Dazi USA: un costo fino a 12 miliardi

L’Ufficio studi della CGIA comunica che nel caso i dazi imposti dall’Amministrazione Trump dovessero rimanere gli stessi di oggi[1] costerebbero al nostro Paese 3,5 miliardi di euro circa di mancate esportazioni. Se, invece, le tariffe doganali dovessero essere innalzate al 20 per cento, il danno economico ammonterebbe fino a 12 miliardi di euro. Sono stime che sono state riprese dalle elaborazioni fatte qualche mese fa dall’Ocse; importi che non includevano l’impatto economico di eventuali tariffe che potrebbero essere applicate su singoli prodotti merceologici.

L’Italia è un Paese con una forte vocazione all’export verso gli USA (nel 2024 la dimensione economica è stata pari a 64,7 miliardi di euro) e in attesa che il Presidente Trump ufficializzi l’intensità dei dazi, le cifre richiamate più sopra dovranno “misurarsi” con i seguenti interrogativi:

a) i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy ?

b) A seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli USA, contenendo i margini di profitto?

Sono domande a cui non è per nulla facile dare una risposta. Tuttavia, la Banca d’Italia ricorda che il 43 per cento delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 per cento di qualità media[2]. Pertanto, sono prodotti che, verosimilmente, sono diretti ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dall’introduzione di nuove barriere doganali. In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane che esportano negli USA presentano una incidenza delle vendite in questo mercato “solo” del 5,5 per cento del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo[3] è mediamente pari al 10 per cento dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale “chiusura” di questo mercato inciderebbe relativamente poco.

Inoltre, queste realtà produttive hanno mediamente buoni margini per ridurre il prezzo finale dei propri beni da vendere negli States, compensando, almeno in parte, gli aumenti provocati dall’introduzione delle barriere doganali. Ovvio che potrebbero verificarsi delle situazioni molto più gravi di quelle appena descritte, se le politiche protezionistiche di Trump dovessero provocare una forte svalutazione del dollaro, innescare delle contromisure in grado di provocare una caduta della domanda globale e dei mercati finanziari. Non solo. Come ha ricordato nelle sue considerazioni finali il 31 maggio scorso il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta: “…il rischio più profondo è un altro: che il commercio, da motore di integrazione e dialogo, si trasformi in una fonte di divisione, alimentando l’instabilità politica e mettendo a repentaglio la pace”.

Le nostre imprese che esportano in USA sono 44mila

Il Paese a stelle e strisce rappresenta il secondo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, con un valore annuale che nel 2024 ha toccato i 64,7 miliardi di euro, pari al 9 per cento circa dell’intero export nazionale. In particolare, le categorie merceologiche maggiormente esportate negli USA includono i prodotti chimici/farmaceutici, gli autoveicoli, le navi/imbarcazioni e le macchine di impiego generale. Tali voci incidono per oltre il 40 per cento delle vendite totali nel mercato statunitense. Il numero degli operatori commerciali italiani attivi negli Stati Uniti è relativamente contenuto, ammontando a poco meno di 44mila unità; a questo dato si devono aggiungere le imprese dell’indotto non contabilizzate nelle statistiche Istat[4].

A rischio l’export delle regioni del sud

I dazi voluti dall’amministrazione Trump potrebbero penalizzare, in particolare, le esportazioni del Mezzogiorno.  A differenza del resto del Paese, infatti, la quasi totalità delle regioni del Sud presenta una bassa diversificazione dei prodotti venduti nei mercati esteri. Pertanto, se dopo l’acciaio, l’alluminio e i loro derivati, gli autoveicoli e la componentistica auto gli USA – e, a catena, altri Paesi del mondo – decidessero di innalzare le barriere commerciali anche ad altri beni, gli effetti negativi per il nostro sistema produttivo potrebbero abbattersi maggiormente nei territori dove la dimensione economica dell’export è fortemente condizionata da pochi settori merceologici.

L’analisi realizzata dall’Ufficio studi della CGIA si fonda sulla misurazione dell’indice di diversificazione di prodotto dell’export per regione; parametro che pesa il valore economico delle esportazioni dei primi 10 gruppi merceologici sul totale regionale delle vendite all’estero. Laddove l’indice di diversificazione è meno elevato, tanto più l’export regionale è differenziato, risultando così meno sensibile a eventuali sconvolgimenti nel commercio internazionale. Diversamente, tanto più è elevata l’incidenza del valore dei primi 10 prodotti esportati sulle vendite all’estero complessive, quel territorio risulta essere più esposto alle potenziali congiunture negative del commercio internazionale.

Le più a rischio sono Sardegna, Molise e Sicilia

La regione che a livello nazionale presenta l’indice di diversificazione peggiore è la Sardegna (95,6 per cento), dove domina l’export dei prodotti derivanti della raffinazione del petrolio. Seguono il Molise (86,9 per cento) – caratterizzato da un peso particolarmente elevato della vendita dei prodotti chimici/materie plastiche e gomma, autoveicoli e prodotti da forno – e la Sicilia (85 per cento), che presenta una forte vocazione nella raffinazione dei prodotti petroliferi. Tra le realtà territoriali del Mezzogiorno, solo la Puglia presenta un livello di diversificazione elevato (49,8 per cento). Un dato che la colloca al terzo posto a livello nazionale tra le regioni potenzialmente meno a rischio da un’eventuale estensione dei dazi ad altri prodotti merceologici.

Le meno coinvolte parrebbero la Lombardia e il Veneto

Ad eccezione della Puglia, le aree geografiche teoricamente meno in pericolo sono tutte del Nord. La Lombardia (con un indice del 43 per cento) è ipoteticamente la meno a “rischio”. Seguono il Veneto (46,8), la Puglia (49,8), il Trentino Alto Adige (51,1), l’Emilia Romagna (53,9) e il Piemonte (54,8).

Milano, Firenze, Modena, Bologna e Torino producono un terzo delle merci italiane vendute in USA

La Città Metropolitana di Milano è l’area geografica del Paese che esporta di più verso gli Stati Uniti: nel 2024 le vendite hanno toccato i 6,35 miliardi di euro. Seguono Firenze con 6,17, Modena con 3,1, Bologna con 2,6 e Torino con 2,5. Tutte assieme queste cinque realtà territoriali esportano quasi un terzo del totale nazionale delle merci destinate negli USA.

[1] Su acciaio, alluminio e derivati i dazi sono al 50 per cento.  Sulle auto, i ricambi e la componentistica auto sono al 25 per cento. Su tutti gli altri prodotti che hanno subito la “sospensione”, probabilmente  fino al prossimo 1 agosto, la tariffa doganale è al 10 per cento.

[2] Bollettino Economico, Numero 2/2025 Aprile

[3] E’ il valore della produzione al netto degli acquisti netti di materie prime, dei costi per servizi e godimento di beni terzi e del costo del lavoro, a cui va aggiunta la variazione delle scorte di materie prime.

[4] Commercio estero e attività internazionali delle imprese, Edizione 2024, 15 luglio 2024.


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Fisco soccombente: compensazione delle spese di lite solo con motivazioni dettagliate, stabilisce la Cassazione

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 18799 depositata il 10 luglio 2025 ha chiarito un importante principio in materia di spese legali nelle controversie tributarie: quando l’amministrazione finanziaria soccombe in giudizio, la compensazione delle spese di lite può essere disposta solo se supportata da una motivazione dettagliata e specifica. Non è dunque sufficiente un richiamo generico alla “particolarità delle questioni esaminate”.

Il caso riguarda un contribuente che aveva impugnato un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate relativo a un presunto maggior reddito conseguito nel 2011. Dopo il rigetto in primo grado, la Commissione tributaria regionale aveva confermato la decisione, tuttavia aveva disposto la compensazione delle spese di giudizio senza fornire motivazioni approfondite, limitandosi a indicare la particolare complessità della materia.

La Cassazione, accogliendo il ricorso del contribuente, ha rilevato che una simile decisione contrasta con l’articolo 92, comma 2, del codice di procedura civile, che regola in modo stringente l’ipotesi di compensazione, prevedendo che questa possa essere disposta solo in presenza di situazioni di “assoluta novità della questione trattata”, “mutamento della giurisprudenza” o “gravi ed eccezionali ragioni”, tutte da motivare espressamente.

La Corte sottolinea che il giudice di merito deve esprimersi con argomentazioni puntuali e circostanziate per giustificare la compensazione delle spese. Una decisione sommaria o basata su formulazioni generiche configura una violazione delle norme processuali e una motivazione apparente, con conseguente annullamento della pronuncia.

Il principio affermato rafforza la tutela dei contribuenti e la trasparenza nelle decisioni giudiziarie, impedendo che il Fisco possa sottrarsi al pagamento delle spese di lite senza una motivazione adeguata, specie quando risulta completamente soccombente.


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Assenza all’udienza, no alla scusa del “nessun danno” per il cliente: è illecito disciplinare

Non è necessario che l’assenza dell’avvocato all’udienza provochi un danno concreto o rilevante al cliente per configurare un illecito disciplinare. A stabilirlo con chiarezza è il Consiglio Nazionale Forense, che nella sentenza n. 9 del 29 gennaio 2025, sotto la presidenza f.f. Napoli e la relazione del consigliere Minervini, ha affermato il principio secondo cui la tutela del decoro e della dignità della categoria prevale sull’effettiva entità del danno causato da una condotta contraria ai doveri professionali.

Nel caso esaminato, la contestazione disciplinare riguardava proprio l’assenza ingiustificata del difensore di fiducia all’udienza processuale, comportamento ritenuto incompatibile con i doveri imposti dalla legge. La difesa, infatti, aveva sostenuto l’insussistenza di illecito in assenza di un pregiudizio concreto per il cliente.

Il Consiglio ha rigettato tale argomentazione, spiegando che il procedimento disciplinare non mira esclusivamente alla tutela del singolo assistito, ma soprattutto a salvaguardare il decoro e la dignità dell’intera classe forense. Questo implica la repressione di ogni condotta lesiva delle regole professionali, anche qualora il danno diretto risulti minimo o inesistente.


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Imbrattamenti e decoro urbano, la Consulta conferma il reato: inammissibile la questione di costituzionalità

ROMA — La Corte costituzionale, con la sentenza n. 105 depositata ieri 1o luglio 2025, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze sull’art. 639 del codice penale, che punisce il deturpamento e l’imbrattamento di cose altrui. La Consulta ha ritenuto che il reato conservi una propria ragione d’essere penale, nonostante la precedente abrogazione del “danneggiamento semplice” trasformato in illecito civile.

Al centro del caso la vicenda di un uomo accusato di aver imbrattato con materiale organico la porta e le pareti di un immobile in un condominio alla periferia di Firenze. Il giudice fiorentino aveva sollevato dubbi di costituzionalità in riferimento agli articoli 3 e 27 della Carta, lamentando una sproporzione nel trattamento penale di condotte che offendono beni materiali senza comprometterne la funzionalità, e richiedendo la procedibilità a querela anche per i casi meno gravi previsti dalla norma.

Il ruolo del legislatore nella tutela del decoro

La Corte ha però chiarito che la permanenza della rilevanza penale dell’imbrattamento risponde a una scelta politica e sociale del legislatore, finalizzata a contrastare forme di degrado urbano e a tutelare l’interesse collettivo al decoro dei contesti pubblici e privati. Una scelta, si legge nella motivazione, ulteriormente confermata dalla recente introduzione della nuova figura di reato di deturpamento urbano, contenuta nel d.l. n. 48 del 2025, convertito nella legge n. 80 del 9 giugno scorso, che ha inasprito il trattamento punitivo delle condotte volte a colpire più beni contestualmente.

Un interesse collettivo distinto dal patrimonio

Secondo i giudici costituzionali, l’imbrattamento non può più essere considerato una semplice variante minore del danneggiamento patrimoniale, ma costituisce oggi un’offesa autonoma, lesiva di un bene collettivo legato alla tutela estetica e al decoro degli spazi pubblici e privati. Pertanto, l’intervento auspicato dal Tribunale fiorentino richiederebbe un riassetto generale della disciplina, che esula dalle competenze della Corte e rimane prerogativa del legislatore.

Nessun intervento sulla procedibilità

La Consulta ha poi dichiarato inammissibile anche la questione subordinata sulla procedibilità d’ufficio prevista dal quinto comma dell’art. 639, ribadendo che l’eventuale rimodulazione di tale regime costituisce scelta discrezionale del Parlamento, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità.


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ROMA — Con 191 voti favorevoli e 102 contrari, la Camera ha approvato ieri il Decreto Infrastrutture, che ora si appresta a un passaggio rapido e senza modifiche al Senato, con pubblicazione attesa in Gazzetta Ufficiale entro il 20 luglio. Il provvedimento, nato corposo già nell’esame a Palazzo Chigi, è stato ulteriormente arricchito e modificato durante l’iter parlamentare, toccando temi che vanno dalla mobilità agli appalti pubblici, dalla sicurezza stradale alle grandi opere.

Il testo contiene misure attese e altre più controverse: prorogato lo stop alla circolazione dei diesel Euro 5 nelle regioni del Nord, avviata la mappatura nazionale degli autovelox e confermata la natura di stazione appaltante per la società Stretto di Messina Spa, che gestirà direttamente le gare relative alla realizzazione del Ponte sullo Stretto.

Il malcontento del mondo produttivo

A criticare il decreto è Leopoldo Destro, delegato di Confindustria per Trasporti, Logistica e Industria del Turismo, che denuncia l’assenza di una visione integrata tra manifattura, trasporti e logistica: “Invece di collegare questi settori, come sarebbe necessario per rendere il sistema produttivo competitivo e moderno, si è proceduto a compartimentarli ulteriormente, peggiorando le condizioni rispetto al passato”, ha dichiarato.

Le principali novità

Tra le misure più rilevanti, lo slittamento al 1° ottobre 2026 del blocco ai veicoli diesel Euro 5 in Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna, con la possibilità per le regioni di ulteriori rinvii se introdurranno interventi compensativi per il miglioramento della qualità dell’aria.

Sul fronte sicurezza stradale, parte la mappatura nazionale degli autovelox: i Comuni dovranno comunicare al Ministero delle Infrastrutture dati su dispositivi, omologazione e posizione, condizione indispensabile per continuare a utilizzarli.

Confermate anche nuove disposizioni sull’autotrasporto: ridotti da 120 a 90 minuti i tempi massimi per carico e scarico, con sanzioni per ogni ora o frazione di ritardo.

Appalti e Ponte sullo Stretto

Il decreto riconosce alla società Stretto di Messina Spa lo status di stazione appaltante qualificata per gestire direttamente progettazione, affidamenti ed esecuzione del Ponte sullo Stretto, nonostante la società non abbia precedenti esperienze dirette in bandi di gara. Prevista anche una riforma sulle modalità di esproprio e l’estensione dei tempi per i procedimenti da 30 a 60 giorni.

Novità anche per il settore dei servizi tecnici: nei contratti pubblici per ingegneria e architettura sarà ora possibile prevedere anticipi fino al 10% del prezzo, una misura attesa da tempo da architetti e ingegneri, sostenuta dall’associazione Oice.

Revisione prezzi e rincari

Sul tema sensibile della revisione prezzi, il decreto stabilisce che i prezzari in diminuzione saranno applicabili solo ai lavori eseguiti o contabilizzati a partire dal 2025. I contratti aggiudicati tra luglio e dicembre 2023 potranno beneficiare dei meccanismi di adeguamento previsti dal nuovo Codice appalti. Rimane invece escluso il comparto servizi e forniture, una scelta che le associazioni di categoria hanno definito “insostenibile”, temendo il fallimento di molte imprese e migliaia di posti a rischio.

Pedaggi e altre disposizioni

Respinta infine la norma che avrebbe previsto aumenti sui pedaggi autostradali per finanziare la manutenzione della viabilità provinciale. La misura, osteggiata da opposizioni e da parte della maggioranza, è stata stralciata.

Tra le altre disposizioni, spazio al nuovo Cruscotto informativo sulla regolarità fiscale e contributiva delle imprese private coinvolte negli appalti e maggiore flessibilità per le concessioni balneari, con la stagione che potrà prolungarsi oltre i consueti quattro mesi, fino a fine settembre. Arriva anche il commissariamento della Salerno-Reggio Calabria, con il ruolo affidato all’amministratore delegato di Anas.


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Boom di richieste per esperti di intelligenza artificiale: le aziende italiane a caccia di nuove competenze

In Italia la rivoluzione dell’intelligenza artificiale è ormai realtà e sta trasformando radicalmente il mercato del lavoro. Secondo un’elaborazione di Our World in Data, basata sui dati del recente AI Index Report, le offerte di lavoro che richiedono competenze specifiche in ambito AI sono cresciute dell’80% tra il 2019 e il 2025.

Se sei anni fa rappresentavano appena lo 0,5% degli annunci, oggi la quota è salita allo 0,9%, mentre negli Stati Uniti ha già raggiunto l’1,8%, con una crescita del 200% nell’ultimo decennio. Un trend che lascia presagire un ulteriore balzo anche nel nostro Paese, dove le aziende si stanno attrezzando non solo per inserire nuovi profili, ma anche per aggiornare quelli già presenti.

Il reskilling come priorità nazionale

La trasformazione in atto, infatti, non è soltanto tecnologica, ma anche culturale e organizzativa. Non si cercano più solo competenze tecniche o analitiche, ma anche figure capaci di gestire le implicazioni etiche, legali e manageriali dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nelle imprese. A confermarlo è uno studio dell’Università di San Diego, che ha evidenziato come le aziende più virtuose stiano già ripensando le proprie strutture e policy interne.

Un’esigenza resa ancora più urgente dal ritardo digitale del Paese: secondo gli ultimi dati, meno di un italiano su due (il 46% della popolazione tra i 16 e i 74 anni) possiede competenze digitali di base, a fronte di una media europea del 56%.

Formazione continua e alleanze strategiche

In questo scenario, l’upskilling e il reskilling delle risorse umane diventano imprescindibili, soprattutto per le PMI che costituiscono l’ossatura produttiva italiana. Sempre più imprese si stanno muovendo per avviare programmi di aggiornamento professionale, spesso grazie ai fondi pubblici e alla formazione finanziata.

«In un momento in cui l’intelligenza artificiale sta ridefinendo il concetto stesso di lavoro, è fondamentale non farsi trovare impreparati», spiega a Italia Oggi Sebastiano Gadaleta, founder e direttore generale di Progetto Impresa, società italiana di consulenza e formazione digitale. «La formazione non è più un costo, ma un investimento strategico, richiesto non solo dal mercato ma dagli stessi lavoratori, che vogliono restare competitivi. E grazie ai fondi disponibili, questo investimento può essere sostenibile anche per le PMI».

Le opportunità offerte dalla finanza agevolata

Oltre ai fondi interprofessionali, esistono bandi regionali, voucher per la digitalizzazione, finanziamenti europei e progetti del PNRR che consentono di accedere a corsi di specializzazione, coaching e programmi di riqualificazione. Per le aziende, affidarsi a consulenti esperti significa poter individuare i bandi più adatti, gestire la burocrazia e monitorare tutto il percorso formativo fino all’erogazione dei corsi, senza rallentare le attività quotidiane.

Secondo Gadaleta, l’errore più frequente è considerare la trasformazione digitale una questione di strumenti software, mentre è innanzitutto una questione di persone: «Formare i dipendenti significa metterli nelle condizioni di affrontare con competenza e serenità i cambiamenti, evitando resistenze e valorizzando le risorse interne».

I 10 profili AI più richiesti nel 2025

In questo contesto, ecco i dieci profili professionali legati all’intelligenza artificiale che le aziende italiane stanno cercando o dovranno formare nei prossimi mesi:

  1. AI Engineer – progetta e sviluppa sistemi intelligenti capaci di apprendere e adattarsi.

  2. Machine Learning Engineer – crea algoritmi che permettono alle macchine di apprendere dai dati.

  3. Data Scientist – analizza grandi quantità di dati per estrarre informazioni strategiche.

  4. AI Ethic Specialist – gestisce le implicazioni etiche e normative nell’uso dell’intelligenza artificiale.

  5. Prompt Engineer – ottimizza l’interazione tra utenti e modelli linguistici evoluti, come chatbot e assistenti vocali.

  6. Responsabile dei contenuti generati dall’IA – supervisiona e verifica la qualità e la coerenza dei contenuti prodotti dalle macchine.

  7. AI Product Manager – guida lo sviluppo di prodotti basati su AI, coordinando team multidisciplinari.

  8. AI Solutions Architect – progetta l’integrazione dei sistemi intelligenti all’interno delle infrastrutture aziendali.

  9. Robotic Automation Specialist – implementa soluzioni robotiche intelligenti nei processi industriali.

  10. Chief AI Officer (CAIO) – dirige la strategia aziendale in ambito intelligenza artificiale.

Il futuro del lavoro passa da qui

La sfida, per il sistema imprenditoriale italiano, sarà quella di riuscire a integrare nuove competenze senza disperdere il valore delle professionalità esistenti. Formazione continua, governance evoluta e cultura aziendale aperta all’innovazione saranno le chiavi per non restare indietro.


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ROMA, 11 luglio – Il presidente Cesare Parodi e il segretario Rocco Maruotti hanno incontrato nella sede dell’Associazione nazionale magistrati in Corte di cassazione una delegazione delle segreterie nazionali del SIAP – Sindacato italiano appartenenti Polizia e dell’Anfp – Associazione nazionale funzionari di Polizia, guidate da Giuseppe Tiani e Massimo Martelli, Enzo Letizia ed Emanuele Ricifari.
Al centro del confronto la preoccupazione condivisa rispetto al tema delle risorse umane, un nodo che accomuna forze di polizia e magistratura. I rappresentanti delle forze di polizia hanno sottolineato la soddisfazione per aver individuato preoccupazioni e temi comuni sui quali il confronto è necessario.
“Abbiamo espresso la nostra piena vicinanza alle donne e uomini delle forze di polizia che quotidianamente si impegnano a tutela della sicurezza dell’intera cittadinanza. Un incontro in un clima sereno, costruttivo e di collaborazione, che per noi è una prima tappa, che ci auguriamo abbia un proficuo seguito”, spiegano il presidente Parodi e il segretario Maruotti.


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Stop all’obbligo di mostrare i documenti prima dell’imbarco: svolta negli aeroporti italiani

ROMA — Non sarà più obbligatorio esibire un documento di identità prima di imbarcarsi su un volo nazionale o europeo in partenza dagli aeroporti italiani. La novità, anticipata dal Corriere della Sera e confermata dall’Enac, è già operativa in tutti gli scali del Paese.

“Gli aeroporti sono luoghi protetti ed è venuto il momento di equiparare i viaggi in aereo a quelli in treno”, ha spiegato Pierluigi Di Palma, presidente dell’Enac, motivando così una decisione destinata a far discutere. “Ai fini dei controlli di sicurezza non cambia nulla: chi arriva al gate dovrà comunque superare i metal detector e gli altri dispositivi di sicurezza. Ma da oggi basterà la carta d’imbarco per accedere all’area partenze”.

Di Palma chiarisce tuttavia che i documenti d’identità — passaporto o carta d’identità — non vanno lasciati a casa: “Se durante i controlli a campione effettuati dalle forze dell’ordine il viaggiatore non sarà in grado di esibirlo, non potrà imbarcarsi”. Alla base della scelta, spiega il presidente dell’Enac, c’è la volontà di snellire le procedure aeroportuali, riducendo code e tempi di attesa senza compromettere la sicurezza: “Il trasporto aereo resta un sistema iper sicuro”.

Ma la decisione non convince tutti. Il Codacons ha espresso forte perplessità, chiedendo chiarimenti sull’iter che ha portato all’adozione di questa misura e sul livello di confronto istituzionale che l’ha preceduta. “L’eliminazione dell’obbligo di mostrare i documenti prima dell’imbarco si presta a più di una criticità: potrebbe consentire ai passeggeri di utilizzare carte d’imbarco intestate ad altri o di salire a bordo camuffati, nascondendo la propria identità”, avverte l’associazione dei consumatori.

Pur condividendo la necessità di rendere più fluide le operazioni di imbarco, il Codacons ribadisce che la sicurezza deve rimanere prioritaria: “Prima di introdurre misure così rivoluzionarie — conclude l’associazione — sarebbe stato opportuno un confronto tra tutte le parti in causa, per garantire piena tutela ai viaggiatori, specie in un contesto internazionale segnato da tensioni e instabilità geopolitiche”.


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Giorgio Ambrosoli, il coraggio della legalità: il ricordo commosso dell’Unione Nazionale delle Camere Civili

ROMA, 11 luglio 2025 – Nel giorno in cui ricorre l’anniversario del suo barbaro assassinio, l’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC) ricorda con profonda commozione e ammirazione la figura di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato che pagò con la vita la fedeltà al diritto e allo Stato.

Ambrosoli, civilista competente e riservato, nel 1974 fu nominato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana dall’allora Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli. Un incarico difficile, in un contesto segnato da opacità finanziarie e pericoli concreti, che Ambrosoli accettò con un alto senso civico e senza esitazione.

Durante il suo incarico scoprì un sistema di gravi irregolarità nei conti della banca e nell’intreccio societario orbitante intorno a Michele Sindona, figura centrale di un blocco di potere che teneva insieme criminalità organizzata, finanza deviata, massoneria e settori politici. Ambrosoli rifiutò ogni tentativo di pressione e corruzione, opponendosi alla narrazione costruita per salvare Sindona a spese dello Stato.

In una celebre lettera alla moglie Annalori, scriveva: “Incarico senza prospettive e senza ritorno. Ma in fondo – in piena coscienza – l’ho accettato per il Paese, e quindi senza alcuna esitazione e con molto entusiasmo.” Parole che ancora oggi rappresentano un manifesto morale della professione forense.

Lasciato colpevolmente solo dalle istituzioni, nonostante le minacce ricevute e il clima ostile, Ambrosoli fu assassinato l’11 luglio 1979, sotto casa, da un killer mandato da Sindona. Un omicidio annunciato che privò il Paese di un servitore onesto e silenzioso della legalità.

L’UNCC ha voluto oggi rinnovare il proprio tributo alla sua memoria, sottolineando come il valore di Ambrosoli risieda non solo in ciò che fece, ma nel modo in cui lo fece: con rigore, riservatezza e coerenza etica. “L’Avvocatura civile italiana non può dimenticare Giorgio Ambrosoli,” afferma il presidente Alberto Del Noce, “perché il suo esempio ci ricorda ogni giorno che legalità e indipendenza sono scelte quotidiane, mai conquiste definitive.”

Il miglior modo per onorarlo, conclude l’UNCC, non è nella retorica delle ricorrenze, ma nella costante difesa dell’autonomia, della competenza e della funzione costituzionale dell’avvocatura. Giorgio Ambrosoli, oggi più che mai, continua a vivere nell’impegno di chi non accetta scorciatoie e compromessi nella tutela del diritto e dell’interesse pubblico.


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PagoPA, la piattaforma che agevola le PA ma complica la vita ai cittadini

Doveva essere lo strumento capace di modernizzare i pagamenti verso la Pubblica Amministrazione e garantire tracciabilità, sicurezza e trasparenza. Invece, a distanza di anni dalla sua introduzione obbligatoria, il sistema PagoPA continua a mostrare criticità e lacune che rischiano di scaricare disagi e costi sulle spalle dei cittadini.

A denunciare la situazione è chi quotidianamente si trova a fare i conti con bollette, tasse, contravvenzioni e tributi vari da pagare attraverso il sistema digitale centralizzato. Se da un lato l’amministrazione pubblica ha trovato un modo per standardizzare e monitorare le entrate, dall’altro il contribuente si scontra con costi aggiuntivi e — soprattutto — con una gestione delle ricevute di pagamento tutt’altro che funzionale.

IL PROBLEMA DEI COSTI AGGIUNTIVI
Uno dei primi nodi riguarda le commissioni bancarie. Se ormai da tempo la maggior parte dei bonifici bancari nazionali è gratuita per i correntisti, il pagamento tramite PagoPA comporta quasi sempre un costo aggiuntivo a carico del cittadino, variabile in base all’istituto bancario o al canale utilizzato. Si va da 1,50 a 1,95 euro per ogni singola operazione, una cifra apparentemente modesta che però, moltiplicata per le decine di micropagamenti obbligatori annui verso la PA, diventa un aggravio non trascurabile.

L’ASSENZA DI DATI ESSENZIALI NELLE RICEVUTE
La questione più spinosa, però, riguarda la mancanza di informazioni essenziali nelle ricevute bancarie rilasciate al termine delle operazioni su PagoPA. In particolare, mentre il sistema registra il pagamento collegato a un codice identificativo della bolletta o dell’avviso, non viene mai riportato il numero del verbale o della cartella a cui quel pagamento è collegato.

Una lacuna che potrebbe sembrare di poco conto, se non fosse che — come già avvenuto in diversi casi — a distanza di anni la Pubblica Amministrazione potrebbe contestare il mancato pagamento di una sanzione, e il cittadino non avrà alcun modo di dimostrare, attraverso il proprio estratto conto bancario o la ricevuta PagoPA, di aver effettivamente saldato quella specifica posizione. Il motivo è semplice: nell’estratto conto o nella ricevuta compare solo il codice bollettino e non il numero di riferimento del verbale, rendendo impossibile -o comunque molto difficile- ogni ricostruzione puntuale.

UN CASO TIPO: IL PAGAMENTO DI UNA MULTA
Per comprendere meglio la criticità, basta analizzare un pagamento standard. Supponiamo che un cittadino versi, tramite PagoPA, l’importo di una multa pari a 141,26 euro. Al termine della transazione la banca addebiterà anche una commissione di 1,95 euro, per un totale di 143,21 euro. Ma nella ricevuta digitale scaricabile o visualizzabile sull’home banking non comparirà alcun riferimento al numero del verbale o all’infrazione contestata. Solo un codice bolletta/avviso e la denominazione dell’ente creditore.

A distanza di tre o quattro anni, se l’amministrazione comunale dovesse inviare un sollecito sostenendo che quella multa non è mai stata pagata, il cittadino, consultando i propri archivi bancari o quelli di PagoPA, troverà un pagamento generico associato a una voce “Ministero Interno Dip.to Pubblica Sicurezza” e a un codice avviso. Ma senza il numero del verbale non sarà possibile collegare con certezza quel pagamento a quella specifica contravvenzione.

LA CONSEGUENZA: UN SISTEMA CHE AIUTA LE PA MA PENALIZZA I CITTADINI
Di fatto, la digitalizzazione dei pagamenti verso la PA è stata progettata per risolvere un problema di gestione interna degli enti pubblici — spesso incapaci di verificare con precisione i bonifici in entrata — scaricando però sugli utenti una serie di “rotture di scatole” burocratiche, come lamentano in molti. Se prima, con il tradizionale bonifico bancario, era possibile inserire nella causale il numero del verbale o del tributo pagato, conservando così una traccia storica personale consultabile anche a distanza di anni, oggi questa possibilità è preclusa dal sistema PagoPA.

Viene meno uno dei presupposti essenziali della digitalizzazione: eliminare il cartaceo e agevolare l’utilizzatore, non caricarlo di ulteriori oneri e complicazioni.

LA SOLUZIONE? UN SISTEMA DI RICEVUTE PIÙ TRASPARENTE

Ciò che manca è un obbligo per gli istituti bancari di restituire al pagatore una ricevuta completa, in cui oltre al codice bollettino compaiano anche i dati del verbale, dati specifici del tributo o della sanzione saldata. Oppure la possibilità di caricare direttamente, in fase di pagamento, il numero di riferimento dell’atto per cui si sta effettuando il pagamento.

Fino a quando non verrà risolta questa criticità, i contribuenti continueranno a pagare due volte: una in denaro e una in tempo e stress, costretti a conservare vecchie notifiche, avvisi cartacei e ricevute sparse per poter dimostrare, in caso di contestazione, di essere stati in regola.

 


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