Abusi edilizi, la Cassazione: “Nessun condono oltre i termini previsti”

Chi spera di sanare vecchie costruzioni abusive facendo leva su pareri tardivi o sull’età dell’immobile dovrà ricredersi. La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 20665 del 2025, ha confermato con fermezza un principio già affermato più volte dalla giurisprudenza: il condono edilizio non è ammissibile oltre i termini stabiliti dalla legge.

Il caso in esame riguardava un ricorrente che, nel tentativo di evitare la demolizione di un’opera abusiva, aveva prodotto un parere tecnico-legale redatto anni dopo la scadenza per richiedere il condono. Una manovra giudicata irrilevante dai giudici di legittimità, perché priva di qualsiasi fondamento normativo. La legge, infatti, non prevede alcuna possibilità di riesame tardivo o condono retroattivo basato su documentazioni successive.

Nella sua decisione, la Suprema Corte ha precisato che il termine per presentare l’istanza di sanatoria edilizia rappresenta un limite invalicabile: una volta scaduto, non è più consentito né sanare l’abuso, né sospendere l’esecutività dell’ordine di demolizione. Nemmeno eventuali interventi successivi sull’immobile, come modifiche o riduzioni volumetriche, possono riportare l’opera entro i parametri richiesti per la regolarizzazione.

Inoltre, i giudici hanno escluso che la mera anzianità dell’abuso edilizio — anche se risalente a oltre trent’anni prima — possa di per sé giustificare la sospensione della demolizione. L’unico presupposto valido resta l’esistenza di una regolare istanza di condono presentata nei termini previsti dalle normative all’epoca vigenti.

La Cassazione ha così ribadito un principio chiaro: la regolarizzazione edilizia è possibile solo se richiesta tempestivamente e secondo le modalità fissate dal legislatore. Qualsiasi tentativo successivo di ottenere una sanatoria al di fuori di queste regole è destinato a fallire, confermando la linea di rigore della giurisprudenza in materia di abusivismo edilizio.


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Carceri sovraffollate, il Garante: “Un indulto per pene fino a due anni risolverebbe l’emergenza”

Il problema del sovraffollamento carcerario in Italia resta una ferita aperta per il sistema penitenziario. Al 31 maggio scorso, i detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani erano 62.761, a fronte di una capienza regolamentare effettiva di 46.745 posti, considerando anche oltre 4.500 letti temporaneamente indisponibili per ristrutturazioni. L’indice medio di affollamento è salito così al 134,29%, con punte che in alcune strutture superano il 150%.

A evidenziare la criticità è il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasia, che rilancia una proposta concreta e immediata: un indulto limitato alle condanne e ai residui di pena inferiori a due anni. Si tratta di 16.568 persone, esattamente il numero di detenuti che eccede la capienza carceraria del Paese.

“Con un provvedimento di questo tipo — spiega Anastasia — sarebbe possibile azzerare il sovraffollamento e riportare il sistema penitenziario entro i limiti di legalità costituzionale”. Oltre alla questione numerica, il Garante richiama l’attenzione sulle condizioni materiali di vita all’interno delle strutture: ambienti angusti, personale ridotto soprattutto nelle ore notturne, difficoltà nel garantire assistenza sanitaria, attività formative e opportunità di reinserimento.

Anastasia sottolinea anche come l’amnistia e l’indulto restino, ad oggi, gli unici strumenti straordinari previsti dalla Costituzione per intervenire in situazioni di emergenza e che per essere approvati richiedono il consenso bipartisan. Richiama così il precedente del 2006, quando maggioranza e opposizione si unirono per approvare un indulto di tre anni, che non solo alleggerì il sistema carcerario, ma contribuì anche a dimezzare i tassi di recidiva tra i beneficiari.

“L’Italia — conclude Anastasia — ha bisogno di tempo e di margini per costruire una riforma penitenziaria strutturale. Liberare spazio e risorse con un indulto limitato e mirato consentirebbe di ripristinare condizioni minime di dignità e legalità negli istituti di pena e di ridare senso al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena”.


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Stupefacenti e uso personale: i criteri della Cassazione

La detenzione di una modesta quantità di stupefacente, anche se suddivisa in più dosi e trovata in contesti notoriamente legati al traffico di droga, non basta da sola a dimostrare l’intento di spaccio. A stabilirlo è la Terza sezione penale della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 21859 depositata il 10 giugno 2025 ha annullato senza rinvio la condanna di un uomo arrestato a Palermo.

L’imputato era stato fermato in tarda serata, in una zona cittadina conosciuta per lo spaccio, mentre portava con sé sette bustine di cocaina per un totale di 0,88 grammi lordi. La Corte d’appello aveva ritenuto che il quantitativo, la suddivisione in dosi, l’orario e il luogo, insieme ai suoi precedenti penali, fossero elementi sufficienti a dimostrare che la droga fosse destinata alla cessione.

Di diverso avviso la Cassazione, che ha giudicato quella ricostruzione “manifestamente illogica”. Secondo i giudici di legittimità, la prova della destinazione allo spaccio deve poggiare su elementi indiziari concreti e univoci, come quantità rilevanti, modalità di confezionamento tipiche del commercio, strumenti per il taglio o la pesatura, o l’effettivo contatto con terzi. Nessuno di questi elementi, sottolinea la Corte, risultava nel caso di specie: il quantitativo sequestrato corrispondeva a meno di tre dosi e, durante l’appostamento, l’imputato non aveva avuto alcun contatto con potenziali acquirenti.

La sentenza ricorda che il semplice frazionamento della droga e la presenza in una piazza di spaccio non sono di per sé indicativi di attività illecita di cessione, specie se non supportati da ulteriori riscontri oggettivi e soggettivi.

Per questi motivi, la Suprema Corte ha annullato la condanna senza rinvio, dichiarando che il fatto non sussiste in mancanza della prova della destinazione a terzi dello stupefacente.


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Amministrazioni di sostegno, cambia la competenza sui reclami: dopo il 28 febbraio 2023 decide il Tribunale

Arriva un chiarimento decisivo dalla Corte di Cassazione sulla nuova disciplina dei reclami avverso i decreti del giudice tutelare nelle amministrazioni di sostegno. Con l’ordinanza n. 15189/2025, la Prima sezione civile ha stabilito che, per tutti i procedimenti avviati dopo il 28 febbraio 2023, la competenza a decidere sui reclami spetta al Tribunale e non più alla Corte d’Appello, anche se inseriti in amministrazioni già aperte in precedenza.

La questione è nata da un conflitto di competenza tra il Tribunale di Brindisi e la Corte d’Appello di Lecce in merito al reclamo contro un decreto di revoca di un amministratore di sostegno, emesso a novembre 2023 nell’ambito di una procedura avviata nel 2012. Il Tribunale riteneva che, trattandosi di un procedimento relativo a un’Ads aperta prima della riforma Cartabia, la competenza spettasse ancora alla Corte d’Appello. Di diverso avviso, però, la Cassazione.

Secondo i giudici di piazza Cavour, ogni provvedimento assunto nel corso di un’amministrazione di sostegno costituisce un segmento procedimentale autonomo rispetto alla fase di apertura. Pertanto, anche all’interno di amministrazioni avviate prima del 28 febbraio 2023, i procedimenti successivi a quella data devono essere trattati secondo la nuova regola fissata dall’articolo 473-bis.58 del codice di procedura civile.

La Suprema Corte ha sottolineato che l’amministrazione di sostegno è una misura destinata a protrarsi nel tempo e composta da più fasi, ognuna delle quali genera procedimenti distinti. Questo approccio consente di applicare il principio generale di competenza previsto dalla riforma Cartabia, in base al quale il reclamo contro i decreti del giudice tutelare spetta oggi al Tribunale e non più alla Corte d’Appello.


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Nasce una Direzione Generale per le libere professioni: Nordio annuncia la svolta al Ministero

Una nuova direzione generale dedicata alle libere professioni vedrà presto la luce all’interno del Ministero della Giustizia. Lo ha annunciato il ministro Carlo Nordio dal palco degli Stati Generali dei commercialisti, in corso al centro congressi La Nuvola di Roma. La nuova struttura sarà un punto di riferimento per avvocati, notai e commercialisti e garantirà — come ha spiegato il Guardasigilli — una interlocuzione diretta con i vertici di via Arenula.

Il ministro è intervenuto nel corso di un dialogo pubblico con il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Elbano de Nuccio, soffermandosi sulle riforme che riguardano gli ordini professionali. “Stiamo discutendo di interventi che coinvolgono diverse categorie — ha dichiarato Nordio — a partire dagli avvocati, e saranno riforme capaci di rispondere alle esigenze delle professioni”.

Spazio anche al tema della cabina di regia istituita al Ministero per le professioni economico-giuridiche, pensata per coordinare e concertare i cambiamenti normativi. “Le riforme degli ordini — ha sottolineato Nordio — devono essere il risultato di un confronto serio e approfondito, cercando il più possibile il consenso di tutte le parti coinvolte”.

Parole accolte con favore dal presidente de Nuccio, che ha definito “eccellente” la collaborazione con il Ministero sulla riforma dell’ordinamento dei commercialisti.

Nel suo intervento conclusivo, il ministro Nordio ha voluto infine sottolineare l’importanza del contributo dei professionisti ai risultati dello Stato. “L’aumento delle entrate tributarie — ha affermato — è anche merito vostro”.


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Stop alla compensazione dei crediti formativi tra annualità: il CNF chiude la deroga post-Covid

Niente più compensazioni tra annualità diverse per i crediti formativi degli avvocati. Lo ha stabilito il Consiglio Nazionale Forense con il Parere n. 10 del 13 marzo 2025, pubblicato lo scorso 27 maggio, rispondendo a un quesito avanzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia.

Il CNF ha chiarito che la possibilità di compensare i crediti tra un anno e l’altro era stata introdotta in via del tutto straordinaria nel periodo emergenziale legato al Covid-19, con la delibera n. 168 del 20 marzo 2020. Allora, per far fronte alle difficoltà causate dalla pandemia, era stato ridotto il numero minimo di crediti richiesti e consentita la compensazione con crediti maturati nel triennio precedente o successivo.

Il quesito presentato da Reggio Emilia chiedeva se tale deroga fosse rimasta applicabile anche successivamente, in virtù del passaggio a una valutazione annuale degli obblighi formativi. La risposta del CNF è stata netta: dal 2022 in poi le delibere non hanno più riprodotto le deroghe concesse nel 2020 e, in assenza di nuove disposizioni specifiche, non è ammessa alcuna compensazione.

Viene così confermata l’impossibilità di utilizzare i crediti formativi in eccesso di un anno per colmare eventuali carenze di altri anni, ristabilendo il principio della valutazione triennale ordinaria, salvo eventuali future deroghe esplicitamente deliberate.

Il CNF ha inoltre richiamato il proprio precedente orientamento (Parere n. 35/2024), ribadendo che ogni deroga al regolamento vigente deve essere prevista in modo esplicito e motivato, come avvenne appunto nel contesto emergenziale del 2020.


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Fisco, è guerra nella maggioranza: Irpef o cartelle? La coperta è corta

ROMA — La maggioranza di centrodestra si ritrova nuovamente divisa sul fronte fiscale. Il taglio delle tasse resta la bandiera più sventolata dal governo Meloni, ma la mancanza di risorse rende complicata la definizione di una linea condivisa. A pochi mesi dalla prossima legge di Bilancio, le tensioni tra gli alleati si fanno più accese, con i leader dei partiti pronti a battagliare sulle rispettive priorità.

Forza Italia insiste per destinare almeno un miliardo di euro alla riduzione dell’Irpef per il ceto medio, considerata da Antonio Tajani una misura imprescindibile. Dall’altra parte, la Lega di Matteo Salvini punta tutto sulla rottamazione delle cartelle esattoriali, un cavallo di battaglia che il vicepremier leghista non ha mai abbandonato. «Tutto non si può fare» ripetono fonti di governo, ed è qui che si concentra lo scontro.

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, preoccupata per le fratture crescenti, prova a gettare acqua sul fuoco, inviando messaggi distensivi e ipotizzando che possano esserci spazi per accogliere entrambe le proposte, a patto però che se ne discuta nel quadro più ampio della prossima manovra. «Le risorse si troveranno» assicurano da Palazzo Chigi, ma sarà necessario definire una platea ristretta di beneficiari per evitare di compromettere i conti pubblici.

Durante l’assemblea di Confcommercio, Meloni ha ribadito l’obiettivo di alleggerire la pressione fiscale, che secondo gli ultimi dati Istat ha raggiunto il 42,6%. Ma oltre all’annuncio, resta da sciogliere il nodo delle coperture. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si mostra disponibile a trattare, ma chiede rigore: nessun provvedimento spot, ma misure sostenibili e compatibili con i vincoli di bilancio.

Intanto, le opposizioni alzano la voce. Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, rilancia la proposta di una tassa sui colossi del web per recuperare risorse da destinare al taglio dell’Irpef, mentre Angelo Bonelli (Avs) accusa il governo di pensare solo alla pace fiscale e di non spiegare chi realmente pagherà il conto. A complicare il quadro, il monito dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che segnala come la riforma fiscale ipotizzata dal centrodestra potrebbe addirittura aumentare il carico fiscale di 370 milioni di euro a danno dei lavoratori dipendenti.


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Controlli su email e internet al lavoro: il Garante Privacy sanziona la Regione Lombardia

Il Garante per la protezione dei dati personali torna a occuparsi dei controlli digitali sui dipendenti e, con un provvedimento sanzionatorio reso noto a fine maggio, ha colpito la Regione Lombardia per la gestione delle email aziendali e degli accessi a internet nei luoghi di lavoro. Al centro del caso, la conservazione dei metadati — ossia le informazioni relative a orari, destinatari e tentativi di accesso — per un periodo di 21 giorni senza il necessario accordo sindacale o, in alternativa, l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

Il Garante ribadisce così una posizione già espressa nel documento di indirizzo del giugno 2024: la conservazione dei dati generati dai sistemi di posta elettronica aziendale oltre il termine di 21 giorni — ritenuto sufficiente a garantire il funzionamento e la sicurezza dell’infrastruttura — configura un controllo a distanza dell’attività lavorativa, soggetto alle tutele previste dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.

La vicenda riapre il dibattito sull’equilibrio tra le esigenze organizzative e produttive dei datori di lavoro e il diritto alla riservatezza dei dipendenti in un contesto digitale in continua evoluzione. Secondo il Garante, strumenti come email e accesso a internet, anche se necessari per lo svolgimento delle mansioni, non possono essere monitorati liberamente, pena il rischio di ledere i diritti fondamentali dei lavoratori sanciti dalla Costituzione e dalle convenzioni europee.

Inoltre, l’Autorità sottolinea come, in un mondo digitale dove ogni strumento lascia traccia dell’attività svolta, il confine tra controllo legittimo e sorveglianza indebita diventi sempre più sottile. Per questo motivo, ribadisce l’obbligo di accordi sindacali o autorizzazioni ispettive per qualsiasi attività di monitoraggio sistematico o potenzialmente invasiva.

La sanzione comminata alla Regione Lombardia rappresenta un ulteriore segnale dell’approccio rigoroso adottato dal Garante in materia di privacy nei luoghi di lavoro, soprattutto quando le aziende non disciplinano in modo chiaro e trasparente l’utilizzo degli strumenti digitali da parte dei dipendenti, né informano adeguatamente sulle modalità e finalità dei controlli.


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Al via il concorso PNRR 2: 19mila posti per docenti nelle scuole di ogni ordine e grado

Domande aperte dall'11 al 30 dicembre. Previsti 4.840 posti di sostegno. Selezione in tre fasi: prova scritta, orale e valutazione titoli.

Autovelox, stretta definitiva dal 12 giugno: multe nulle senza omologazione

Dal prossimo 12 giugno 2025 cambiano le regole del gioco per gli autovelox sulle strade italiane. Entra infatti in vigore il decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, approvato nell’aprile scorso, che impone ai Comuni non solo di rispettare distanze minime tra una postazione e l’altra, ma anche di ottenere il parere dei Prefetti prima di installare nuovi dispositivi.

Un provvedimento destinato a incidere pesantemente sulle entrate milionarie delle amministrazioni locali, che ogni anno fanno cassa grazie ai rilevatori automatici di velocità. Basti pensare che un piccolo centro come Colle Santa Lucia, sulle Dolomiti, ha incassato oltre 1,2 milioni di euro in tre anni grazie a un solo autovelox, mentre nel Salento quattro comuni hanno raccolto insieme quasi 9 milioni di euro nel solo 2023.

Ma il nuovo regolamento non si limita a ridefinire le modalità di installazione: impone infatti che tutti gli apparecchi siano omologati dal Ministero, pena la nullità delle sanzioni elevate. La misura risponde a una serie di sentenze della Corte di Cassazione che hanno ribadito la distinzione tra approvazione e omologazione, stabilendo che solo quest’ultima garantisce il corretto funzionamento dei dispositivi e il valore legale delle multe.

Una posizione confermata di recente dall’ordinanza n. 1332/2025, che ha annullato le sanzioni emesse da autovelox privi di omologazione, revocando anche le decurtazioni di punti dalle patenti. Decisivo il richiamo della Suprema Corte alla normativa vigente, che non può essere modificata da semplici circolari ministeriali, come tentato lo scorso gennaio dal Ministero dell’Interno.

Ora i Comuni si trovano davanti a un bivio: disattivare gli autovelox non omologati o affrontare una prevedibile ondata di ricorsi da parte degli automobilisti, con il rischio di costi legali ingenti e bilanci comunali messi a dura prova.


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Addio al “modulo blu”? Dal 1° luglio la constatazione amichevole diventa digitale

Una piccola rivoluzione, destinata a cambiare le abitudini di milioni di automobilisti italiani, scatterà il prossimo 1° luglio 2025. La constatazione amichevole d’incidente — il celebre “modulo blu” compilato in due copie a bordo strada — sarà infatti disponibile anche in versione digitale. Un progetto voluto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy e dall’IVASS, con l’obiettivo di rendere più moderna, veloce e sicura la gestione dei sinistri stradali.

Con il nuovo sistema, sarà possibile denunciare un incidente direttamente tramite app ufficiali delle compagnie assicurative o via web, compilando i dati anagrafici, assicurativi e la dinamica del sinistro passo dopo passo. Il tutto corredato da fotografie, video e materiali multimediali, e con la possibilità di firmare elettronicamente il modulo grazie a SPID o CIE.

Maggiore rapidità e sicurezza i punti di forza della novità: l’adozione della CAI digitale punta a ridurre sensibilmente i tempi medi per l’apertura di un sinistro, oggi attestati tra i 10 e i 15 giorni, con l’obiettivo di scendere sotto i 5 giorni. Un vantaggio concreto anche in termini di contrasto alle frodi, grazie alla tracciabilità informatica e all’impossibilità di alterare i dati inviati.

Le compagnie assicurative, dal canto loro, dovranno adeguarsi in fretta: il termine ultimo è fissato al 31 marzo 2026, ma già dai prossimi mesi i clienti potranno scegliere se compilare il modulo cartaceo o passare alla nuova modalità digitale. La legge prevede infatti la coabitazione delle due versioni, per garantire accesso al servizio anche a chi non utilizza dispositivi elettronici o preferisce ancora il cartaceo.


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