Documenti prodotti in modo irregolare in primo grado? In appello restano validi

Anche un deposito irrituale di documenti nel corso del primo grado di giudizio tributario non preclude la possibilità di utilizzarli in appello. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sezione V Civile, con l’Ordinanza n. 10211 del 17 aprile 2024, intervenendo su una questione di procedura nel contenzioso fiscale.

La vicenda riguardava la produzione di nuovi atti nel secondo grado di giudizio, consentita dall’art. 58 del d.lgs. 546/1992, ma sottoposta ai termini di deposito previsti dall’art. 32 dello stesso decreto, che impone di farlo entro 20 giorni liberi prima dell’udienza. Tuttavia, i giudici di legittimità hanno precisato che l’eventuale inosservanza di questa scadenza viene superata se i documenti in questione erano già stati introdotti, seppur in modo irrituale, nel fascicolo del giudizio di primo grado.

La Corte ha richiamato il principio secondo cui, nel processo tributario, i fascicoli di parte rimangono stabilmente inseriti nel fascicolo d’ufficio fino al passaggio in giudicato della sentenza. Questo significa che le parti non possono ritirare la documentazione prodotta e che questa resta acquisita definitivamente, rendendo quindi legittimo il suo utilizzo anche nei successivi gradi di giudizio.

Una pronuncia che ribadisce l’importanza della stabilità del materiale documentale all’interno del processo tributario e che offre una tutela ulteriore alla parte che, pur avendo effettuato un deposito formale non corretto nel primo grado, si vede comunque riconosciuta la possibilità di far valere i propri atti nel prosieguo del giudizio.


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Call center nelle carceri, il lavoro come chiave per ricominciare

Trasformare le carceri da luoghi di esclusione a spazi di riscatto. È questa la sfida rilanciata dal presidente del Cnel, Renato Brunetta, nel corso del Festival dell’Economia di Trento, raccontando l’esperienza e gli obiettivi del progetto “Recidiva Zero”, nato nel 2023 dalla collaborazione tra il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e il ministero della Giustizia.

Oggi il sistema penitenziario italiano soffre di cronici problemi: sovraffollamento, condizioni di vita precarie e un tasso di recidiva che sfiora il 70%. Un’emergenza non solo sociale, ma anche economica, visto che ogni anno vengono spesi oltre tre miliardi di euro per un sistema che fatica a rieducare e reinserire.

“Se scuola, formazione e lavoro entrano stabilmente in carcere, la recidiva crolla al 2%”, ha sottolineato Brunetta, richiamando i dati di studi che mostrano quanto l’istruzione e l’occupazione possano essere strumenti decisivi nel percorso di recupero dei detenuti.

Al momento, però, solo un detenuto su tre partecipa a corsi di istruzione o a qualche attività lavorativa — per lo più mansioni di scarsa utilità al di fuori delle mura carcerarie. E resta quasi sconosciuto il livello di istruzione di gran parte dei detenuti stranieri, che rappresentano il 31% della popolazione penitenziaria.

Da qui l’idea di portare call center e contact center all’interno degli istituti di pena, permettendo ai detenuti di imparare una professione richiesta dal mercato, offrendo loro competenze spendibili una volta scontata la pena. Un progetto che avrebbe anche il vantaggio di accelerare la digitalizzazione delle carceri italiane, ancora oggi poco connesse e infrastrutturate.

Il focus, spiega Brunetta, deve partire dai 6-7mila detenuti con pene residue inferiori a un anno, i più vicini al reinserimento. Formare queste persone significa dare loro una chance concreta, ma anche offrire alla società cittadini migliori e più preparati.

In Parlamento è stato già depositato un disegno di legge promosso dal Cnel per costruire una politica pubblica nazionale sul lavoro penitenziario, elaborata attraverso il confronto con tutti gli attori coinvolti: amministrazione penitenziaria, datori di lavoro, sindacati e associazioni. Il prossimo appuntamento per discuterne sarà il 17 giugno, durante la seconda giornata nazionale dedicata a “Recidiva Zero”.

“Rieducare non è solo una missione costituzionale, ma l’unico modo per spezzare il ciclo di vendetta e devianza”, ha concluso Brunetta.


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Responsabilità 231: l’ente risponde solo per i reati dei vertici o di chi è sotto la loro vigilanza

Un ente può essere chiamato a rispondere per un reato commesso da un proprio collaboratore solo se quest’ultimo rientra in precise categorie previste dal decreto legislativo 231/2001. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19096/2025, intervenendo su un caso di furto di carburante ai danni di una società concorrente.

Nel giudizio in questione, la responsabilità amministrativa era stata contestata a un’azienda per i fatti illeciti compiuti da un soggetto ritenuto intraneo alla struttura societaria. Tuttavia, come ha evidenziato la Cassazione, il collaboratore non ricopriva alcuna posizione apicale né risultava sottoposto a vigilanza diretta da parte dei vertici aziendali, condizione indispensabile per imputare all’ente una “colpa organizzativa”.

Secondo il decreto 231, infatti, la responsabilità scatta solo se l’autore del reato presupposto è una figura apicale — come un amministratore, un dirigente o chi esercita funzioni di direzione — o se si tratta di una persona sottoposta alla direzione o al controllo di questi soggetti. In mancanza di tale collegamento qualificato, l’ente non può essere chiamato a rispondere per i reati commessi da chi opera ai margini dell’organizzazione senza un effettivo legame di vigilanza.

Nel caso concreto, il collaboratore coinvolto era stato genericamente indicato come consulente o addetto al commerciale, senza che fosse mai stata provata la sua posizione dirigenziale o la soggezione a un controllo diretto da parte della direzione.

La Suprema Corte ha quindi annullato la condanna dell’ente, rinviando al giudice di merito il compito di verificare se l’autore del reato rientrasse davvero nelle categorie indicate dall’articolo 5 del decreto 231. Solo in caso affermativo potrà essere valutata la presenza di eventuali carenze organizzative e di vigilanza tali da giustificare la responsabilità amministrativa.


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Omicidio stradale: la revoca della patente non è sempre automatica

Non tutte le condanne per omicidio stradale comportano automaticamente la revoca della patente di guida. A chiarirlo è la Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 18164/2025 ha stabilito i criteri con cui i giudici devono applicare questa misura accessoria.

Il caso da cui nasce il pronunciamento riguarda un incidente mortale in seguito al quale il conducente era stato condannato per omicidio stradale colposo e, contestualmente, aveva subito la revoca della patente. La difesa ha però contestato la sanzione accessoria, ritenendola sproporzionata rispetto alla condotta, che non rientrava tra quelle aggravate previste dai commi 2 e 3 dell’articolo 589-bis del codice penale.

Accogliendo il ricorso, la Suprema Corte ha stabilito un principio importante: la revoca automatica della patente è prevista solo nei casi più gravi di omicidio stradale aggravato — come, ad esempio, quando il conducente è sotto l’effetto di alcol o droghe, oppure supera di molto i limiti di velocità. Negli altri casi, spetta al giudice valutare, con una motivazione puntuale, il grado di colpa, la gravità della violazione delle norme di sicurezza e la consapevolezza del rischio da parte del conducente.

La Cassazione ha così ribadito che la sanzione accessoria della revoca deve essere proporzionata e motivata, evitando automatismi che non tengano conto delle circostanze concrete e del diritto alla libertà di circolazione, soprattutto per chi svolge attività lavorative che richiedono l’uso della patente.

Questa decisione offre un importante chiarimento interpretativo dell’articolo 222 del Codice della strada, richiamando i principi introdotti dalla legge n. 41/2016 in tema di omicidio stradale. Secondo i giudici, il rispetto del principio di personalizzazione della pena è imprescindibile, specie quando si incidono diritti fondamentali.


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“Esprimiamo forte dissenso rispetto all’iniziativa governativa di riapertura del Tribunale di Bassano del Grappa, che produrrà effetti diametralmente opposti a quelli che il governo si era impegnato a realizzare in termini di efficienza del sistema giustizia. Già in occasione dell’incontro con il ministro Nordio e ancor prima a Palazzo Chigi avevamo esposto la nostra posizione con riferimento alla revisione delle piante organiche degli uffici giudiziari e in particolare all’auspicio della chiusura dei tribunali di piccole dimensioni”. Lo afferma la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati.
“È evidente – prosegue l’ANM – la logica prettamente localistica dell’iniziativa, che non si inserisce in una visione strategica complessiva e non tiene conto degli effetti assolutamente disfunzionali che iniziative come queste sono destinate a produrre. Le specificità di un territorio possono essere adeguatamente trattate solo da uffici giudiziari di dimensioni tali da consentire una specializzazione e non da micro tribunali che non hanno alcuna possibilità di offrire una risposta di giustizia all’altezza delle legittime aspettative dei cittadini”.

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Lavoro e diritti: aumentano le cause, in arrivo nuovi specialisti giuslavoristi

Il mondo del lavoro cambia, e con lui si trasformano anche le controversie. Il 2024 ha registrato un netto aumento delle cause in ambito lavoristico e previdenziale, con 314.288 procedimenti iscritti presso i tribunali italiani, segnando un +11,7% rispetto all’anno precedente. In testa il pubblico impiego, soprattutto per le questioni legate al personale scolastico, seguito dalle controversie previdenziali e dai licenziamenti nel settore privato.

«Il contenzioso è parte integrante della professione forense, ma oggi gli avvocati giuslavoristi sono sempre più coinvolti anche nella consulenza preventiva», spiega Tatiana Biagioni, presidente dell’Agi, l’associazione italiana degli avvocati giuslavoristi. Le nuove sfide arrivano in buona parte dall’Europa: si pensi alla direttiva UE 70/2023 sulla trasparenza retributiva, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro giugno 2026, o ai temi ESG e alla certificazione per la parità di genere, introdotta in Italia con il PNRR.

Proprio sicurezza, benessere e prevenzione saranno i temi centrali del prossimo congresso nazionale Agi, previsto a Cagliari dal 9 all’11 ottobre, intitolato “Lavoro sicuro”.

Intanto, sul fronte normativo, si amplia il ruolo della contrattazione collettiva a livello nazionale, territoriale e aziendale, sempre più chiamata a intervenire anche su premi di produttività, contratti a termine e partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa. Lo testimonia la recente legge di iniziativa popolare approvata il 14 maggio, che apre a nuove forme di partecipazione.

Sul piano professionale, prende finalmente forma il percorso di specializzazione per gli avvocati giuslavoristi. Se i primi colloqui per il riconoscimento del titolo ai professionisti già esperti sono in corso, da questo autunno partirà un biennio formativo organizzato da sette università e altrettanti Consigli dell’Ordine, che rilascerà il titolo di avvocato specialista in diritto del lavoro e previdenza sociale.

In parallelo, si fa strada la riflessione sull’impatto dell’intelligenza artificiale nelle relazioni di lavoro. «Investire nella formazione è essenziale — conclude Biagioni — perché gli algoritmi, se non governati, rischiano di replicare discriminazioni già presenti nella società. La tecnologia può e deve essere un’opportunità, ma senza mai dimenticare i diritti delle persone».


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Nuove regole per le graduatorie: validità estesa a tre anni e assunzioni più flessibili

Con il recente decreto PA, approvato a marzo 2025, arrivano importanti novità per il sistema delle graduatorie nel pubblico impiego. La durata delle graduatorie approvate dagli enti locali torna a essere di tre anni, rispetto ai due previsti finora. La misura si applica anche alle graduatorie già esistenti e in vigore alla data di entrata del decreto.

Non solo. Il nuovo testo del decreto legislativo 165/2001 chiarisce che le amministrazioni potranno scorrere le graduatorie non solo in caso di rinuncia, mancato superamento del periodo di prova o dimissioni dei vincitori, ma anche per coprire i fabbisogni di personale, purché entro la validità temporale della graduatoria stessa.

Un’ulteriore novità riguarda la possibilità di utilizzare le graduatorie di altri enti pubblici, previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, sia per assunzioni a tempo indeterminato che a termine. Si supera così il vincolo della sola graduatoria interna, favorendo una maggiore mobilità e razionalizzazione del personale.

Il decreto interviene anche sul limite del 20% degli idonei da inserire nelle graduatorie per i concorsi con più di 20 posti, confermando la misura per regioni ed enti locali, ma solo per le procedure di ampio respiro.

Di rilievo, infine, la recente sentenza n. 3140/2025 del Consiglio di Stato, che ha stabilito come le amministrazioni non siano obbligate a scorrere graduatorie vigenti se il posto da coprire è stato istituito o trasformato dopo il concorso. In questi casi, resta facoltà dell’ente procedere prima con la mobilità volontaria.


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Superbonus: nei primi tre mesi del 2025 la spesa è salita di altri 1,8 miliardi

Sebbene da quest’anno l’incentivo sia sceso al 65 per cento[1], nei primi tre mesi del 2025[2] gli oneri a carico dello Stato sono aumentati di altri 1,8 miliardi di euro. Pertanto, il valore economico complessivo del vantaggio fiscale riconosciuto a coloro che hanno utilizzato il Superbonus per finanziare i lavori di ristrutturazione/efficientamento energetico delle proprie abitazioni è salito a 126 miliardi. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.

E’ evidente che nei primi mesi del 2025 i vincoli normativi imposti l’anno scorso hanno “congelato” il ricorso a questa misura. Tuttavia, il costo per le casse pubbliche continua ad aumentare, verosimilmente solo per quest’anno. Dal 2026, infatti, il Superbonus, salvo modifiche legislative, non sarà più utilizzabile.

  • Colpo di coda in Campania, Marche e Molise

Ritornando ai dati, nel primo trimestre di quest’anno le uscite più significative per le casse pubbliche hanno interessato la Campania (+ 3,4 per cento pari a +301,6 milioni di euro), le Marche (+2,5 per cento che corrisponde a +87,6 milioni) e il Molise (+2,5 per cento pari a 19,3 milioni). Le regioni che, invece, in questo inizio 2025 hanno utilizzato meno il Superbonus sono state la Puglia (+0,6 per cento con una spesa di +38,1 milioni di euro), la Valle d’Aosta (+0,6 per cento pari a +3,4 milioni) e, infine, la Sardegna (+0,4 per cento che corrisponde a +12,7 milioni di euro).

  • Più vantaggi o svantaggi?

Il Superbonus è stato un provvedimento divisivo. Chi politicamente ha voluto e continua a difendere la bontà di questo provvedimento, sostiene che non si debba guardare solo alla spesa che lo Stato si è fatto carico fino ad ora, ma anche agli effetti economici positivi che esso ha generato. Vale a dire più gettito (Irpef, Ires, Iva, etc.), più occupazione, più Pil, più risparmio energetico e meno emissioni climalteranti. E’ una tesi legittima che, tuttavia, almeno in parte è stata smentita da alcuni approfondimenti realizzati dalla Banca d’Italia. Le prime evidenze dimostrerebbero che nello scenario migliore i benefici ambientali del Superbonus compenserebbero i costi sostenuti dallo Stato in quasi 40 anni[3].   Sempre i ricercatori di via Nazionale hanno sottolineato che da una indagine che ha interessato i beneficiari del Superbonus, il 25 per cento di questi proprietari li avrebbe realizzati comunque, gravando così sulle casse dello Stato per almeno 45 miliardi di euro[4]. In più di un’occasione, sempre la Banca d’Italia ha evidenziato la natura regressiva di questa agevolazione fiscale destinata al miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici[5]. Tesi, quest’ultima, sostenuta anche dalla Corte di Conti[6] che ha denunciato come le risorse pubbliche impegnate per il Superbonus abbiano interessato, in particolare, le persone più abbienti.

  • Tanti lavori eseguiti in fretta e male

Secondo l’Istat, la misura oggetto di questo approfondimento ha contribuito alla crescita economica nel biennio 2021-2022 tra l’1,4 e il 2,6 per cento[7]. Ricordiamo che in questo biennio il Pil italiano è cresciuto complessivamente di 13,7 punti percentuali. Per uscire dalla recessione causata dalla pandemia, il 110 per cento ha dato senz’altro un contributo importante. Ovviamente, c’è anche il rovescio della medaglia. Tra la fine del 2020 e lo stesso periodo del 2023, i costi di costruzione sarebbero aumentati del 20 per cento, di cui la metà a causa del Superbonus. Sul fronte occupazionale, invece, in questi ultimi anni gli addetti nel settore delle costruzioni sono aumentati notevolmente, grazie anche al contributo “innescato” dal Superbonus. Sono nate dall’oggi al domani tantissime micro attività guidate da persone, in particolar modo straniere, che sono diventati imprenditori edili dall’oggi al domani. Realtà che in moltissimi casi stanno chiudendo, perché nate solo sotto la spinta di un evento eccezionale. Infine, visti i tempi molto ristretti in cui le agevolazioni fiscali erano consentite, tanti interventi sono stati eseguiti in fretta e male. Pertanto, in tempi relativamente brevi, non mancheranno di creare problemi agli edifici che sono stati interessati da tali misure.

  • Effetti negativi anche sugli appalti pubblici

In particolare nel 2024, il Superbonus ha provocato delle conseguenze molto negative anche sugli appalti pubblici. L’impennata dei costi di moltissimi materiali ha imposto una revisione dei prezzi per un gran numero di opere pubbliche già cantierate, causando alla Pubblica Amministrazione non poche difficoltà ad adeguarsi per il deciso aumento del costo dell’opera e in molti casi provocando il rallentamento o addirittura la sospensione dei lavori nei cantieri.

  • Ristrutturato un “pugno” di edifici

Entro il 31 marzo scorso, gli interventi di ristrutturazione/efficientamento edilizio realizzati per mezzo del Superbonus hanno sfiorato le 500mila unità (precisamente 499.709). Nonostante gli oneri a carico dello Stato siano pari a 126 miliardi di euro, solo il 4,1 per cento del totale degli edifici residenziali presenti nel Paese è stato interessato dall’agevolazione fiscale. A livello regionale è il Veneto ad aver registrato il ricorso più numeroso al cosiddetto 110 per cento: con 59.846 asseverazioni depositate, l’incidenza percentuale di queste ultime sul numero degli edifici residenziali esistenti è stata pari al 5,7 per cento. Seguono l’Emilia Romagna con 44.767 asseverazioni e un’incidenza del 5,5 per cento, il Trentino Alto Adige con 11.420 interventi e un tasso del 5,4, la Lombardia con 78.630 asseverazioni e un’incidenza del 5,3 e la Toscana con 38.418 operazioni e una incidenza del 5,2.  Per contro, hanno manifestato un grosso disinteresse nei confronti del Superbonus le regioni del Mezzogiorno: il Molise, ad esempio, è stato interessato per il 3 per cento dei propri edifici residenziali, la Puglia il per 2,9, la Calabria per il 2,6 e la Sicilia solo per il 2,2 per cento.

  • Costo medio per intervento di 252.000 euro. Il top della spesa in Valle d’Aosta: 402mila euro

Sempre a livello nazionale, l’onere medio per edificio residenziale a carico dello Stato è stato di 252.147 euro. Il picco massimo lo scorgiamo in Valle d’Aosta con 402.014 euro per immobile: seguono la Liguria con 306.240 euro, la Campania con 304.692 euro, la Basilicata con 304.681 euro e la Lombardia con 303.757 euro. Chiudono la graduatoria il Veneto con un costo medio per intervento di 197.017 euro per edificio, la Sardegna con 188.643 e, infine, la Toscana con 184.781 euro.

[1] Per l’anno in corso la detrazione del 65 per cento si applica esclusivamente ai seguenti soggetti:

  • condomini: il beneficio è destinato agli edifici condominiali, considerando l’ampia portata degli interventi che spesso coinvolgono intere strutture abitative;
  • proprietari di edifici composti da 2 a 4 unità immobiliari: questa categoria comprende anche i piccoli complessi abitativi in cui il singolo proprietario ha il controllo dell’intero immobile;
  • ONLUS, Associazioni di Volontariato (ADV) e Associazioni di Promozione Sociale (APS): la normativa mantiene un’attenzione particolare verso gli enti non profit, incentivando la realizzazione di interventi anche su edifici destinati a finalità sociali.

Per poter accedere nel 2025 al Superbonus era essenziale rispettare precise scadenze documentali. Alla data del 15 ottobre 2024, dovevano essere stati soddisfatti i seguenti requisiti:

  • CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata): doveva essere presentata per interventi diversi da quelli che comportano demolizione e ricostruzione;
  • delibera assembleare condominiale e CILA: per i condomini, era necessario che l’assemblea avesse deliberato l’esecuzione dei lavori e la presentazione della CILA;
  • istanza per il titolo abilitativo: per interventi che prevedevano demolizione e ricostruzione, era indispensabile aver avviato la procedura di richiesta del titolo abilitativo.

[2] Ultimi dati resi disponibili dall’ENEA.

[3] Audizione nell’ambito dell’indagine conoscitiva sugli effetti macroeconomici e di finanza pubblica derivanti dagli incentivi fiscali in materia edilizia, testimonianza di P. Tommasino, dirigente del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, 5ª Commissione della Camera dei Deputati (Bilancio, tesoro e programmazione), Camera dei Deputati, Roma, 29 marzo 2023.

[4] Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), Incentives for dwelling renovations: evidence from a large fiscal programme, by Antonio Accetturo, Elisabetta Olivieri and Fabrizio Renzi, Number 860, June 2024.

[5] Questioni di Economia e Finanza, Il miglioramento dell’efficienza energetica delle abitazioni in Italia: lo stato dell’arte e alcune considerazioni per gli interventi pubblici, n. 845, aprile 2024.

[6] Memoria nell’ambito dell’indagine conoscitiva sugli effetti macroeconomici e di finanza pubblica derivanti dagli incentivi fiscali in materia edilizia, V Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, aprile 2023.

[7] Audizione 5° Commissione della Camera dei Deputati del 24 maggio 2023. 


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Riforma forense, D’Orso avverte: “Il Parlamento rischia di restare spettatore”. Nordio punta sulla legge delega ma Greco invia il testo

Nel dibattito che accompagna il cammino verso il XXXVI Congresso Nazionale Forense, si fa sentire con forza la voce dell’on. Valentina D’Orso, intervenuta nel corso di un recente convegno del 16 maggio scorso, organizzato da Movimento forense e dedicato alla possibile riforma dell’ordinamento professionale forense. La parlamentare ha criticato la scelta di procedere tramite disegno di legge delega governativo, sottolineando le anomalie e i rischi di un percorso che rischia di marginalizzare il Parlamento e di impoverire il confronto con la categoria.

«A me — ha detto D’Orso — non risulta di avere già sul tavolo una bozza di legge delega. È da ieri che se ne parla, in un clima di tempistiche a dir poco anomale: il Ministro, sollecitato da un parlamentare di maggioranza durante un question time, ha corretto il tiro rispetto alle dichiarazioni rilasciate a Siracusa, dove la riforma non era stata indicata come priorità. Ora invece arriva un impegno pubblico in diretta TV, ma resta il fatto che il Parlamento non ha avuto voce né tempi certi.»

Una presa di posizione netta che, dietro il garbo istituzionale, nasconde una denuncia politica precisa: il rischio di una riforma costruita nelle stanze ministeriali, senza il necessario coinvolgimento parlamentare e senza una reale condivisione con l’avvocatura. D’Orso ha sottolineato infatti come sarebbe stato auspicabile un percorso diverso, con l’avvocatura compatta a proporre un testo unitario alle forze politiche, lasciando al Parlamento l’iniziativa legislativa.

Il vero nodo politico, però, resta quello fissato dal Guardasigilli Carlo Nordio: prima l’avvocato in Costituzione, poi la revisione dell’ordinamento forense (leggi qui l’articolo). Una scelta di priorità chiara, che rende i tempi della riforma incerti e legati alle complesse dinamiche di una modifica costituzionale. «La riforma ordinamentale — ha ricordato D’Orso — anche se pronta in bozza con oltre novanta articoli, rischia di essere relegata a una legge delega che affida al Governo il potere di dettaglio. Così facendo il Parlamento potrà intervenire solo sui principi generali, rinunciando a incidere sulle norme specifiche che regolano l’esercizio della professione.»

Un tema tutt’altro che tecnico, se si considera che proprio la normativa di dettaglio è quella che più direttamente impatta sulla vita professionale degli avvocati: accesso alla professione, incompatibilità, formazione, governance degli ordini. Tutti temi che, secondo D’Orso, meritano una discussione ampia e trasparente, in grado di coinvolgere sia le istituzioni forensi sia il Parlamento nel suo insieme.

Non è mancato, infine, nell’intervento dell’onorevole, un riferimento al valore simbolico e politico del Congresso Nazionale Forense che si terrà a Torino in ottobre: «Quella potrebbe essere l’occasione per presentare un progetto compiuto, o quanto meno un testo già avviato in Parlamento, dimostrando così la capacità dell’avvocatura di essere interlocutore propositivo e della politica di saper ascoltare e dialogare.»

L’appello di D’Orso è chiaro: evitare scorciatoie procedurali e recuperare un metodo di confronto autentico, restituendo al Parlamento e alla professione il ruolo che meritano in un passaggio cruciale per il futuro della giustizia e della difesa dei diritti in Italia.

Guarda qui il video dell’intervento dell’on. D’Orso

La risposta dell’Avvocatura

A conferma che l’appello di Valentina D’Orso non è caduto nel vuoto, a stretto giro è arrivata la mossa del Consiglio Nazionale Forense. Il presidente Francesco Greco, infatti, ha inviato il 22 maggio scorso a tutti i senatori e deputati avvocati una comunicazione ufficiale con allegata la proposta di riforma dell’ordinamento professionale forense e la relativa relazione illustrativa.

Una scelta significativa, che evidentemente mira a riportare il dibattito all’interno delle Aule parlamentari e a restituire centralità al confronto politico e istituzionale, come auspicato proprio dalla deputata D’Orso nel suo intervento.

Nel testo della lettera, Greco scrive:

“Con la presente mi pregio di inviarVi, in allegato alla presente, la proposta di riforma dell’ordinamento professionale forense nonché la relazione di accompagnamento. Il testo, composto da 92 articoli, persegue la finalità di dotare gli Avvocati e gli enti istituzionali rappresentativi della classe forense di un nuovo ordinamento professionale che, sostituendo quello attuale (Legge n. 247/2012), possa far fronte alle nuove necessità e al mutato contesto in cui i professionisti legali devono operare.”

Un passaggio cruciale del testo evidenzia inoltre come il progetto sia -secondo Greco- il risultato di un’ampia condivisione della categoria: elaborato attraverso un tavolo congiunto tra Consiglio Nazionale Forense e Organismo Congressuale Forense, rappresenta la sintesi dei deliberati emersi dalle sessioni ordinaria e ulteriore del XXXV Congresso Nazionale Forense.

Greco, nella sua comunicazione, non manca di sottolineare il rispetto dovuto alle prerogative parlamentari, ma al contempo rinnova l’invito affinché il Parlamento consideri la proposta e avvii l’iter legislativo. In altre parole, la palla è ora ufficialmente tornata al Parlamento: starà alle forze politiche decidere se e come valorizzare questo testo unitario, frutto di mesi di confronto tra le componenti dell’avvocatura.

Leggi qui il documento integrale

Il braccio di ferro sottotraccia tra Governo, Parlamento e Avvocatura

Dietro le mosse di queste ore si intravede con chiarezza un nodo politico che va ben oltre la sola riforma dell’ordinamento forense. La dinamica che si sta giocando tra Governo, Parlamento e vertici dell’Avvocatura è infatti il riflesso di una tensione più ampia sulle prerogative istituzionali e sugli equilibri di potere nella produzione normativa.

Il Ministro Nordio, con le sue prese di posizioni — prima l’avvocato in Costituzione, poi eventualmente una riforma ordinamentale, poi la nuova ipotesi della legge delega,  — ha di fatto tracciato una linea di comando che accentra al Ministero il controllo sui tempi e sui contenuti della futura regolamentazione della professione forense. Un approccio che non sorprende in un esecutivo abituato a privilegiare strumenti come i decreti-legge e le leggi delega, che lasciano al Parlamento un ruolo di approvazione più che di elaborazione.

Valentina D’Orso, nel suo intervento al convegno “Verso il XXXVI Congresso Nazionale Forense”, ha colto questo rischio e lo ha denunciato senza giri di parole: il Parlamento, privato della possibilità di intervenire sulla normativa di dettaglio, rischia di ritrovarsi spettatore di scelte fatte altrove.

È qui che si colloca la mossa di Francesco Greco. Inviare al Parlamento la proposta completa, è stato un atto politico preciso. A dispetto delle indicazioni di Nordio, il Presidente del CNF lancia sostanzialmente un invito alle Camere, ovvero di riprendere in mano il confronto sulla professione forense, non lasciando che a scrivere le regole sia solo il Governo.


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Avvocati, incostituzionale il divieto di cancellazione dall’albo durante il procedimento disciplinare

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 depositata oggi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma della legge forense che vietava la cancellazione dall’albo degli avvocati in pendenza di procedimenti disciplinari a carico del professionista.

La questione era stata sollevata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nell’ambito di un giudizio riguardante il rigetto, da parte del Consiglio dell’Ordine, dell’istanza di cancellazione avanzata da un avvocato gravemente malato. La motivazione del diniego risiedeva nella pendenza di più procedimenti disciplinari nei confronti del legale.

La Consulta ha ritenuto che il divieto di cancellazione, pur finalizzato a garantire l’efficacia dell’azione disciplinare — impedendo che la rinuncia all’iscrizione potesse vanificarla — comporti una compressione eccessiva di diritti fondamentali di rango costituzionale.

Secondo i giudici costituzionali, infatti, la norma contrasta con l’articolo 2 della Costituzione, poiché limita la libertà del professionista di autodeterminarsi in merito alla propria permanenza nell’albo, anche in presenza di condizioni personali che richiedano la cessazione dell’attività o la possibilità di accedere a prestazioni previdenziali o assistenziali.

Inoltre, il divieto incide in modo sproporzionato sulla libertà di lavoro garantita dall’articolo 4 della Costituzione, ostacolando la possibilità per l’avvocato di cessare l’attività professionale o di intraprendere un diverso percorso lavorativo, con un sacrificio di durata indefinita, considerata l’assenza di termini certi per la conclusione dei procedimenti disciplinari.

Pur riconoscendo la legittimità della finalità di garantire la prosecuzione dell’azione disciplinare, la Corte ha osservato che il divieto in esame non rappresenta la misura meno restrittiva possibile dei diritti coinvolti, violando così anche il principio di ragionevolezza e proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

La sentenza evidenzia inoltre che l’eliminazione del divieto lascia un vuoto normativo che il legislatore sarà chiamato a colmare, predisponendo un meccanismo che, pur salvaguardando l’efficacia dell’azione disciplinare, rispetti i diritti fondamentali dei professionisti coinvolti.

In attesa di un intervento legislativo, la Corte ha precisato che la rinuncia all’iscrizione all’albo comporta l’estinzione del procedimento disciplinare in corso, senza però far venir meno la possibilità per gli organi competenti di riattivare l’azione sanzionatoria qualora il professionista chieda, in seguito, di essere nuovamente iscritto all’albo, purché il fatto contestato non sia prescritto.


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