende la procedura ancora più veloce ed economica, riducendo drasticamente la burocrazia.

Una giustizia “a portata di clic”

Definito dal giurista Giovanni Cattaneo nell’Italia liberale come “una giustizia gratuita, perché non costa più che un foglio di carta”, oggi il ricorso straordinario è ancora più immediato: il foglio non serve nemmeno, basta un clic. Una forma di tutela che, pur poco conosciuta, resta una via efficace, semplice e democratica per reagire agli atti illegittimi della pubblica amministrazione.


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Ministero della Giustizia, i direttori in sciopero contro la soppressione del loro ruolo

Mercoledì 3 settembre 2025 gli uffici giudiziari italiani si fermeranno: i direttori del Ministero della Giustizia hanno proclamato uno sciopero nazionale, accompagnato da presidi e iniziative di protesta in diverse città.

Al centro della mobilitazione c’è la bozza del nuovo ordinamento professionale del personale non dirigenziale dell’Amministrazione giudiziaria, diffusa dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria lo scorso 26 giugno. Il testo prevede la soppressione del profilo del direttore, con il suo assorbimento nella più generica famiglia professionale dei servizi amministrativi dell’Area Funzionari.

Le contestazioni dei direttori

Il Coordinamento nazionale direttori giustizia giudica la misura “priva di fondamento giuridico” e denuncia il rischio di un demansionamento strutturale: “Si tratta di un intervento che svilisce la dignità professionale e contraddice i principi di buona amministrazione”.

I direttori richiamano il D.M. Giustizia del 9 novembre 2017, che attribuisce loro compiti di natura tecnica, gestionale e specialistica: funzioni vicarie del dirigente, attività ispettive, formazione del personale e partecipazione a commissioni ministeriali. Attività che – sottolineano – rispondono pienamente ai requisiti dell’Area delle Elevate Professionalità introdotta dal CCNL Funzioni Centrali 2022-2024.

La battaglia legale

La vertenza non resta confinata alla protesta sindacale. Il 12 luglio scorso, presso il Tribunale del Lavoro di Napoli, è stato depositato il primo ricorso individuale da parte di un direttore in servizio, per accertare il demansionamento subito. È il primo tassello di una battaglia giudiziaria che si affianca allo stato di agitazione permanente già dichiarato.

L’appello al dialogo

Chiediamo un confronto serio e costruttivo – afferma Nunzia Paudice, presidente del Coordinamento – per modificare la bozza dell’ordinamento e tutelare le funzioni e l’identità professionale dei direttori. In assenza di risposte concrete, siamo pronti a proseguire con ulteriori iniziative sindacali e giudiziarie”.


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