Civile, il Governo corre ai ripari: incentivi e smart working per smaltire l’arretrato

Meno di un anno per recuperare i ritardi e centrare gli obiettivi PNRR sulla giustizia civile: il Governo accelera e vara un pacchetto di misure urgenti per potenziare gli uffici più in difficoltà. Il decreto legge 117/2025, in vigore dal 9 agosto e ora all’esame della Camera, punta sulla razionalizzazione delle risorse già disponibili: incentivi economici per i magistrati che accettano trasferimenti temporanei, smaltimento dei fascicoli a distanza e coinvolgimento di giudici onorari e neo-assunti.

Gli obiettivi PNRR e il ritardo da colmare

Il piano europeo impone due traguardi principali: ridurre del 40% i tempi della giustizia rispetto al 2019 e tagliare del 90% le cause pendenti iscritte tra il 2017 e il 2022 nei tribunali e dal 2018 al 2022 nelle corti d’appello. Nonostante l’obiettivo intermedio di smaltimento sia stato raggiunto a fine 2024, la strada è ancora lunga: a inizio anno restavano da definire 200mila procedimenti nei tribunali e 35mila in appello.

Il vero nodo, però, è la durata complessiva: il disposition time – l’indicatore che stima il tempo necessario a definire i procedimenti – ha segnato un calo del 24,4% rispetto al 2019, ma siamo ancora lontani dal target. A marzo 2025, il tempo medio era di 467 giorni nei tribunali, 492 nelle corti d’appello e 940 in Cassazione, per un totale di 1.899 giorni.

Incentivi per i trasferimenti e giudici “da remoto”

Per le corti d’appello più indietro, il decreto prevede un fondo di 2,7 milioni di euro per indennità destinate ai magistrati con almeno una valutazione di professionalità che accettano di trasferirsi temporaneamente. Il Csm individuerà le sedi e dovrà deliberare i trasferimenti entro il 23 settembre.

Per i tribunali, invece, arriva il “supporto a distanza”: fino a 500 magistrati potranno lavorare da remoto su almeno 50 fascicoli ciascuno, limitatamente ai procedimenti già maturi per la decisione. L’operazione è volontaria e remunerata con un incentivo: per il 2026 sono stati stanziati 15 milioni di euro.

Onorari e tirocinanti in prima linea

Nessuna indennità aggiuntiva per i giudici onorari di pace, che potranno però sostituire i togati nelle sedi critiche. Inoltre, il tirocinio dei vincitori del concorso 2023 cambia struttura: resta di 18 mesi, ma con inserimento più rapido e un periodo di sei mesi nelle corti d’appello per accelerare l’operatività.

Piani straordinari e deroghe sui carichi di lavoro

I capi degli uffici giudiziari coinvolti dovranno predisporre piani straordinari, anche derogando ai criteri ordinari di assegnazione, per concentrare le risorse sulle materie rilevanti per il PNRR, sacrificando – se necessario – altri contenziosi.

Le proposte rimaste fuori

Alcune soluzioni avanzate dal Csm a luglio non sono state accolte: niente utilizzo dei magistrati in pensione e nessun intervento per deflazionare il contenzioso su immigrazione e cittadinanza, due aree ad alta intensità di ricorsi.


LEGGI ANCHE

Non dare il massimo per dare il massimo: la regola dell’85%

Avvocato, hai mai sentito parlare della regola dell’85%? La regola è nata da Carl Lewis, il cosiddetto Figlio del Vento. Lewis, detentore di record di…

Dispositivi medici sempre più digitali: ecco la proposta Ue per le istruzioni d’uso elettroniche

La Commissione europea punta ad aggiornare il regolamento sulle eIFU, estendendo l’utilizzo delle istruzioni digitali a tutti i dispositivi destinati ai professionisti sanitari. Un passo…

Su WhatsApp potremo modificare i messaggi dopo l’invio

WhatsApp consentirà di modificare i messaggi dopo l’invio. La novità, appena rilasciata, consentirà agli utenti di correggere eventuali errori, o di cambiare idea, ma entro…

Evasione fiscale, allarme Corte dei Conti: incassato meno di un quinto di quanto accertato

La lotta all’evasione fiscale in Italia continua a mostrare risultati deludenti. A certificarlo è la Corte dei Conti, che nella relazione di accompagnamento al Rendiconto Generale dello Stato evidenzia come, a fronte di 72,3 miliardi di euro di imposte evase accertate nel 2024, il gettito effettivamente recuperato non superi i 12,8 miliardi, pari al 17,7%. Una quota che conferma la difficoltà del sistema nel trasformare gli accertamenti in entrate reali.

Cartelle esattoriali: incassi al minimo
Ancora più critico il dato relativo alle iscrizioni a ruolo: su 40,7 miliardi di importi accertati, l’incasso si ferma a 1,3 miliardi, appena il 3,1%. Un fenomeno che, secondo i magistrati contabili, trova spiegazione nella «radicata aspettativa di successive rottamazioni» e nella convinzione diffusa di poter eludere le procedure esecutive. In altre parole, molti contribuenti scelgono di non pagare, sperando in una futura sanatoria.

Controlli fiscali: il fisco “bussa” una volta ogni 71 anni
Il rapporto della Corte dei Conti sottolinea anche la scarsità dei controlli sostanziali, quelli che prevedono accessi diretti e verifiche sul campo. Nel 2024 l’Agenzia delle Entrate ne ha effettuati solo sul 1,4% delle attività imprenditoriali, professionali e autonome: 129mila contribuenti su circa 9 milioni. In media, significa che un contribuente potrebbe essere sottoposto a ispezione una volta ogni 71 anni. Frequenze ancora più basse in alcuni settori chiave come commercio, ristorazione e sanità, fermi tra l’1,3% e l’1,7%. Nelle costruzioni la media è di un controllo ogni 20 aziende, mentre per gli intermediari immobiliari uno ogni 50.

Irregolarità e scarsa compliance
Il documento analizza anche il triennio 2019-2021, evidenziando un’adesione molto bassa alle comunicazioni di irregolarità inviate ai contribuenti. Nel 2021, su 4,5 miliardi contestati a persone fisiche, i versamenti si sono fermati a 448 milioni (meno del 10%). Le società di persone hanno pagato solo l’8,4% delle somme richieste dopo le comunicazioni, mentre per le società di capitali il tasso sale al 9,6%, nonostante un generale livello di regolarità dichiarativa del 93,7%.

Focus Iva: recuperato meno del 20%
Le criticità emergono anche per l’Iva: su 9,6 miliardi di imposte contestate, solo 1,7 miliardi sono stati versati, il 17,26%. Nel complesso, nel triennio considerato, appena 5,2 miliardi su 30 sono entrati nelle casse dello Stato. «Le riscossioni delle imposte richieste a seguito di comunicazioni di irregolarità – osserva la Corte – costituiscono mediamente poco più del 16% del totale dovuto».

Un sistema poco deterrente
Il divario tra accertato e incassato, unito alla rarità dei controlli, solleva dubbi sull’efficacia dell’attuale sistema di compliance fiscale. «Il rapporto tra numerosità dei contribuenti e controlli – si legge nel documento – incide direttamente sulla capacità deterrente dell’azione ispettiva».


LEGGI ANCHE

SEND

Semplificare le comunicazioni legali: al via SEND, il Servizio Notifiche Digitali

Il Dipartimento per la Trasformazione Digitale e PagoPA hanno annunciato la partenza del progetto SEND, il Servizio Notifiche Digitali. Si tratta di una nuova piattaforma…

Cassa Forense, contributo minimo integrativo: rinvio della riscossione a dicembre

Cassa Forense ha deliberato di differire alla data del 31 dicembre 2023 la riscossione del contributo minimo integrativo nella misura di 805 euro. Resta fermo,…

esame avvocato servicematica

Esame avvocato, la proposta per continuare con le modalità straordinarie

Il Ministero della Giustizia è all’opera su una proposta legislativa che estenda anche alla prossima sessione dell’esame per diventare avvocato le modalità attualmente utilizzate. Nella…

Il ritorno dello Stato nell’economia: la geopolitica riscrive le regole del capitalismo

C’erano una volta le stateless company, multinazionali così potenti da sfuggire a qualsiasi appartenenza nazionale. Oggi quello scenario appare superato: il capitalismo sta vivendo una trasformazione profonda, segnata dal ritorno prepotente dello Stato nell’economia. Non più solo regolatore, ma attore diretto, soprattutto nei settori strategici.

L’ultimo segnale arriva dagli Stati Uniti, dove la Casa Bianca valuta l’acquisto del 10% di Intel, non per salvarla, ma per orientarne le strategie industriali. Una mossa che, fino a pochi anni fa, sarebbe stata inconcepibile nella patria del libero mercato. Ma la logica è chiara: in un mondo spaccato dalla competizione geopolitica, lasciare le redini ai soli privati è diventato un rischio.


Dal mito del mercato alla necessità del controllo

Per decenni, il dogma liberista ha spinto verso privatizzazioni e deregolamentazione, nella convinzione che l’apertura dei mercati fosse sinonimo di democrazia. Il crollo del Muro di Berlino sembrò confermare quella teoria. Oggi sappiamo che non era così: la globalizzazione ha creato vincitori e perdenti, erodendo il potere della politica a vantaggio delle grandi corporation, molte delle quali hanno goduto di vantaggi fiscali e normativi senza precedenti.

Ora il pendolo oscilla nella direzione opposta. Settori come spazio, intelligenza artificiale, difesa, semiconduttori e gestione delle terre rare sono considerati strategici: affidarne il controllo esclusivo al mercato significa esporre interi Paesi a vulnerabilità sistemiche.


Il compromesso americano: Big Tech e Stato alleati

Il caso Intel non è isolato. Il colosso dei chip Nvidia, che da solo capitalizza quanto il Pil combinato di Italia e Spagna, ha accettato di versare allo Stato una quota dei profitti generati dai semiconduttori destinati all’intelligenza artificiale. Nel Novecento, una misura simile sarebbe sembrata un’eresia; oggi è una scelta obbligata per garantire sicurezza e competitività.

“Assistiamo a una metamorfosi del capitalismo americano – spiega Andrea Colli, docente di Storia economica alla Bocconi –. Il potere pubblico non interviene più solo per salvare aziende in crisi, ma per indirizzare interi settori, trasformando le multinazionali in strumenti di politica industriale”.


Il modello cinese e l’illusione della concorrenza

Un’analisi pubblicata su Foreign Affairs è esplicita: la Cina ha vinto la sfida industriale e tecnologica grazie alla presenza massiccia dello Stato nell’economia. Per l’Occidente, la strada non è ostacolare Pechino con dazi o sanzioni, ma rafforzare le proprie filiere produttive attraverso investimenti pubblici e partecipazioni dirette.

Non è più il tempo del mercato puro: la concorrenza, avverte Colli, diventa un limite; in alcuni comparti, i monopoli assumono un valore strategico.


Multinazionali e politica: un’alleanza inevitabile

Questo nuovo scenario cambia le regole del gioco. Le grandi imprese, per sopravvivere e crescere, devono accettare la mano pubblica e, al contempo, esercitare pressione per modificare norme considerate penalizzanti. Una simbiosi che rischia di mettere in secondo piano principi fino a ieri intoccabili: separazione dei poteri, indipendenza delle autorità di controllo, governance ispirata alla trasparenza.

Le promesse di sostenibilità di pochi anni fa – dalle campagne contro il climate change alle iniziative Net Zero – appaiono oggi sbiadite, vittime della realpolitik economica. Erano impegni reali o solo retorica di facciata? La risposta a questa domanda dirà molto sul futuro di un capitalismo che, sotto la spinta della geopolitica, sta cambiando pelle.


Il ritorno dello Stato non è una parentesi, ma un nuovo paradigma: il capitalismo del XXI secolo non si gioca più solo nelle Borse, ma nelle stanze dei governi. Con un interrogativo aperto: quanto di questo potere serve davvero all’interesse generale e quanto, invece, agli azionisti delle grandi corporation?


LEGGI ANCHE

Smarter Italy: il programma entra nel vivo!

È cominciata la fase operativa del programma “Smarter Italy”. Il programma è finanziato e promosso dal Ministero dello sviluppo economico, dal Dipartimento per la trasformazione digitale…

condanna davigo

Rivelazione di segreto d’ufficio: 15 mesi di carcere per Piercamillo Davigo

Piercamillo Davigo, membro del pool Mani Pulite e del Csm fino al 2020, è stato condannato in primo grado dal tribunale di Brescia a un…

Rete divisoria carceri

Osservatorio Carcere UCPI: “Carceri presentati come Grand Hotel, basta disinformazione” 

Pubblichiamo in versione integrale il documento della Giunta e dell’Osservatorio Carcere UCPI a proposito della disinformazione sulle carceri Quando attraverso la televisione pubblica nazionale si…

Pensioni, il posto fisso vale doppio: ex dipendenti pubblici i “Paperoni” dell’Inps

Il posto fisso continua a garantire vantaggi, anche dopo la fine della vita lavorativa. A certificarlo è il XXIV Rapporto annuale Inps, che fotografa una realtà evidente: i pensionati del settore pubblico incassano mediamente assegni molto più alti rispetto agli ex lavoratori privati. 2.221 euro lordi al mese contro i 1.408 euro percepiti da chi ha trascorso la carriera nel privato.

Un divario che diventa ancora più marcato se si scorre la classifica delle categorie: gli ex sanitari guidano la graduatoria con una pensione media di 5.117 euro, seguiti dagli ex statali (2.298 euro). Più in basso, ma pur sempre sopra la media nazionale (1.444 euro), gli ex insegnanti, che con 1.689 euro risultano i meno fortunati tra i privilegiati.


Una spesa che pesa

Nel 2024 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 320,6 miliardi di euro, di cui 227 miliardi (70%) destinati al settore privato e 93,5 miliardi (30%) al pubblico. Un apparente equilibrio che però nasconde una sproporzione: i pensionati pubblici rappresentano il 18,7% del totale, ma assorbono quasi un terzo della spesa. Tradotto: un pensionato privato costa “1”, un pensionato pubblico 1,71.

Questo accade perché, a differenza del privato, dove i contributi previdenziali sono legati alla produzione di reddito e al versamento da parte di imprese e lavoratori, nel pubblico le somme destinate a pensioni derivano direttamente dalla fiscalità generale. Contributi e trattamenti, quindi, diventano “partite di giro” a carico dello Stato, senza un vero accumulo nel tempo.


L’universo pensioni in numeri

Nel 2024 i pensionati italiani erano circa 16,3 milioni, di cui oltre il 51% donne. L’importo medio lordo delle pensioni da lavoro si è attestato a 1.444 euro al mese, mentre le prestazioni assistenziali (pensioni sociali, assegni e invalidità civile) restano ferme poco sopra i 500 euro mensili.

Analizzando le singole gestioni, emerge che:

  • 47% delle pensioni è a carico del Fondo lavoratori dipendenti (privato), con una media di 1.408 euro;

  • 30% ricade sulle gestioni autonome e parasubordinati (media 942 euro);

  • 19% riguarda la gestione dipendenti pubblici, con una media di 2.221 euro.


Chi sono i “Paperoni” dell’Inps

Tra le categorie pubbliche, il primato spetta agli ex sanitari, con una media mensile di 5.117 euro, seguiti dagli ex statali (2.298 euro), ufficiali giudiziari (1.933 euro) e dipendenti degli enti locali (1.886 euro). Chiudono la classifica i docenti, con 1.689 euro, comunque sopra il livello medio nazionale.

Sul fronte opposto, i più penalizzati restano gli ex artigiani (1.138 euro), gli ex commercianti (1.090 euro), gli agricoltori (792 euro) e gli iscritti alla gestione separata, che si fermano a 289 euro.


Una torta unica, ma fette diseguali

Il sistema pensionistico italiano si basa sul criterio della ripartizione: i contributi versati oggi finanziano le pensioni di oggi. Ma con una torta unica che ingloba sia pubblico che privato, il dato che emerge dal rapporto Inps è chiaro: quando si spartisce, i pensionati pubblici prendono la fetta più grossa.


LEGGI ANCHE

Comuni in allarme per i tagli: protesta bipartisan dei sindaci italiani

Anci attende ora la risposta del Parlamento, ma l’allarme è chiaro: se i tagli non verranno rivisti, l’impatto sui servizi pubblici potrebbe essere significativo e…

730 precompilato 2024

Compensazioni avvocati: riaperti i termini per utilizzare i crediti da gratuito patrocinio

Cassa Forense comunica la riapertura della prima finestra temporale per l’anno 2024 per la compensazione dei crediti da gratuito patrocinio con i contributi previdenziali dovuti.…

Mediazione civile in crescita nel 2023: sempre più accordi, soprattutto nelle controversie di basso valore

Aumentano del 15% le iscrizioni ai procedimenti di mediazione rispetto al 2022, con un totale di circa 178.182 casi. Elevata la presenza degli avvocati anche…

Telecamere nascoste sul lavoro: la Cassazione apre ai controlli difensivi

Si riaccende il dibattito sui confini della privacy nei luoghi di lavoro. Con la sentenza n. 28613 del 5 agosto 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’installazione di una telecamera nascosta, non segnalata e senza autorizzazione sindacale o ispettiva, è lecita quando il suo impiego è mirato ad accertare gravi condotte illecite ai danni dell’azienda e non comporta un controllo sistematico dei dipendenti.


Il quadro normativo e la deroga per i controlli difensivi

In linea generale, l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori vieta l’uso di impianti audiovisivi per il controllo a distanza dell’attività lavorativa. Il divieto, tuttora penalmente sanzionato dall’art. 171 del Codice Privacy (D.Lgs. 196/2003), si fonda sulla tutela della riservatezza del personale. Tuttavia, la Cassazione chiarisce che tale disciplina non si applica ai controlli difensivi, ossia a quei controlli finalizzati esclusivamente alla protezione del patrimonio aziendale.

Secondo i giudici, non si configura violazione di legge quando la telecamera è destinata a verificare condotte fraudolente e il suo utilizzo rimane circoscritto al tempo necessario per accertare il sospetto. Diverso sarebbe il caso di un impianto volto a monitorare continuativamente la prestazione lavorativa, che resterebbe illegittimo.


Il principio affermato dalla Cassazione

Il diritto alla privacy del lavoratore, sottolinea la sentenza, cede di fronte alla necessità di prevenire o reprimere illeciti che possano arrecare danno all’azienda. In questo contesto, la videosorveglianza non è considerata uno strumento di controllo a distanza, ma una misura di tutela. Di conseguenza, le prove acquisite attraverso questo tipo di dispositivo restano utilizzabili in giudizio.


Cosa cambia per le imprese

La decisione rappresenta un punto fermo per i datori di lavoro, spesso in bilico tra il rischio di violare la normativa sulla privacy e la necessità di difendersi da furti o frodi interne. Il messaggio della Suprema Corte è chiaro: i controlli difensivi sono legittimi se proporzionati, mirati e limitati nel tempo, a condizione che non sfocino in un monitoraggio generalizzato della vita lavorativa.


LEGGI ANCHE

L’impugnazione senza firma digitale è inammissibile

Arriva dal Ministero un ulteriore chiarimento sulla riforma della Giustizia Cartabia. L’impugnazione sprovvista di firma digitale non è ammissibile, se poi l’avvocato ha provveduto a…

pila di libri

Concorsi, aspettando la prima generazione di Magistrati Tributari togati

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha indetto il concorso della Magistratura Tributaria 2024. La selezione pubblica prevede la copertura di 146 posti da inquadrare…

E se i dati personali diventassero una forma di pagamento riconosciuta

E se i dati personali diventassero una forma di pagamento riconosciuta?

Nel 1973 un artista americano se ne uscì con il detto “se è gratis, il prodotto sei tu”. Questo concetto non è mai stato così…

Mangiare meglio per lavorare meglio: il cibo sano diventa leva di produttività

Che il benessere parta da ciò che mangiamo non è una novità. Ma oggi c’è di più: si è scoperto che una corretta alimentazione in azienda non incide solo sulla salute, ma anche sulla produttività e, di riflesso, sui bilanci. A sostenerlo è uno studio pubblicato su Occupational Health Science, secondo cui i lavoratori che hanno accesso a pasti sani e bilanciati mostrano minor stress, maggiore energia e migliori performance decisionali. Insomma, il piatto giusto fa bene al cervello, oltre che al corpo.


Dallo stress alla produttività: la rivoluzione della pausa pranzo

Secondo l’analisi condotta su 228 dipendenti, chi trova in azienda opzioni alimentari equilibrate è più concentrato, commette meno errori e affronta meglio i picchi di lavoro. Gli alimenti ricchi di nutrienti, spiegano gli esperti, potenziano memoria e attenzione, mentre una dieta scorretta aumenta stanchezza e cali di rendimento. Il risultato? Un impatto diretto non solo sulla produttività giornaliera, ma anche sulle performance aziendali di lungo periodo.

È per questo che il tradizionale modello della “mensa aziendale” sta lasciando spazio a soluzioni più evolute: ristorazione collettiva di qualità, tracciabilità delle materie prime e ambienti progettati come spazi di welfare.


Il caso Pedevilla: dalla pausa pranzo alla leva strategica

Tra le realtà italiane che hanno interpretato questo cambio di paradigma c’è Pedevilla, gruppo tricolore a conduzione familiare che da oltre cinquant’anni opera nella ristorazione aziendale, scolastica e sanitaria. Nel 2024 ha servito 6,6 milioni di pasti, con 117 clienti attivi in tutta Italia, oltre 1.100 collaboratori e un fatturato superiore ai 64 milioni di euro.

La strategia è chiara: cucina interna, materie prime selezionate con filiera corta, spazi condivisi pensati come hub sociali e forte attenzione alla sostenibilità. Non a caso, 90 ristoranti sono già plastic-free, grazie a investimenti per oltre 810mila euro in packaging ecologico. Una scelta che trasforma la pausa pranzo in strumento di welfare e di efficienza organizzativa.


Un investimento che rende sei volte tanto

Non si tratta solo di benessere: i numeri raccontano una storia di ritorno economico. Secondo una ricerca pubblicata sull’American Journal of Health Promotion, ogni euro speso in programmi aziendali per la salute – alimentazione compresa – genera un ritorno medio di 5,8 euro. A confermarlo anche un’indagine europea condotta su oltre 11mila lavoratori: ambienti con politiche nutrizionali strutturate non solo aumentano la produttività, ma riducono assenteismo e calo di performance.


Italia in prima linea?

Eppure, nelle PMI europee le politiche alimentari aziendali sono ancora poco diffuse. Uno studio su BMC Public Health evidenzia un enorme margine di miglioramento. Per un Paese come l’Italia, dove la cultura del buon cibo è parte dell’identità, la sfida è chiara: trasformare la pausa pranzo in un volano di crescita. Un’occasione che unisce salute, sostenibilità e competitività.


LEGGI ANCHE

Carlo Nordio: chi è veramente il nuovo Guardasigilli?

Carlo Nordio è riuscito a convincere anche Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia, infatti, avrebbe voluto Maria Elisabetta Alberti Casellati alla Giustizia, ma Nordio…

sistemi di intercettazione

Intercettazioni, D’Orso e Lopreiato (M5s): via tagliola per reati codice rosso o Meloni complice

Le dichiarazioni delle capogruppo M5S in commissione giustizia alla Camera e al Senato Valentina D'Orso e Ada Lopreiato

fibra ottica servicematica

Sprint alla digitalizzazione, fibra ottica in crescita in Italia ed Europa

Nel nostro paese e in tutta Europa aumenta la copertura della fibra ottica. Il futuro del mercato è delineato dalle previsioni del Ftth (Fiber To The…

Smart working batte lo stipendio: i giovani rivoluzionano le priorità sul lavoro

Per la prima volta, nella scala delle priorità dei giovani candidati al lavoro, la possibilità di lavorare da remoto e gestire il proprio tempo supera il peso dello stipendio. È il risultato della 35ª edizione dell’indagine “Giovani & Lavoro” condotta dal Gidp (Gruppo Italiano Direttori del Personale), che raccoglie le opinioni di oltre 4.500 manager delle risorse umane, soprattutto nelle grandi imprese del Nord Italia.

Un sorpasso storico, che segna un cambio di paradigma: lo smart working non è più un “benefit”, ma un diritto percepito, al punto da superare retribuzione e bonus come elemento decisivo al momento del colloquio. Seguono, a distanza, altre richieste come chiarezza sulle mansioni e percorsi di crescita.


Flessibilità prima di tutto

Fino a un anno fa la flessibilità occupava il terzo posto nella lista dei desideri, dietro stipendio e benefit. Oggi il trend si è ribaltato. “È la prova che il concetto di ‘buon lavoro’ sta cambiando rapidamente”, osserva la ricerca. I giovani chiedono autonomia organizzativa, equilibrio vita-lavoro e senso del proprio ruolo, prima ancora di trattare il pacchetto economico. Un approccio che le aziende, però, sembrano recepire solo in parte.


Generazioni a confronto: il vero stress test

Oltre alla richiesta di flessibilità, emerge un altro nodo: la convivenza intergenerazionale. Il 90% delle aziende ospita almeno tre generazioni diverse, con inevitabili divergenze su comunicazione, aspettative di carriera, uso del digitale e visione del work-life balance. Nonostante questo, solo il 23,7% delle imprese ha avviato programmi strutturati di mentorship per favorire l’integrazione. “La convivenza tra generazioni è il vero stress test per le imprese italiane – afferma Marina Verderajme, presidente di Gidp –. Dove manca il confronto, si crea frammentazione; dove funziona, si cresce meglio”.


Il punto di vista delle aziende

“Più che smart working, i giovani ci chiedono flessibilità”, conferma Domenico Santoro, direttore del personale di Air Liquide. L’azienda ha introdotto il lavoro agile già nel 2018 e oggi consente fino al 50% di tempo da remoto, con ampia libertà di organizzazione. Ma non basta: “Le nuove generazioni cercano senso, sviluppo individuale e formazione continua”, spiega Santoro, sottolineando l’impegno in programmi di mentoring per integrare senior e junior.


Competenze, l’altra emergenza

Al tema organizzativo si somma il mismatch tra domanda e offerta di competenze. Il 26,2% delle imprese dichiara di dover formare internamente i neolaureati subito dopo l’assunzione, mentre il 23% fatica a trovare diplomati tecnici pronti all’ingresso. Solo il 15% afferma di non avere problemi nel reperimento di profili junior.


LEGGI ANCHE

Whatsapp novità 11 aprile

WhatsApp: importanti novità dall’11 aprile

Dal prossimo 11 aprile WhatsApp cambierà molte cose. Infatti, entreranno in vigore i nuovi Termini di servizio supplementari, basati sul Digital Services Act, sul Digital…

lotta al riciclaggio e modifiche al codice penale Servicematica

Direttiva Ue 2018/1673, lotta al riciclaggio e modifiche al codice penale

Il 4 novembre scorso, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto che attua la direttiva UE n. 2018/1673 relativa alla lotta al riciclaggio attraverso…

SPID sotto attacco: così il furto dell’identità digitale passa per trappole invisibili

Dietro il boom di truffe digitali si nasconde un sistema che espone i cittadini a rischi invisibili: SPID diventa terreno fertile per furti d’identità e…

Criptovalute, l’Europa davanti al bivio: regolamentare o restare indietro

C’è un momento in cui la storia economica chiede di scegliere: cambiare o restare ancorati al passato. Per la finanza digitale, quel momento è arrivato. A dimostrarlo è il Genius Act, la nuova normativa statunitense dedicata alla regolamentazione delle stablecoin, che promette di trasformare il settore, imponendo trasparenza e garanzie per i consumatori.

L’Europa, invece, rischia di arrivare ancora una volta in ritardo. Nonostante i progressi introdotti con il regolamento Micar e l’attuazione della Travel Rule, il vecchio continente continua a oscillare tra prudenza e timore. Il punto è che le criptovalute non sono un pericolo da demonizzare, ma una realtà da governare. E le stablecoin, in particolare, dimostrano quanto sia urgente adottare regole moderne e flessibili, senza soffocare l’innovazione.


Perché le stablecoin non sono “moneta tossica”

A differenza di altre criptovalute, le stablecoin devono la loro stabilità all’ancoraggio a valute tradizionali, come il dollaro, e alla copertura con asset liquidi e a basso rischio. Il Genius Act, infatti, prevede obblighi rigorosi: divieto di investire le riserve in operazioni speculative, trasparenza nei bilanci, audit indipendenti e controlli costanti. Una cornice che non frena il mercato, ma lo rende più sicuro e competitivo.

Non basta: la normativa statunitense si pone anche l’obiettivo di rafforzare il ruolo del dollaro sui mercati globali, aumentando l’attrattività del debito e stabilizzando i tassi di interesse. Una strategia che unisce tutela dei consumatori e vantaggi macroeconomici.


Il paradosso europeo

Mentre Washington accelera, l’Europa rischia l’ennesimo passo falso. Eppure, il contesto normativo non è fermo: il regolamento Micar rappresenta una best practice in termini di vigilanza e autorizzazione degli operatori, mentre il recepimento della Travel Rule nel nostro ordinamento, con il D.Lgs. 204/2024, rafforza i presidi contro il riciclaggio e le operazioni sospette. Ma il problema è nella rigidità delle regole: se non verranno bilanciate da strumenti flessibili, il mercato rischia di soffocare, spingendo l’innovazione altrove.


Il peso dei numeri

I dati parlano chiaro: al 31 dicembre 2024, i 166 Virtual Asset Service Provider registrati presso l’OAM gestivano cripto-attività per oltre 2,6 miliardi di euro. Un segmento in crescita che, se governato, potrebbe ridurre tempi e costi delle transazioni, offrendo vantaggi enormi a imprese e consumatori. Non si tratta di un “pozzo oscuro”, ma di una leva strategica che può rilanciare competitività e inclusione finanziaria.


La domanda è semplice e cruciale: chi ha paura delle cripto? Se l’Europa non saprà superare il pregiudizio ideologico e affrontare il tema con regole trasparenti e proporzionate, il rischio è quello di abdicare a un ruolo attivo nella finanza globale. Una scelta che, in tempi di rivoluzione digitale, non possiamo permetterci.


LEGGI ANCHE

esame avvocato 2024

Sempre meno avvocati a Trieste, ma le donne sono in aumento

Il numero di avvocati a Trieste è in calo, ma la professione forense sta diventando sempre più accessibile alle donne. La riforma Cartabia e le…

autocertificazione valida solo se cartacea

COVID-19, l’autocertificazione è valida solo se cartacea

Il Ministero dell’Interno ha chiarito che l’autocertificazione è valida solo se cartacea. La dichiarazione è arrivata come conseguenza alla comparsa di app di autocertificazione su…

Tecnologia più verde e accessibile: l’UE punta sull’efficienza energetica dei dispositivi elettronici

La Commissione europea introduce nuovi standard per rendere smartphone, computer e altri dispositivi più sostenibili, interoperabili e facili da usare. Meno consumi, meno emissioni e…

Controlli in malattia, la Cassazione mette un freno: “Niente detective senza sospetti concreti”

Pedinare un lavoratore in malattia per verificare se rispetta le fasce di reperibilità? Non è consentito, a meno che non ci siano indizi seri e circostanziati di comportamenti illeciti. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 23578/2025, confermando la decisione della Corte d’appello che aveva annullato un licenziamento disciplinare fondato su un report investigativo.

Il caso nasce dalla scelta di un datore di lavoro di incaricare un’agenzia investigativa, convinto che il dirigente in malattia non rispettasse gli obblighi di reperibilità. L’attività, durata sedici giorni – comprese le festività natalizie – si è tradotta in un pedinamento costante, con controlli dal mattino alla sera e monitoraggio non solo del dipendente, ma anche dei familiari e di terzi. Un’invasione della sfera privata che, secondo i giudici, non trova giustificazione.

La Corte territoriale, riformando la sentenza di primo grado, ha escluso la “giusta causa” e ha riconosciuto al dirigente le indennità dovute, sottolineando che il sospetto di illecito era del tutto assente. L’ordinamento, infatti, offre strumenti meno invasivi, come le visite fiscali Inps, sufficienti a verificare il rispetto delle fasce orarie.

Gli ermellini hanno confermato questa linea, richiamando precedenti giurisprudenziali e ribadendo che i controlli difensivi sono ammessi solo se proporzionati e limitati al necessario, senza trasformarsi in sorveglianza continua della vita privata. In caso contrario, le prove raccolte non solo sono inutilizzabili, ma rendono illegittimo il licenziamento.

Il principio non è nuovo, ma la sua applicazione resta problematica. Per i datori di lavoro, il messaggio è chiaro: anche di fronte a fondati motivi disciplinari, il diritto alla riservatezza del lavoratore prevale su controlli indiscriminati. Il rischio, altrimenti, è vedere annullati provvedimenti che si ritenevano solidi, con conseguenze economiche e reputazionali pesanti.


LEGGI ANCHE

CNF e ONF chiedono chiarimenti sulla Certificazione Verde per l’Avvocatura

Parere avvocati negativo nei confronti dell’obbligatorietà del Green Pass nei palazzi di giustizia In tutta Italia si registrano opinioni negative rispetto all’esibizione obbligatoria del Green Pass base nei palazzi di giustizia. Dunque, il 13 gennaio…

green pass valido 12 mesi

Green pass valido per 12 mesi

Arriva l’ok del cts alla proposta di prolungamento della scadenza del green pass Tanto auspicato quanto atteso, arriva l’ok del Comitato tecnico scientifico all’estensione del…

adeguarsi al gdpr

Adeguarsi al GDPR

In un precedente articolo abbiamo analizzato cosa sia un dato personale in base alle direttive del Regolamento (UE) n. 2016/679. Oggi cercheremo di capire cosa…

Crolla il numero degli artigiani: il settore ha definitivamente alzato bandiera bianca?

Negli ultimi 10 anni il numero degli artigiani[1] presenti nel nostro Paese ha subito un crollo verticale di quasi 400mila unità. Se nel 2014 ne contavamo 1,77 milioni, l’anno scorso la platea è scesa a 1,37 milioni (-22 per cento) (vedi Graf. 1). Pertanto, possiamo affermare con grande preoccupazione che in due lustri quasi un artigiano su quattro ha gettato la spugna. Anche nell’ultimo anno la contrazione è stata importante: tra il 2024 e il 2023 il numero è sceso di 72mila unità (-5 per cento).  La riduzione ha interessato tutte le regioni d’Italia, nessuna esclusa.   Nell’ultimo decennio le aree più colpite da questa “emorragia” sono state le Marche (-28,1 per cento), l’Umbria (-26,9), l’Abruzzo (- 26,8) e il Piemonte (-26). Il Mezzogiorno, invece, è stata la ripartizione geografica che ha subito le “perdite” più contenute.  Grazie, in particolare, agli investimenti nelle opere pubbliche legati al PNRR e agli effetti positivi derivanti dal Superbonus 110 per cento, il comparto casa ha “frenato” la caduta del numero complessivo degli artigiani di questa ripartizione geografica. La denuncia è sollevata dall’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati dell’INPS e, per quanto concerne il numero delle imprese artigiane attive, di Infocamere/Movimprese.

  • Sono a rischio le riparazioni/manutenzioni

Già oggi quando si rompe una tapparella, il rubinetto del bagno perde acqua o dobbiamo sostituire l’antenna della Tv trovare un professionista del settore è molto difficile, figuriamoci fra qualche anno. A seguito del progressivo invecchiamento della popolazione artigiana e la corrispondente contrazione dei giovani che si avvicinano a questi mestieri, anche a seguito del calo demografico, è molto probabile che entro un decennio reperire sul mercato un idraulico, un fabbro, un elettricista o un serramentista in grado di eseguire un intervento di riparazione/manutenzione presso la nostra abitazione o nel luogo dove lavoriamo sarà un’operazione difficilissima.

  • Crollo dovuto anche a fusioni e acquisizioni di impresa

Va comunque segnalato che questa riduzione in parte è anche riconducibile al processo di aggregazione/acquisizione che ha interessato alcuni settori dopo le grandi crisi 2008/2009, 2012/2013 e 2020/2021. Purtroppo, questa “spinta” verso l’unione aziendale ha compresso la platea degli artigiani, ma ha contribuito positivamente ad aumentare la dimensione media delle imprese, spingendo all’insù anche la produttività di molti comparti; in particolare, del trasporto merci, del metalmeccanico, degli installatori impianti e della moda.

  • Più avvocati che idraulici

Negli ultimi decenni tante professioni ad alta intensità manuale hanno subito una svalutazione culturale; questo processo ha allontanato molti ragazzi dal mondo dell’artigianato. Il tratto del profondo cambiamento avvenuto, ad esempio, è riscontrabile dal risultato che emerge dalla comparazione tra il numero di avvocati e di idraulici presenti nel nostro Paese. Se i primi sono poco più di 233mila unità[2], si stima che i secondi siano “solo” 165mila[3].  E’ evidente che la mancanza di tante figure professionali di natura tecnica siano imputabili a tante criticità. A nostro avviso le principali sono: lo scarso interesse che molti giovani hanno nei confronti del lavoro manuale; la mancata programmazione formativa verificatasi in tante regioni del nostro Paese e l’incapacità di migliorare/elevare la qualità dell’orientamento scolastico che, purtroppo, è rimasto ancorato a vecchie logiche novecentesche. Ovvero, chi al termine delle scuole medie inferiori ha dimostrato buone capacità di apprendimento è “consigliato” dal corpo docente a iscriversi a un liceo. Chi, invece, fatica a stare sui libri viene “invitato” a intraprendere un percorso di natura tecnica o, meglio ancora, professionale; creando, di fatto, studenti di serie a, di serie b e, in molti casi, anche di serie c.

  • Le cause delle chiusure

L’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana, provocato in particolar modo anche da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata nei decenni scorsi dalla grande distribuzione e in questi ultimi anni in particolare dal commercio elettronico, il peso della burocrazia, il boom del costo degli affitti e delle tasse nazionali/locali hanno costretto molti artigiani ad alzare bandiera bianca. Una parte della “responsabilità”, comunque, è ascrivibile anche ai consumatori che in questi ultimi tempi hanno cambiato radicalmente il modo di fare gli acquisti, sposando la cultura dell’usa e getta, preferendo il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. La calzatura, il vestito o il mobile fatto su misura sono ormai un vecchio ricordo; il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto scelto sul catalogo on-line o preso dallo scaffale di un grande magazzino.

  • Rimettere al centro l’istruzione professionale

Negli ultimi 45 anni c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b e in certi casi addirittura di serie c. Per alcuni, infatti, rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio. Per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore. E nonostante la crisi e i problemi generali che attanagliano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto ad avvicinarsi a questo mondo.

  • Parrucchieri, estetiste, gelatai, pizzerie per asporto e informatici sono in controtendenza

Non tutti i settori artigiani hanno subito la crisi. Quelli del benessere e dell’informatica presentano dati in controtendenza. Nel primo, ad esempio, si continua a registrare un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori. Nel secondo, invece, sono in decisa espansione i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media. Va altrettanto bene anche il comparto dell’alimentare, con risultati significativamente positivi per le gelaterie, le gastronomie e le pizzerie per asporto ubicate, in particolare, nelle città ad alta vocazione turistica.

  • Istituire un reddito di gestione delle botteghe artigiane

I piccoli negozi e le botteghe artigiane giocano un ruolo fondamentale nei centri storici, nelle piccole comunità e nei borghi, contribuendo all’identità culturale, all’economia locale e al mantenimento del patrimonio storico. Queste attività, spesso situate in edifici storici, arricchiscono l’ambiente urbano con la loro presenza e le loro creazioni, attirando turisti e residenti interessati alla tradizione e all’artigianato di qualità. Va ricordato, infine, che la decisa riduzione del numero degli abitanti che da qualche decennio sta interessando molte aree del Paese (territori di montagna, zone collinari, paesi di provincia, etc.), ha causato una forte contrazione del numero dei negozi/botteghe artigiane. Un fenomeno molto complesso che ha deteriorato il tessuto urbano e la qualità della vita di molti contesti territoriali. Per questo sarebbe opportuno introdurre per legge un “reddito di gestione delle botteghe commerciali e artigiane” per chi (giovane o meno) gestisce o apre una attività, compatibile con la residenzialità, nei centri minori (fino a 10.000 abitanti).

  • La politica sta correndo ai ripari, in arrivo la riforma della legge quadro n° 443 del 1985

A quarant’anni dall’entrata in vigore della legge quadro n° 443, il Parlamento ha avviato da alcuni mesi un percorso di riforma dell’artigianato destinata a superare i vincoli normativi che limitano l’attività di oltre 1,2 milioni di imprese artigiane presenti nel Paese (vedi Graf. 2). Tra le novità previste, vi è la possibilità, per quelle che operano nel settore alimentare, di vendere direttamente al pubblico i prodotti di propria produzione. Altro aspetto significativo riguarda la maggiore flessibilità nella costituzione dei consorzi, che potranno includere anche le Pmi non artigiane. Di rilievo è inoltre la proposta di istituire un fondo biennale da 100 milioni di euro per facilitare l’accesso al credito, con il supporto di Confidi e della nuova Artigiancassa. Infine, l’innalzamento del tetto occupazionale da 18 a 49 addetti consentirebbe all’Italia di allinearsi alle normative sull’artigianato presenti in gran parte dei 27 Paesi dell’UE. Riportiamo più sotto alcuni punti che dovrebbero qualificare la riforma:

  •  incentrare la disciplina sulla figura dell’imprenditore artigiano;
  •  rivedere i vincoli societari relativi all’impresa artigiana;
  • definire il perimetro di attività del settore;
  • valorizzare il ruolo formativo dell’artigiano/imprenditore;
  • istituire una commissione consultiva per l’artigianato presso il Ministero del Made in Italy.
  • Nell’ultimo anno le chiusure hanno interessato, in particolare, la dorsale adriatica: Ancona, Ravenna, Ascoli Piceno e Rimini

Tra il 2024 e il 2023 la provincia d’Italia che ha subito la contrazione più importante del numero di artigiani è stata Ancona con il -9,4 per cento (in valore assoluto pari a -1.254 persone). Seguono Ravenna e Ascoli Piceno entrambe con il -7,9 per cento.  Se la provincia romagnola ha subito una riduzione di 952 artigiani, quella marchigiana di 535. Al quarto posto scorgiamo Rimini con il -6,9 per cento (-835) e al quinto, a pari merito, Terni e Reggio Emilia con il -6,8 per cento. Se il nel capoluogo umbro abbiamo perso 384 unità, in quello emiliano 1.464. Le diminuzioni più contenute, invece, hanno interessato quasi esclusivamente le province del Mezzogiorno. Le meno colpite sono state Crotone e Ragusa ambedue con il -2,7 per cento. Se la realtà calabrese ha visto scendere lo stock di artigiani di 78 unità, quella siciliana di 164.

[1] La categoria è costituita da titolari, soci e collaboratori familiari. Per i dati dell’anno 2014 si fa riferimento al comunicato INPS del 2024 che riprende la serie storica sino ai 9 anni precedenti. I dati dal 2015 al 2024 fanno invece riferimento alla pubblicazione di quest’anno (giugno 2025) e al relativo database ricostruito per il periodo 2015-2024.

[2] “Rapporto sull’avvocatura 2025”, a cura della Cassa forense in collaborazione con il Censis, aprile 2025.

[3] Dato riportato dalle principali organizzazioni sindacali di categoria.


LEGGI ANCHE

scrivania con fogli

Rimborso IRAP: termine di due anni dalla sentenza passata in giudicato

Il caso esaminato riguardava un contribuente che, vincendo un procedimento contro un ex dipendente, aveva versato IRAP su emolumenti successivamente restituiti.

Riforma della giustizia: Meloni e Nordio puntano alla “separazione ecumenica”

Il Governo mira a superare le polarizzazioni storiche e a evitare lo spettro della "vendetta contro le toghe". Tre segnali indicano un cambio di strategia…

Fattura elettronica, codici errore relativi all'integrità del documento (00102)

Fattura elettronica, codici errore relativi all’integrità del documento (00102)

Riportiamo i codici errore relativi all’integrità del documento trasmesso. Se il file è firmato, la verifica garantisce che il documento ricevuto non abbia subito modifiche…

Iso 27017
Iso 27018
Iso 9001
Iso 27001
Iso 27003
Acn
RDP DPO
CSA STAR Registry
PPPAS
Microsoft
Apple
vmvare
Linux
veeam
0
    Prodotti nel carrello
    Il tuo carrello è vuoto