Economia della cura: il futuro del lavoro tra intelligenza artificiale e tempo libero

Il nome scelto dal nuovo Papa, Leone XIV, non è casuale. Con un chiaro richiamo alla dottrina sociale avviata da Leone XIII nella Rerum Novarum, il pontefice ha voluto riaffermare il valore centrale della persona e la dignità del lavoro in un’epoca di grandi trasformazioni. Se ai tempi della rivoluzione industriale le sfide erano già evidenti, oggi quella dell’intelligenza artificiale è appena cominciata, ma con un’accelerazione senza precedenti nella capacità di elaborare conoscenza.

La tecnologia, storicamente, non ha mai ridotto il numero complessivo di posti di lavoro. Ogni rivoluzione ha spostato il baricentro delle professioni, facendo nascere nuove figure e attività. È certo, però, che questo processo genera squilibri e richiede percorsi di riqualificazione costante. Diventa quindi essenziale garantire il diritto alla formazione permanente per accompagnare le persone attraverso il cambiamento.

Un’altra questione centrale è la gestione dell’aumento di produttività. Se un tempo servivano giorni per svolgere un certo lavoro, oggi, con il supporto dell’intelligenza artificiale, potrebbero bastare ore. A questo punto la scelta è se tradurre questo vantaggio in ulteriore produzione o in tempo libero. L’esperienza europea suggerisce che il benessere sociale cresce non solo con più beni, ma anche con più tempo per sé. Ne sono prova le sperimentazioni già in corso della settimana lavorativa di quattro giorni e il fenomeno emergente dell’overtourism, alimentato proprio da una maggiore disponibilità di tempo libero.

Ci sono poi ambiti dove le macchine non potranno sostituire il fattore umano: dalla cura delle relazioni personali all’organizzazione di eventi, dallo sport alla cultura, dalla politica all’elaborazione di scelte etiche e morali. È qui che il cosiddetto Terzo Settore, l’economia della cura e delle relazioni, potrà assumere un ruolo sempre più strategico in una società post-digitale.

Come aveva previsto Keynes nel suo celebre saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti, il progresso tecnologico avrebbe potuto regalarci più tempo libero. Sta ora a noi decidere se e come cogliere questa opportunità, trasformando l’aumento di produttività in una migliore qualità della vita, attraverso scelte personali e collettive, politiche e culturali.

Il futuro del lavoro non sarà solo questione di quantità, ma soprattutto di senso e di equilibrio tra produzione e cura, tra efficienza e umanità.


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Lo sport come strumento di riscatto sociale: la nuova edizione di “Play for the future” amplia l’orizzonte

Milano/Roma, 20 maggio 2025 – Favorire il reinserimento sociale dei giovani coinvolti nei circuiti penali attraverso percorsi di educazione sportiva e di orientamento professionale. Questo l’obiettivo del progetto “Play for the Future”, promosso da Fondazione Milan e Fondazione CDP, in collaborazione con il Ministero della Giustizia.  Nata nel 2023, l’iniziativa si è arricchita in questa edizione del contributo di un ulteriore partner strategico, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, che, attraverso il Settore Giovanile Scolastico, si occuperà dell’organizzazione del programma didattico rivolto ai giovani partecipanti al percorso educativo e nel rilascio degli attestati partecipativi.

La prima edizione del progetto si è conclusa a luglio 2024, raggiungendo complessivamente, tra attività di educazione sportiva e di orientamento e avviamento al lavoro, circa 100 ragazzi sottoposti alla misura penale della messa alla prova nelle città di Napoli, Bari, Catania e Palermo.

In seguito agli ottimi risultati ottenuti nella prima edizione, a novembre 2024 è stato avviato il secondo ciclo del progetto che avrà durata triennale. L’iniziativa si è arricchita di importanti novità: oltre ai minori e giovani adulti sottoposti a misure penali esterne, come la “messa alla prova” o misure di comunità, si rivolge ora anche a ragazzi detenuti negli Istituti Penali per i Minorenni. Il progetto si amplia e include alla rete di tre città già attive – Napoli, Catania e Palermo – anche Milano e Airola (BN). Ogni anno, nelle sedi del progetto vengono attivati due percorsi paralleli: uno per circa 20 ragazzi detenuti[1] e uno per circa 15 giovani in area penale esterna[2].

Il rinnovo per un periodo di tre anni nasce dalla volontà di garantire continuità e solidità a un percorso che risponde a un’esigenza urgente: nel 2024, in Italia, oltre 13.000 minori autori di reato risultano in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni, di cui 2.649 inseriti in percorsi di messa alla prova. Di questi, il 95% è di sesso maschile. La maggior parte dei minori è sottoposta a misure alternative da eseguire in area penale esterna, confermando come la detenzione, per i minori, rappresenti una misura residuale, sostituita da percorsi sanzionatori di tipo educativo e riparativo.

Il progetto si inserisce proprio in questo contesto, con attività che si svolgono nell’ambito dell’area penale esterna e che includono formazione, orientamento al lavoro e incontri con allenatori e formatori di club sportivi. Tali attività offrono ai giovani coinvolti l’opportunità di costruire basi concrete per il proprio futuro, andando oltre la sanzione penale.

Play for the future” è realizzato in collaborazione con i funzionari dell’area pedagogica degli Istituti Penali per i Minorenni e con quelli dell’area di Servizio Sociale degli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità. Sono loro a occuparsi dell’individuazione dei beneficiari da coinvolgere nelle attività di progetto e a monitorare l’andamento degli inserimenti.

All’interno degli Istituti Penali per i Minorenni, i beneficiari dei corsi hanno l’opportunità di apprendere i concetti base del gioco del calcio e acquisire le competenze necessarie per assistere un istruttore nella programmazione, conduzione e gestione delle attività sportive. Al termine del corso, i ragazzi riceveranno un attestato di frequenza «Corso Grassroots livello E – Social Football». Successivamente, potranno mettere in pratica quanto appreso, prima all’interno della struttura detentiva e, in seguito, presso le società sportive esterne, una volta conclusa la misura penale.

Come nella prima edizione, per i minori e i giovani adulti sottoposti a misure di esecuzione penale esterna, il progetto prevede anche l’avvio di percorsi di educazione sportiva e di orientamento lavorativo, nell’ambito del quale ogni partecipante sarà seguito personalmente per redigere un bilancio delle proprie competenze e avviare un iter di accompagnamento all’inclusione lavorativa.

Verranno coinvolte le aziende, i centri sportivi e le società dilettantistiche del territorio, e saranno organizzati corsi di aiuto allenatore. Al termine della fase di orientamento, due beneficiari per ogni presidio saranno inseriti in un percorso di stage presso le associazioni e società sportive locali, per acquisire una prima esperienza di inserimento lavorativo.

L’iniziativa intende arricchire i percorsi sportivi e i laboratori all’interno degli Istituti Penali per i Minorenni, traducendoli in esperienze di crescita, approfondimento e orientamento per il futuro. Le attività, che includono anche un laboratorio valoriale, utilizzeranno il campo da gioco e il pallone come strumenti educativi. Ogni sessione si focalizzerà su tematiche quali inclusione, coraggio, impegno, condivisione, lealtà, rispetto, fantasia, umiltà, identità, sacrificio.

Carlo Nordio, Ministro della Giustizia, ha spiegato: “La pena tende al reinserimento soprattutto per i minori. Le parole d’ordine per coniugare la certezza e la funzione rieducativa della pena sono due: il lavoro, che affranca dai pericoli della vita ossia I’ozio e il bisogno, e lo sport. Vorrei che iniziative di questo genere proliferassero nel campo degli altri sport e del lavoro. Poiché i detenuti in via di liberazione sono spesso presi dall’ ansia del lavoro, della paura del futuro.  Per un’attività sportiva servono: personale di buona volontà, buoni tecnici, risorse economiche e qui queste cose le abbiamo tutte e soprattutto, per il carcere serve spazio. Lo spazio è il luogo dove di può lavorare e fare sport. Per questo l’iniziativa di oggi ha raccolto il mio entusiasmo“.

Paolo Scaroni, Presidente di AC Milan e Fondazione Milan, ha dichiarato: “Questo progetto testimonia come la collaborazione tra realtà pubbliche e del terzo settore possa avere un impatto concreto e positivo sulle vite di tanti giovani del nostro Paese. Siamo lieti di accogliere FIGC tra gli enti promotori dell’iniziativa e di ampliare il nostro impegno anche a Milano, che è la nostra città, rafforzando l’impegno di Fondazione Milan per il territorio”.

Giovanni Gorno Tempini, Presidente di Fondazione CDP e di Cassa Depositi e Prestiti, ha commentato: “il progetto ‘Play for the Future’ rappresenta un’iniziativa ad alto impatto sociale, che unisce sport e formazione per aprire nuove vie di inclusione a giovani che stanno vivendo momenti di difficoltà. L’obiettivo è duplice: offrire strumenti per rimettersi in gioco e prevenire la dispersione del capitale umano. Fondazione CDP riconosce in questa iniziativa un esempio di intervento capace di produrre benefici reali e duraturi nella vita dei giovani coinvolti. Per generare un cambiamento è fondamentale agire insieme: la collaborazione con il Ministero della Giustizia, Fondazione Milan e, da quest’anno, la Federazione Italiana Giuoco Calcio consente di rafforzare il progetto e ampliarne la portata, mentre il protocollo triennale appena siglato rappresenta un passaggio importante per consolidare e misurare nel tempo i risultati. Ogni giovane che riesce a rimettersi in cammino è una conquista per la collettività”.

Gabriele Gravina, Presidente FIGC, ha dichiarato: “Siamo orgogliosi di poter contribuire allo sviluppo di una progettualità così importante. I ragazzi rappresentano il futuro del nostro Paese e la FIGC, in virtù dei numeri e del coinvolgimento generati dal mondo del calcio, è consapevole del suo ruolo all’interno della nostra società e sente viva la responsabilità di favorire processi educativi in tutti gli ambiti della vita sociale, dal campo sportivo alla scuola, passando appunto per le carceri. Grazie alla collaborazione con la Fondazione vaticana ‘Scholas Occurrentes’, abbiamo maturato una notevole esperienza in questo settore, che siamo felici di poter mettere disposizione di questo ambizioso progetto, per il quale desidero ringraziare il Ministro Nordio e il Dipartimento di Giustizia Minorile, Fondazione CDP e Fondazione Milan, particolarmente attiva in ambito sociale. La nostra attenzione verso i giovani è prioritaria, tanto da aver recentemente modificato il Codice di Giustizia Sportiva, introducendo la possibilità di convertire parte di una sanzione inflitta ai calciatori minorenni in attività ‘socialmente utili’, con l’obbiettivo di favorire un pieno processo di maturazione dell’atleta”.

 

[1] Presso gli Istituti Penali per i Minorenni di Milano «Cesare Beccaria», di Airola (BN), di Palermo «Malaspina» e di Catania «Bicocca»

[2] Presso gli Uffici di servizio sociale per i minorenni di Milano, Napoli, Palermo e Catania


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Patto di non concorrenza: nullo se limita troppo e paga troppo poco

Il divieto di concorrenza è una regola ben nota nel diritto del lavoro: durante il rapporto, il dipendente non può intraprendere attività che confliggano con gli interessi del datore. Ma cosa accade se questo vincolo viene esteso oltre la cessazione del contratto? In questi casi, serve un accordo specifico — il patto di non concorrenza — disciplinato dall’articolo 2125 del Codice Civile, che impone alcuni requisiti essenziali per evitare abusi.

Tra questi, il patto deve essere messo per iscritto, prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore e stabilire limiti precisi su durata, ambito territoriale e oggetto del divieto. Se queste condizioni vengono ignorate o gestite in modo squilibrato, il patto può essere dichiarato nullo.

Il caso della clausola “mobile”

Un caso recente, finito davanti alla Corte di Cassazione (ordinanza n. 11765/2025), ha confermato la nullità di un patto di non concorrenza stipulato da un ex dipendente di una banca. Il patto vietava al lavoratore, per 12 mesi dopo il termine del contratto, di svolgere qualsiasi attività nei settori bancario, assicurativo e finanziario. Un divieto che, di fatto, comprometteva quasi del tutto la possibilità di trovare una nuova occupazione nel proprio settore di competenza.

Il vero nodo, però, riguardava l’estensione territoriale della clausola: il patto copriva la Regione Emilia-Romagna e altre eventuali regioni di assegnazione del lavoratore, lasciando di fatto al datore di lavoro la possibilità di ampliare o spostare l’ambito territoriale del divieto in modo discrezionale. Una clausola “mobile” che rendeva impossibile per il lavoratore conoscere con certezza l’effettiva portata del vincolo al momento della firma.

Compenso troppo basso, patto sbilanciato

A fronte di limitazioni così ampie, il compenso riconosciuto al dipendente era pari al 10% della retribuzione annua lorda: un importo ritenuto dai giudici del tutto sproporzionato rispetto al sacrificio imposto. Sia in primo grado sia in appello, i tribunali avevano accolto la domanda del lavoratore, dichiarando nullo il patto per violazione dei limiti fissati dall’art. 2125 c.c.

La Suprema Corte ha confermato questa linea, ribadendo che i limiti di oggetto, durata e area geografica devono essere fissati o comunque determinabili fin dal momento della stipula. Inoltre, il compenso pattuito deve essere adeguato al pregiudizio economico derivante dall’obbligo di astensione, e non può essere simbolico o irrisorio.

Il principio confermato dalla Cassazione

Richiamando precedenti consolidati (Cass. 9256/2025 e Cass. 33424/2022), la Cassazione ha sottolineato che il compenso deve rispettare i criteri previsti dall’art. 1346 c.c.: essere possibile, lecito, determinato o determinabile, e soprattutto non sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto. La validità del patto, infatti, va sempre valutata alla luce della concreta compressione delle opportunità professionali imposte al lavoratore.

Un monito per datori di lavoro e HR

Questo intervento della Cassazione offre un chiaro richiamo alle aziende e agli uffici risorse umane: i patti di non concorrenza devono essere strumenti di tutela ragionevole, non meccanismi di controllo eccessivo. Stabilire divieti vaghi o estesi senza garantire un compenso adeguato non solo espone al rischio di nullità della clausola, ma mina il principio di libertà del lavoro sancito dalla Costituzione.


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Giustizia digitale, quando l’anonimizzazione diventa opacità: il monito del Tar del Lazio

L’intelligenza artificiale sta progressivamente trasformando il funzionamento dei sistemi giudiziari, e tra le applicazioni più diffuse c’è l’anonimizzazione delle decisioni. Un intervento, almeno nelle intenzioni, pensato per proteggere la riservatezza dei cittadini senza intaccare il diritto collettivo a conoscere le sentenze. Tuttavia, un recente caso italiano ha mostrato come questo equilibrio sia tutt’altro che scontato.

Il caso della banca dati pubblica

Con la nascita della nuova Banca dati pubblica (Bdp), che ha sostituito l’Archivio giurisprudenziale nazionale, il Ministero della Giustizia ha cercato di offrire un accesso più diretto al patrimonio giurisprudenziale italiano. Ma sin dal debutto, avvocati, studiosi e operatori del settore hanno segnalato un’anomalia: le sentenze pubblicate risultavano private non solo dei nomi delle parti coinvolte — come prevedibile — ma anche di date, riferimenti normativi, precedenti giurisprudenziali e persino delle informazioni essenziali sui fatti di causa.

Una scelta automatica e priva di supervisione che ha finito per svuotare le decisioni della loro funzione orientativa, rendendole incomprensibili e inutilizzabili per fini di studio, difesa e confronto giuridico. Una privacy estrema che, invece di tutelare i diritti, li ha compromessi.

Il giudizio del Tar

La questione è arrivata sul tavolo del Tar del Lazio, che con la sentenza n. 7625 del 17 aprile 2025 ha messo un punto fermo: l’anonimizzazione delle sentenze non può ridursi a una banale operazione tecnica automatizzata. Ogni decisione giudiziaria — ha ricordato il Tribunale — deve rimanere comprensibile nel suo percorso motivazionale e riconoscibile nel contesto concreto a cui si riferisce. Privare una sentenza delle sue coordinate essenziali significa tradire il principio cardine del diritto, quello che lega il fatto concreto alla norma.

Inoltre, il Tar ha evidenziato come questa prassi possa entrare in conflitto con principi garantiti dalla Costituzione italiana e da convenzioni internazionali. L’articolo 111 della Costituzione, così come l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, tutelano non solo la pubblicità delle decisioni, ma anche la loro effettiva conoscibilità e intelligibilità.

Una questione di governance algoritmica

Al di là del caso specifico, la vicenda tocca un nodo più ampio: la gestione dei sistemi di intelligenza artificiale nei processi decisionali pubblici. Attualmente, secondo la bozza dell’AI Act europeo, i sistemi di anonimizzazione automatica delle decisioni giudiziarie non rientrano tra quelli considerati “ad alto rischio”. Una scelta che, alla luce di quanto accaduto in Italia, appare discutibile.

Il punto non è ostacolare l’innovazione digitale nei tribunali, ma affiancare a queste tecnologie adeguati strumenti di controllo: supervisione umana, diritto alla spiegazione delle decisioni automatizzate, tracciabilità degli interventi sugli atti pubblici e valutazione preventiva dell’impatto sui diritti fondamentali.

Il pericolo di una giustizia senza volto

Il rischio più grande è che la giustizia diventi una “scatola nera” inaccessibile e impersonale, dove il diritto alla privacy si trasformi in pretesto per oscurare dati che invece andrebbero resi pubblici per garantire controllo democratico e certezza del diritto.

Come ha ammonito la sentenza, non è la tecnologia in sé a rappresentare un pericolo, ma il suo impiego acritico e automatico. Una giustizia davvero trasparente deve poter essere letta, compresa e verificata da tutti. Perché, in democrazia, la legge non può solo essere applicata: deve essere visibile e intellegibile.


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IMU 2025: seconde case più care, il catasto decide i rincari

Mancano poche settimane all’acconto IMU 2025, ma le novità più significative non arrivano dalle aliquote, rimaste in larga parte invariate, bensì dalla rendita catastale. Sarà infatti questo valore a determinare chi pagherà di più o di meno per seconde case, case sfitte e immobili a reddito.

Un’analisi condotta sulle principali città italiane evidenzia come le abitazioni classificate come A/2 (abitazioni civili) paghino, in media, il 63% in più rispetto a quelle iscritte in A/3 (abitazioni economiche). E non sempre si tratta di una differenza legata alla reale qualità degli immobili: edifici simili per caratteristiche e valore di mercato possono infatti risultare inseriti in categorie catastali diverse, con effetti significativi sull’imposta dovuta.

A Milano, ad esempio, un alloggio A/2 ha una rendita media di 1.487 euro, che si traduce in un’IMU annua di oltre 2.600 euro per un’abitazione sfitta tassata all’aliquota del 10,6 per mille. A Bologna e Roma la situazione è simile, mentre in altre città come Firenze il divario è più contenuto.

La distribuzione delle categorie catastali incide anche sulla diffusione dei rincari: in alcuni centri le abitazioni A/2 sono molto più numerose di quelle in A/3, mentre altrove avviene il contrario. A Bologna, ad esempio, gli A/3 sono sette volte gli A/2, ma quest’ultimi vantano rendite catastali decisamente più elevate.

Anche gli affitti a canone concordato godono di qualche sgravio fiscale, ma in misura limitata. In alcune città, come Cagliari, Milano e Torino, si applicano riduzioni fino a 4 punti di aliquota rispetto a quelle per le case sfitte. Bari è il Comune più generoso, con un’aliquota del 4 per mille contro il 10,6 ordinario.

Un altro dato interessante riguarda le abitazioni popolari (A/4), che conservano una tassazione IMU più bassa, grazie a rendite catastali inferiori. Sebbene il numero di questi immobili sia in calo per effetto delle riqualificazioni edilizie, nei capoluoghi di provincia rappresentano ancora una quota significativa del patrimonio immobiliare.

Infine, le prime case di pregio — quelle in categoria A/1, A/8 e A/9 —, pur essendo soggette a IMU, riguardano una fetta marginale degli immobili italiani: appena lo 0,2% del totale. Curiosamente, il 44% di queste unità si concentra nei capoluoghi di provincia, confermando la loro presenza prevalente nei grandi centri urbani.

L’attesa ora è per le riforme annunciate sul catasto e sui tributi locali. Dal 2026, con i decreti attuativi della delega fiscale, potrebbero arrivare regole più aggiornate per rendere il sistema più equo e aderente al reale valore degli immobili. Ma per l’acconto di giugno resta valida la vecchia rendita, con tutte le sue incongruenze.


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PA Digitale: arriva il Social Media Manager ufficiale nella Pubblica Amministrazione

La comunicazione pubblica entra finalmente nell’era digitale con un riconoscimento ufficiale: con l’approvazione del Decreto PA (DL 69/2025), viene istituita negli organici della Pubblica Amministrazione la figura del gestore della comunicazione digitale, una sorta di social media manager in grado di gestire i canali ufficiali degli enti e il dialogo online con i cittadini.

Fino ad oggi, le attività sui social delle istituzioni erano spesso affidate a figure ibride — consulenti esterni, addetti stampa o dipendenti già in servizio — senza una vera e propria qualifica specifica. Ora, grazie a una norma inserita nel decreto (articolo 4-bis), gli enti potranno prevedere questa figura professionale tra le assunzioni autorizzate, adeguando così i propri organici alle esigenze di una comunicazione sempre più digitale, rapida e accessibile.

Secondo i dati forniti dall’Associazione Nazionale Social Media Manager, in Italia operano oltre 73mila professionisti nel settore della comunicazione digitale, di cui più di 15mila freelance attivi su LinkedIn. Tuttavia, molti di loro rimangono esclusi da tutele specifiche e da un inquadramento normativo adeguato.

“Questa professione sta assumendo un ruolo sempre più strategico”, spiega Riccardo Pirrone, presidente dell’associazione di categoria. “Non si tratta più solo di pubblicare un post, ma di costruire un dialogo costante e credibile con la cittadinanza, gestire crisi reputazionali e presidiare gli spazi digitali nel rispetto delle norme”.

Il prossimo obiettivo sarà definire un codice Ateco dedicato, che permetta di inquadrare in modo univoco i professionisti del settore, sia autonomi che inseriti in strutture organizzate. Questo permetterà di garantire maggiori tutele, riconoscimenti e di favorire la formazione continua di una figura che, anche alla luce dello sviluppo delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, sarà centrale nella gestione dei servizi pubblici digitali.

La necessità di riconoscere e regolamentare il lavoro di chi gestisce la comunicazione istituzionale online nasce anche dai rischi professionali legati a errori, violazioni di privacy o danni reputazionali, che oggi spesso ricadono direttamente sui singoli professionisti in assenza di coperture assicurative specifiche.


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Influencer e content creator: nuove regole contrattuali e contributive

Il settore dell’influencer marketing è in rapida espansione e, con esso, crescono anche le questioni giuridiche e contributive legate alla gestione dei rapporti tra brand e creator digitali. A partire dal 1° gennaio 2025, infatti, sono cambiate le regole per l’inquadramento di influencer e content creator, con importanti ricadute per le aziende committenti.

Attualmente, la maggior parte di questi rapporti viene inquadrata come lavoro autonomo, ma la mancanza di una disciplina normativa dedicata ha lasciato spazio a dubbi e contenziosi. Non è raro, infatti, che le modalità di collaborazione possano assumere caratteristiche tali da far ricadere il rapporto sotto altre tipologie contrattuali, con conseguenze economiche e contributive rilevanti.

La questione è tornata di stretta attualità dopo una recente sentenza del Tribunale di Roma (n. 3615/2024), che ha condannato un’azienda al pagamento di contributi previdenziali arretrati, riconoscendo l’esistenza di un vero e proprio rapporto di agenzia tra il brand e un influencer, sulla base di elementi come il pagamento di provvigioni, l’associazione di codici sconto e la stabilità della collaborazione.

In linea generale, i rapporti con influencer possono assumere forme diverse:

  • lavoro autonomo tradizionale, inquadrato nella Gestione Separata o, in alcuni casi, nella Gestione Commercianti INPS;

  • collaborazioni coordinate e continuative, qualora le modalità operative siano concordate ma il creator mantenga una certa autonomia;

  • rapporti assimilabili al lavoro subordinato o etero-organizzato, se l’azienda esercita un controllo significativo sulle attività del creator (stabilendo, ad esempio, contenuti, tempistiche, canali di pubblicazione e approvazioni preventive).

Alla luce di questi scenari, il contratto stipulato con l’influencer diventa uno strumento essenziale per regolare correttamente il rapporto, sia sotto il profilo commerciale che giuslavoristico. È opportuno definire in modo preciso:

  • frequenza e contenuto delle pubblicazioni;

  • canali social e hashtag da utilizzare;

  • modalità di approvazione dei contenuti;

  • determinazione del compenso e regole di pagamento.

L’obiettivo è duplice: garantire coerenza rispetto agli obiettivi di marketing e prevenire rischi legati a riclassificazioni contrattuali, richieste contributive e sanzioni.

Il valore del mercato italiano dell’influencer marketing è stimato intorno ai 370 milioni di euro e destinato a crescere ulteriormente. Per questo motivo, aziende e professionisti sono chiamati a definire con attenzione i propri rapporti di collaborazione, adeguando contratti e procedure interne alla nuova realtà digitale e normativa.


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Contributi previdenziali e notai: la Cassazione ribadisce la deducibilità dal reddito di lavoro autonomo

Torna al centro dell’attenzione il tema della deducibilità dei contributi previdenziali obbligatori per i notai. Con l’ordinanza n. 1690/2025, la Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato nella sua giurisprudenza: i contributi previdenziali versati in relazione all’attività professionale devono essere dedotti direttamente dal reddito di lavoro autonomo e non dal reddito complessivo.

La vicenda nasce da un accertamento Irap nei confronti di uno studio associato di notai, cui era contestata la deduzione dei contributi versati alla Cassa Nazionale del Notariato dal reddito professionale, ritenendo invece l’Agenzia delle Entrate che tali somme andassero sottratte solo dal reddito complessivo. La Suprema Corte ha però confermato la posizione dei professionisti, cassando la sentenza favorevole all’amministrazione finanziaria e richiamando una lunga serie di pronunce precedenti (tra cui Cass. 7340/2021, 18395/2020, 321/2018).

Il concetto di “inerenza” dei contributi all’attività professionale svolta — sottolinea la Corte — è decisivo per determinarne la deducibilità dal reddito di lavoro autonomo e, di conseguenza, l’esclusione di tali importi dalla base imponibile Irap. Questo principio vale indipendentemente dalla riscossione o meno del compenso per la prestazione svolta e dall’eventuale gratuità della stessa.

Curiosamente, osserva la dottrina, il legislatore nella recente riforma fiscale approvata con il Dlgs 192/2024 aveva inizialmente previsto all’articolo 54-septies una disposizione esplicita sulla deducibilità dei contributi previdenziali per tutte le categorie professionali dal reddito di lavoro autonomo. Tuttavia, tale previsione è stata eliminata dal testo definitivo, mantenendo in vita una disparità tra notai, artisti e altri professionisti.

Attualmente, infatti, solo i forfettari possono dedurre i contributi nel quadro LM, mentre gli altri professionisti devono continuare a dedurli nel quadro RP del modello Redditi, ovvero dal reddito complessivo e non direttamente da quello professionale, con effetti differenti sul calcolo dell’Irap.

Il contenzioso continua dunque a interessare diverse categorie professionali e, come sottolineano gli esperti, la recente decisione della Cassazione potrebbe alimentare ulteriori richieste di chiarimento e interventi normativi per uniformare definitivamente il trattamento fiscale dei contributi previdenziali obbligatori.

Un tema ancora aperto, destinato probabilmente a rientrare nel dibattito fiscale dei prossimi mesi, specie in vista delle future tappe di attuazione della riforma tributaria.


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PMI: la burocrazia costa 80 miliardi. In UE siamo i peggiori

La burocrazia rappresenta un vero e proprio nemico invisibile che pesa ingiustamente sul sistema delle nostre Pmi, drenando almeno 80 miliardi di euro all’anno[1]. È un fardello insopportabile che “schiaccia” soprattutto le microimprese, costrette a destreggiarsi tra moduli da compilare, documenti da produrre, timbri da apporre e file interminabili agli sportelli pubblici solo per ottenere una semplice informazione. Questi disagi tratteggiano quotidianamente la vita di tantissimi imprenditori e a denunciarli ci ha pensato l’Ufficio studi della CGIA.

Nonostante qualche timido passo in avanti fatto negli ultimi anni, la complessità delle norme e, spesso, l’impossibilità pratica di applicarle rappresentano un “dramma” insopportabile. Senza contare che i tempi medi per il rilascio di permessi e autorizzazioni da parte della nostra Pubblica Amministrazione (PA) restano tra i più elevati d’Europa; uno score da non andare particolarmente fieri e riconducibile, in particolare, a un livello di digitalizzazione dei servizi pubblici ancora troppo basso. Di conseguenza, a pagare il conto sono le aziende: che sottraggono tempo prezioso e risorse economiche fondamentali alla loro attività produttiva.

Sia chiaro: fare di tutta l’erba un fascio è sempre sbagliato. Nessuno, men che meno la CGIA, può disconoscere che anche la nostra PA presenta delle punte di eccellenza che ci sono invidiate in tutto il mondo; pensiamo alla sanità, alla ricerca, all’università e alla sicurezza. Purtroppo, la macchina dello Stato nel suo complesso funziona mediamente con difficoltà, soprattutto in molte regioni del Mezzogiorno, dove l’inefficienza costituisce un tratto caratteristico di queste realtà pubbliche. Non solo. A preoccupare cittadini e imprese sono i tempi di risposta e i costi della burocrazia che sono diventati una patologia non più sopportabile. Avremmo bisogno di un servizio pubblico efficiente ed economicamente vantaggioso, invece, ci ritroviamo con una macchina pubblica “scassata” che fatica a tenere il passo con i cambiamenti epocali in atto.

  • E’ previsto un taglio di 30.700 norme

Sappiamo tutti che soluzioni miracolistiche non ce ne sono, tuttavia la semplificazione del quadro normativo sembra essere una delle operazioni più auspicabili da perseguire per alleggerire il peso della burocrazia normativa. E finalmente qualche segnale importante sta giungendo dall’azione politica della maggioranza. All’inizio dello scorso mese di aprile è stato approvato un disegno di legge del governo che prevede l’abrogazione di oltre 30.700 norme emanate tra il 1861 e il 1946. Una volta approvata definitivamente, questa misura ridurrà del 28 per cento lo stock delle norme vigenti. Speriamo che i tempi di approvazione siano ragionevolmente brevi.

  • In Ue siamo tra i peggiori

Anche dal confronto con gli altri Paesi, emerge che la nostra PA sconta dei differenziali di inefficienza molto preoccupanti. Secondo una recente indagine condotta dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI), il 90 per cento delle imprese italiane ha dichiarato di avere del personale impiegato per adempiere agli obblighi normativi. Tra i paesi big dell’Unione, nessun altro ha registrato un risultato peggiore. Se in Francia il dato si è attestato all’87 per cento, in Germania è sceso all’ 84 e in Spagna all’ 82. La media UE, invece, si è stabilizzata all’86 per cento (vedi Graf. 1). Tuttavia, la cosa più preoccupante che emerge da questa indagine è riconducibile al fatto che in Italia il 24 per cento degli imprenditori intervistati ha dichiarato che impiegano oltre il 10 per cento del proprio personale per espletare tutte le formalità richieste dalla legge, dato che scende al 14 per cento sia in Francia sia in Spagna e all’11 per cento in Germania. La media UE, invece, è pari al 17 per cento.

  • Situazione drammatica tra gli Enti locali del Sud

Secondo la periodica indagine condotta nel 2024 dall’Università di Göteborg sulla qualità istituzionale[2] delle Pubbliche Amministrazioni presenti nelle 210 regioni dell’Unione Europea, i risultati delle realtà territoriali italiane sono state molto modeste. La CGIA segnala che la prima regione d’Italia è il Friuli Venezia Giulia che si colloca al 63 posto a livello europeo. Seguono la provincia Autonoma di Trento (81°), la Liguria (95°) e la Provincia Autonoma di Bolzano (96°). Male le regioni del Sud: Puglia al 195° posto, Calabria al 197°, il Molise al 207° e la Sicilia al 208° si collocano proprio in coda alla classifica generale (vedi Tab. 1 e Graf. 2). In UE, infine, la regione più efficiente è la finlandese Åland; maglia nera, invece, è la realtà bulgara di Severozapaden (vedi Tab. 2).

[1] Studi economici dell’Ocse – Italia, settembre 2021, pag. 100.

[2] L’indice finale sulla qualità istituzionale è frutto di un mix di quesiti posti ai cittadini che riguardano la qualità dei servizi pubblici, l’imparzialità con la quale questi vengono assegnati e la corruzione. Nello specifico i quesiti convergono su tre servizi pubblici che hanno valenza più “territoriale”: istruzione, sanità e pubblica sicurezza.


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