E-commerce in crescita ma il cuore del commercio resta nei negozi di vicinato

Nonostante negli ultimi anni il commercio elettronico abbia mostrato tassi di crescita più che doppi rispetto a quelli dei piccoli negozi di prossimità, i dati più recenti indicano che circa il 90 per cento circa delle vendite al dettaglio di prodotti continua a svolgersi presso le attività commerciali fisiche. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.

Nel 2024, infatti, la penetrazione del commercio elettronico sul totale retail (online più offline) è stata del 13 per cento; quota che è salita al 17 per cento nelle vendite dei servizi e scesa all’11 per cento in quello dei prodotti. In termini di valore economico si stima che l’anno scorso gli acquisti e-commerce B2C[1] abbiano toccato i 58,8 miliardi di euro, 38, 2 miliardi per gli acquisti di prodotti e 20,6 per quello di servizi[2].

Se analizziamo la variazione di crescita delle vendite al dettaglio relativa ai primi 10 mesi del 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024, notiamo che il commercio elettronico e la grande distribuzione hanno registrato entrambe una crescita del 2,1 per cento. Per contro, sia le vendite al di fuori dei negozi[3] che le imprese operanti su piccole superfici hanno registrato una flessione dello 0,7 per cento. Le distanze si allargano ulteriormente se analizziamo il risultato che emerge dal confronto tra il 2024[4] e il 2019 (anno pre-pandemico).  Ebbene, se le vendite online sono “esplose” del 72,4 per cento e quelle della grande distribuzione (trainate in particolar modo dal settore alimentare) hanno subito un incremento del 16,4 per cento, i negozi di vicinato hanno registrato un modestissimo +2,9 per cento, mentre le vendite al di fuori dei negozi sono diminuite del 4,1 per cento (vedi Tab. 1 e Graf. 1).

  • E-commerce sempre più diffuso, ma i piccoli negozi sono insostituibili

In altre parole, se il commercio online sta aumentando la sua quota di mercato, i negozi tradizionali, seppur in difficoltà, continuano comunque a generare la maggior parte del fatturato delle vendite al dettaglio a beneficio dell’occupazione, del tessuto urbano e della qualità della vita. Certo, l’e-commerce sta diventando un fenomeno sempre più diffuso, ma non è destinato a cancellare l’attività dei negozi di vicinato. Il commercio fisico mantiene ancora la quota dominante delle vendite e rimane centrale nelle abitudini dei consumatori. Tuttavia, le esperienze internazionali ci dimostrano che nei Paesi dove la regolazione è molto debole e la pressione fiscale è più alta, il commercio online cresce più rapidamente. Diversamente, dove esiste un tessuto commerciale urbano forte e si sono adottate delle politiche di sostegno, il negozio di vicinato resiste meglio.

  • Un italiano su due acquista on line

Secondo gli ultimi dati Eurostat riferiti al 2024, il 53,6 per cento degli italiani ha realizzato un acquisto online di beni o servizi. Tra i 27 paesi dell’UE, solo la Bulgaria presenta una quota di persone sul totale nazionale (49,8 per cento) inferiore alla nostra. La media europea ha toccato il 71,8 per cento, con punte del 90,8 in Danimarca, del 94 nei Paesi Bassi e del 94,7 in Irlanda. Rispetto a 10 anni prima, la variazione in Italia è stata del +31,3 per cento, contro una media Ue a 27 del +25,6. Insomma, siamo ancora nelle posizioni di coda della graduatoria europea, ma stiamo recuperando e nel medio/lungo periodo dovremmo avvicinarci ai Paesi che presentano una maggiore propensione a eseguire gli acquisti attraverso il commercio elettronico (vedi Tab. 2).

  • I residenti di Trento e Aosta al top per il ricorso al commercio elettronico

Secondo gli ultimi dati Istat riferiti al 2024, la percentuale più elevata di residenti per regione che negli ultimi 12 mesi ha effettuato un acquisto con il commercio elettronico è stata la Provincia Autonoma di Trento con il 49,2 (pari a 268.000 consumatori). Seguono la Valle d’Aosta con il 47,2 (58.000), la Toscana con il 47 (1.722.000) e il Friuli Venezia Giulia con il 46,4 (554.000). Chiude la graduatoria nazionale la Calabria con il 27,6 per cento (pari a 507.000 consumatori) (vedi Tab. 3).

  • Boom on line nelle vendite di abbigliamento e scarpe

Il settore con la quota di penetrazione delle vendite online più elevata è l’abbigliamento, scarpe e accessori. L’anno scorso il 23,2 per cento degli acquisti di questi prodotti è avvenuto per mezzo del commercio elettronico. Seguono gli articoli per la casa, mobili e giardinaggio con il 13,7 per cento, i film o le serie in streaming con il 13,4 per cento, i servizi di trasporto[5] con l’11,4 per cento e i prodotti cosmetici con il 9,5 per cento (vedi Graf. 2).

  • I punti di forza dell’online

Se l’online consente al consumatore finale di ridurre i tempi di acquisto, di confrontare con facilità i prezzi e di avere un maggiore accesso alle informazioni sui prodotti, i negozi di vicinato sono penalizzati dai grandi operatori del commercio elettronico anche perché questi ultimi operano su scala globale con piattaforme centralizzate che gli permettono di praticare politiche di prezzo molto aggressive. Senza contare che molti operatori sono multinazionali che pagano le tasse nei Paesi a fiscalità di vantaggio e non in quelli dove realizzano gli utili. Infine, l’e-commerce ha imposto nuovi standard di comodità: acquisti 24 ore su 24, consegne rapide, possibilità di resa e ampiezza quasi illimitata dell’offerta.

  • Come aiutare i piccoli negozianti?

Nel ricordare che i piccoli negozi commerciali e le botteghe artigiane non si limitano a vendere delle merci, ma a differenza delle grandi piattaforme

–     creano lavoro localmente e alimentano circuiti di spesa radicati nel territorio;

–     danno luogo a occasioni di socialità, offrendo servizi personalizzati e consulenza sui prodotti;

–     contribuiscono all’attrattività delle città, migliorando la qualità della vita e la sicurezza dei luoghi in cui insistono.

Pertanto, non sono necessarie battaglie nostalgiche a difesa del commercio fisso, ma misure che favoriscano la concorrenza e la sostenibilità. Vale a dire:

–     regole fiscali competitive per tassare in modo equo le vendite digitali basate sulla localizzazione effettiva dei consumi;

–     politiche urbanistiche e fiscali che alleggeriscono il costo dell’affitto, delle tasse locali e favoriscano gli investimenti nei centri storici e nei quartieri;

–     strumenti di trasformazione digitale[6] per le piccole attività non più basate su bandi episodici, ma attraverso misure strutturali.

Secondo la CGIA l’e‑commerce è un fenomeno strutturale, ma non è detto che la sua diffusione porterà alla cancellazione dei negozi di prossimità. I dati mostrano un quadro complesso: il commercio fisico mantiene ancora la quota dominante delle vendite e rimane centrale nelle abitudini dei consumatori. Ciò che manca è una cornice politica ed economica che permetta alle piccole attività locali di competere su parametri equi, riconoscendone il valore economico e sociale. In altre parole abbiamo bisogno di scelte politiche — non una resistenza alla modernità, ma una gestione consapevole della transizione — che trasformi la sfida digitale in un’opportunità per tutti.

[1] Business to consumer (dall’azienda al consumatore).

[2] Politecnico di Milano, Osservatorio ecommerce B2C, 2024.

[3] Commercio ambulante, porta a porta, distributori automatici e televendite.

[4] Ultimo anno in cui i dati sono disponibili.

[5] Biglietti e abbonamenti

[6] Si intendono tecnologie, software e metodologie che aiutano le piccole imprese a digitalizzare processi, dati e relazioni. Includono cloud, ERP, CRM, e-commerce, automazione, analytics e cybersecurity, migliorando efficienza, competitività, decisioni, scalabilità ed esperienza del cliente, favorendo innovazione, integrazione operativa, riduzione dei costi e crescita sostenibile.


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Imprese in rosa, l’Italia guida l’Europa: record di imprenditrici

Il numero di donne imprenditrici presenti in Italia è il più elevato dell’ UE a 27. Nel 2024 la platea delle partite Iva in capo alle donne presenti nel nostro Paese ha toccato la soglia di 1.621.800 unità, pari al 16 per cento del totale donne occupate in Italia. Seguono la Francia con 1.531.700 (10,8 per cento donne occupate), la Germania con  1.222.300  (6,1 per cento) e la Spagna con 1.136.000 (11,3 per cento). E’ un record molto importante che, comunque, non cancella il primato negativo riconducibile al nostro tasso di occupazione femminile che, sebbene negli ultimi anni sia tornato a crescere, rimane ancora il più basso in tutta l’UE.

In Italia la crescita delle imprese guidate da donne è proseguita anche nei primi 9 mesi di quest’anno: nella media dei primi 3 trimestri del 2025  lo stock è stato di 1.678.500 unità (+ 2,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024). Sebbene in termini assoluti le donne imprenditrici siano meno della metà dei colleghi uomini, la variazione percentuale registrata nel 2025 è più che doppia rispetto al dato riferito all’imprenditoria maschile (+1,1 per cento).

A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA.

Sette donne su dieci guidano un’impresa di servizi o commerciale

Il 71 per cento delle imprese guidate da donne presenti in Italia riguarda iservizi/commercio. Al 30 settembre di quest’anno, il settore con il maggior numero di aziende capitanate da una imprenditrice è il commercio: questo comparto ne conta 288.411 attività. Seguono l’agricoltura con 186.781, gli altri servizi (quali parrucchiere, estetiste, tatuatrici, massaggiatrici, pulitintolavanderie, ecc.) con 136.173, e l’alloggio/ristorazione con 120.744.

A differenza dei maschi, le donne assumono donne

Il basso tasso di occupazione femminile in Italia è principalmente attribuibile all’elevato carico di lavoro domestico che grava sulle spalle delle donne. Purtroppo, il nostro Paese ha storicamente investito in misura limitata nello sviluppo dei servizi sociali e della prima infanzia, penalizzando le donne in modo duplice. In assenza di adeguati investimenti in questi ambiti non sono stati creati nuovi posti di lavoro che avrebbero potuto essere occupati prevalentemente da donne. Numerosi studi a livello internazionale dimostrano come l’imprenditoria femminile possa rappresentare una chiave per incrementare l’occupazione femminile; infatti le donne che fanno impresa tendono ad assumere altre donne in misura significativamente maggiore rispetto ai loro colleghi maschi.

L’autoimpiego come strumento per tornare nel mercato del lavoro e conseguire i propri sogni 

La letteratura specializzata evidenzia almeno due fattori che motivano le donne a intraprendere un percorso imprenditoriale. Il primo è strutturale ed è correlato alla condizione socio-economica: situazioni di disoccupazione, tradizioni familiari o la presenza di incentivi economici inducono a considerare l’imprenditorialità come necessità. Il secondo fattore è motivazionale e concerne ragioni intrinseche che spingono le donne ad abbracciare tale opportunità; questo aspetto sembra rispecchiare maggiormente la sensibilità femminile. Grazie all’autoimprenditorialità, le donne possono gestire con maggiore flessibilità gli impegni lavorativi insieme a quelli familiari. Inoltre, coloro che si trovano in condizioni di inattività a causa della nascita di un figlio incontrano notevoli difficoltà nel reinserirsi nel mercato del lavoro. L’autoimpiego si è affermato come uno degli strumenti più efficaci per riconquistare protagonismo nella propria vita professionale e realizzare i propri obiettivi e aspirazioni nella speranza di ottenere risultati economici gratificanti e una maggiore indipendenza.

Una leva da valorizzare

L’imprenditoria femminile non è solo una questione di equità sociale o di pari opportunità. Come abbiamo riportato più sopra, svolge un ruolo importante nel far crescere l’occupazione femminile e l’autoimpiego. In un contesto segnato da stagnazione demografica, transizioni tecnologiche e ridefinizione dei modelli di lavoro, il contributo delle donne all’attività imprenditoriale rappresenta una leva da valorizzare di più. I dati internazionali mostrano una costante: la quota di imprese guidate da donne è significativamente inferiore a quella maschile, nonostante livelli di istruzione mediamente più elevati e una crescente presenza femminile nel mercato del lavoro. Questo divario non è neutrale dal punto di vista macroeconomico. Secondo stime di organismi internazionali, colmare anche solo parzialmente il gap di genere nell’imprenditorialità potrebbe generare un aumento rilevante del Pil, grazie a una migliore allocazione del capitale umano e a una maggiore diversificazione del tessuto produttivo.

Modelli di governance più inclusivi

L’importanza dell’imprenditoria femminile emerge anche sul piano qualitativo. Numerosi studi indicano che le imprese guidate da donne tendono ad avere modelli di governance più inclusivi, una maggiore attenzione alla sostenibilità di lungo periodo e una propensione più elevata all’innovazione organizzativa. Non si tratta di tratti “naturali”, ma del risultato di percorsi professionali spesso più complessi, che costringono le imprenditrici a sviluppare competenze trasversali e strategie adattive. In un’economia sempre più basata su servizi avanzati, economia della conoscenza e relazioni, questi fattori diventano competitivi.

Alto valore sociale

C’è poi un aspetto settoriale. L’imprenditoria femminile è particolarmente presente in ambiti come sanità, istruzione, welfare, cultura e servizi alla persona, settori che stanno assumendo un peso crescente nelle economie mature. Rafforzare queste imprese significa investire in comparti ad alto valore sociale e con forti esternalità positive, spesso trascurati dalle politiche industriali tradizionali ma centrali per la coesione e la produttività complessiva.

Difficoltà di accedere al credito

Il problema non è la mancanza di iniziativa, ma l’accesso alle risorse. Le imprenditrici incontrano ostacoli sistemici: maggiori difficoltà nel credito, minore accesso al capitale di rischio, reti professionali più deboli, oltre al carico sproporzionato di lavoro di cura. Questi vincoli producono imprese mediamente più piccole e meno capitalizzate, non per limiti di capacità, ma per condizioni di partenza asimmetriche. Il risultato è una perdita di potenziale per l’intero sistema economico.

Da qui il ruolo delle politiche pubbliche, che dovrebbero spostarsi da un approccio simbolico a uno strutturale. Incentivi mirati, strumenti finanziari dedicati, servizi di accompagnamento e, soprattutto, politiche per la conciliazione tra lavoro e vita privata non sono misure “per le donne”, ma interventi pro-crescita.

Le imprese in rosa sono soprattutto al Sud: Molise, Basilicata e Abruzzo

Se analizziamo la distribuzione geografia delle imprese guidate da donne, scorgiamo che la ripartizione con il numero più alto è il Mezzogiorno che, al 30 settembre di quest’anno, ne contava 415.242. Seguono il Nordovest con 280.121, il Centro con 245.165 e il Nordest con 209.602. Se, invece, calcoliamo l’incidenza delle imprese femminili sul totale imprese è sempre il Sud a segnare la quota più elevata: precisamente il 24,3 per cento. A livello regionale, il più alto numero di attività guidate da donne lo troviamo in Lombardia con 162.190 aziende. Seguono la Campania con 119.137 e il Lazio con 112.200. Se, infine, misuriamo l’incidenza delle imprese femminili sul totale aziende, il dato più elevato è riconducibile al Molise con il 27,7 per cento. Seguono la Basilicata con il 27,3, l’Abruzzo con il 25,9 e l’Umbria con il 25,3.

[1] Non sono inclusi i settori manifattura, trasporti, costruzioni, energia e agricoltura

[2] Tra gli altri, Gobbi L. (2009), Diverse forme di sostegno per la crescita dell’imprenditoria femminile. Analisi di storie di donne imprenditrici, Università la Sapienza, Roma.


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Avvocati tributaristi: “Allucinazioni della AI negli atti di accertamento. Le Agenzie vigilino con attenzione gli output”

Uncat ha avuto notizia di atti di accertamento “allucinati”, presumibilmente per l’utilizzo improprio di sistemi di Intelligenza artificiale. In particolare, è stato segnalato che le motivazioni di alcuni atti di accertamento abbiano richiamato – a sostegno dell’attività della Agenzia delle Entrate – non solo sentenze tributarie inesistenti ma anche circolari della stessa Agenzia, altrettanto inesistenti.

Da qui la grave preoccupazione di Uncat, che teme l’avverarsi dei più gravi timori di un utilizzo non governato e non accurato di sistemi di AI proprio nel momento in cui la riforma fiscale legittima proprio l’integrazione di AI nelle diverse attività di valutazione del rischio fiscale, di redazione di risposte ad interpelli e per l’adozione di atti automatizzati (per i quali – ricordiamo – il nuovo Statuto del Contribuente esclude il contraddittorio).

Uncat dunque si chiede e chiede alle autorità di riferimento, Mef e Agenzia delle Entrate, se questi esiti sono dovuti a utilizzo di sistemi progettati all’interno dell’amministrazione fiscale; o se sono “utilizzi personali” da parte di funzionari dell’AdE. Evenienze entrambe gravi, che sollecitano specifiche attività di governance e vigilanza atte ad evitare l’avverarsi di altre ipotesi.

Uncat auspica fortemente che l’applicazione del codice di condotta sull’utilizzo dell’AI, annunciato dal Direttore dell’AdE Vincenzo Carbone, possa contenere usi impropri dell’AI ed imponga un rigoroso e costante controllo delle motivazioni degli atti da parte dei funzionari e dirigenti dell’AdE.

Uncat richiama le mozioni congressuali per un utilizzo responsabile dell’Intelligenza artificiale e fa presente quanto richiesto dalla legge nazionale 132/2025, che nell’articolo 14 specifica – oltre agli obblighi di trasparenza e controllo- il suo utilizzo finalizzato non solo alla efficienza ma anche al miglioramento della qualità dei servizi.


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Bilancio 2026, ADU Italia contro la norma sui compensi: «Così si affossa la difesa dei più deboli»

ADU Italia – Associazione Italiana Difensori d’Ufficio – ha inviato al Governo e ai gruppi parlamentari del Senato un articolato documento con cui chiede la soppressione dell’art. 129, comma 10, del DDL 1689 (Bilancio di previsione dello Stato 2026–2028) e il ritiro dell’emendamento governativo n. 129.1000.

Secondo l’Associazione, la norma – presentata come strumento di razionalizzazione della spesa pubblica e di incremento del gettito fiscale – produrrebbe in realtà un unico effetto concreto: ritardare ulteriormente i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti dei liberi professionisti, aggravando una situazione già segnata da ritardi cronici, burocrazia farraginosa e liquidazioni che arrivano anche a distanza di anni dalla conclusione dell’incarico.

Il provvedimento, evidenzia ADU Italia, introduce un principio discriminatorio nei confronti dei professionisti che lavorano per la P.A., imponendo il pagamento dei compensi alla preventiva dimostrazione della regolarità fiscale e contributiva senza alcuna soglia minima di debito, senza riferimenti a cartelle esattoriali notificate e senza chiarire quali documenti debbano essere prodotti. Una vera e propria “probatio diabolica” che scarica sul professionista oneri che oggi gravano sull’amministrazione.

Particolarmente gravi, secondo l’Associazione, sarebbero gli effetti qualora la norma venisse estesa ai difensori d’ufficio e agli avvocati iscritti negli elenchi del patrocinio a spese dello Stato. In questi casi, l’ulteriore incertezza sui tempi e sulle modalità di pagamento rischierebbe di disincentivare l’assunzione degli incarichi, allontanando sempre più i professionisti dalla tutela legale dei soggetti più fragili.

«Il risultato immediato – denuncia ADU Italia – sarà solo quello di ritardare la spesa per la Pubblica Amministrazione, mentre l’effetto mediato sarà devastante: meno avvocati disponibili a difendere chi non può permettersi un legale». Un processo che, secondo l’Associazione, porterebbe alla progressiva cancellazione di numerosi professionisti dalle liste dei difensori d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, con il rischio di un vero e proprio collasso del sistema giustizia.

Per queste ragioni ADU Italia chiede con forza il ritiro dell’emendamento governativo e la soppressione della norma contestata, ritenuta incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza e di effettività del diritto di difesa sanciti dagli articoli 3 e 24 della Costituzione.


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Minori, Aidif: priorità ai familiari, stop al collocamento in casa famiglia nei conflitti genitoriali

L’Aidif – Avvocatura italiana per i Diritti delle Famiglie – formula una proposta di legge per impedire che i figli minori siano affidati a terze persone estranee alla cerchia familiare, ovvero che vengano collocati nelle case famiglia, in caso di conflitto tra i genitori separati. L’obiettivo è quello di affidare i minori ai parenti entro il quarto, che non abbiano preso parte al conflitto familiare, soluzione migliore e priva di conseguenze dannose per i minori stessi.

«A giudicare dalle statistiche di ciò che accade nei vari tribunali d’Italia– spiega il presidente dell’Aidif – l’avvocato Giorgio Aldo Maccaroni – i casi di conflitto tra genitori che si separano sono elevatissimi. Tranne i casi, purtroppo molto rari, di genitori che riescono a raggiungere un accordo relativamente all’affidamento dei figli minori, la maggior parte delle separazioni e dei divorzi ha caratteristiche di una vera e propria contesa fra i genitori, con la conseguenza che a pagarne le spese sono proprio i figli minori, spettatori inermi e incolpevoli di un conflitto che si vorrebbe evitare il più possibile. Purtroppo, nei casi di conflitto fra i genitori la legge consente al giudice la possibilità di poter disporre l’affidamento dei figli minori sia a terze persone estranee alla cerchia familiare sia di poter disporre il collocamento degli stessi nelle case famiglia».

Una possibilità che, seppur attualmente prevista dalla legge, secondo l’Aidif è ingiustificata e nociva per lo sviluppo psicologico dei bambini che vengono privati dei propri genitori e degli altri parenti appartenenti alla cerchia familiare. Proprio per questa ragione la proposta di legge formulata punta a modificare l’articolo 337-ter del codice civile (quello che appunto permette in caso di separazione dei genitori la possibilità per il giudice di poter disporre anche il collocamento dei figli minori presso una casa famiglia).

«Il ricorso al collocamento nella casa famiglia – conclude Giorgio Aldo Maccaroni – deve essere disposto solo in casi molto gravi e sempre che entrambi i genitori, a seguito di un accertamento molto accurato, non siano ritenuti idonei e non vi sia un parente entro il quarto grado di uno dei due genitori che sia considerato idoneo ad avere in affidamento il figlio minore. Ovviamente tale parente è necessario che non abbia preso parte al conflitto familiare».​

Tutelare i minori è un dovere di tutti coloro che, a qualsiasi titolo, operano nel settore del diritto di famiglia e minorile. L’Aidif lo fa dal 2008, anno della sua fondazione, con corsi di formazione, convegni, attivismo e dibattito sui temi.

A questo link la proposta di legge nel dettaglio. https://www.aidif.it/proposta-di-legge-modifica-articolo-337-ter-codice-civile/


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Export in crescita, anche negli USA

Pur essendo prematuro trarre delle conclusioni definitive, l’implementazione dei dazi voluta dall’Amministrazione Trump sembra non aver inciso sulle nostre vendite all’estero né verso gli Stati Uniti né verso gli altri mercati internazionali. Anzi, se consideriamo anche le tensioni geopolitiche e le difficoltà del commercio mondiale, nel terzo trimestre di quest’anno siamo balzati al quarto posto tra i Paesi che compongono il G20 per esportazioni di merci, per un valore di quasi 190 miliardi di dollari[1]. Secondo l’OCSE, dopo aver superato il Giappone (184 miliardi), ora ci precedono solo la Cina (944,6), gli USA (547,8) e la Germania (453,8)[2]. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA.

  • Torna ad aumentare l’export

Dopo la contrazione del 2024 sul 2023 (-3,3 miliardi di euro, pari a -0,5 per cento), nei primi nove mesi del 2025, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, le esportazioni italiane nel mondo sono tornate a crescere e hanno registrato un incremento di 16,6 miliardi di euro (+3,6 per cento) (vedi Graf. 1).

  • Bene le vendite anche negli USA

Anche le nostre vendite verso il mercato statunitense hanno segnato un risultato positivo: dopo la contrazione 2024 su 2023 (-2,2 miliardi di euro pari al -3,3 per cento) sempre nei primi 9 mesi di quest’anno l’export negli States è tornato ad aumentare di 4,3 miliardi di euro (+9 per cento), passando da 48,1 a 52,4 miliardi di euro (vedi Tab. 1). È verosimile che questo risultato derivi dal fatto che i consumatori americani — siano essi famiglie o imprese — abbiano “anticipato” gli acquisti di merci italiane prima dell’entrata in vigore dell’aumento delle tariffe doganali avvenuta l’estate scorsa. Tale ipotesi trova un’ulteriore conferma nella variazione registrata nello scorso mese di agosto, che ha evidenziato un calo del 21,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024. Tuttavia, questa interpretazione è stata “sconfessata” nel mese successivo: a settembre, infatti, la variazione su base annua del nostro export è salita del 34,7 per cento (vedi Graf. 2), contraddicendo così l’idea che l’incremento delle tariffe doganali avrebbe provocato un crollo verticale delle esportazioni italiane negli USA.

  • I dazi statunitensi non hanno frenato le nostre merci

In attesa di disporre di un arco temporale medio-lungo che consenta un’analisi meno congiunturale degli effetti commerciali derivanti dai dazi imposti dall’Amministrazione Trump, si può ipotizzare che l’incremento delle esportazioni italiane nel mercato statunitense, in particolare a settembre, sia attribuibile anche alla combinazione di due fattori. In primo luogo, i consumatori statunitensi potrebbero aver continuato ad acquistare i prodotti italiani nonostante l’aumento dei prezzi; considerando che il 92 per cento delle merci italiane vendute negli USA appartiene a una fascia qualitativa medio-alta[3], potrebbe essere pressoché impossibile sostituire ilmade in Italycon qualsiasi altro prodotto di pari livello. In secondo luogo, le imprese italiane potrebbero aver difeso o addirittura incrementato le loro quote di mercato negli States, compensando l’incremento del prezzo finale dei propri manufatti causato dall’aumento delle tariffe doganali, attraverso una riduzione dei margini di profitto.

  • Dollaro svalutato del 12 per cento rispetto all’euro

Come abbiamo riportato più sopra, le politiche protezionistiche messe in atto dal Presidente Trump potrebbero condizionare nel medio-lungo periodo il commercio estero anche del nostro Paese sia per gli effetti diretti (mancate esportazioni), sia per quelli indiretti (riduzione margine di profitto delle imprese che continueranno a vendere nel mercato USA, trasferimento delle imprese o di una parte delle produzioni verso gli USA, il trade diversion[4], etc.). Oltre a queste due fattispecie non va sottovalutata anche quella congiunturale (legata alla svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro). Ricordiamo, infatti, che dall’inizio di quest’anno il dollaro si è deprezzato nei confronti dell’euro di 12 punti percentuali. Nonostante ciò, se nei primi 9 mesi le nostre vendite nel mercato statunitense sono aumentate del 9 per cento, questo vuol dire che il risultato ottenuto è stato significativamente importante. Dazi, crisi internazionali e svalutazione del dollaro non hanno fermato il nostro export. Tuttavia, vogliamo ribadirlo ancora una volta, è sicuramente prematuro formulare valutazioni definitive su questo fenomeno; anche se i primi dati statistici a disposizione fotografano una situazione estremamente positiva.

  • Bene le esportazioni di navi, medicinali e preziosi. Male gioielli e auto

Prendendo in esame i primi 50 gruppi di prodotti esportati che rappresentano il 90 per cento del totale, nei primi 9 mesi del 2025 gli incrementi di vendita nei mercati di tutto il mondo hanno interessato, in particolare, la nostra produzione di navi e imbarcazioni (+51,6 per cento), i medicinali e i preparati farmaceutici (+37,6), i metalli preziosi[5] (+32,4) e gli aeromobili (+25,5). Male, invece, la gioielleria (-14,7 per cento), i prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio (-13,6) e le auto (-10) (vedi Tab. 2).

  • Boom di vendite nel mondo per Palermo, Vibo Valentia e Sud Sardegna

Sempre nei primi tre trimestri di quest’anno, a livello provinciale spiccano gli incrementi di vendita nei mercati internazionali delle merci prodotte a Palermo (+160,6 per cento), a Vibo Valentia (+151,2), nel Sud Sardegna (129,5) e a Trieste (+118,7). In affanno, invece, Caltanissetta (-24,2 per cento), Isernia (-27,3) e Crotone (28,1) (vedi Tab. 3).

  • Crescita record di export in USA per Trieste. Seguono Enna e Vibo Valentia. Firenze è quella che esporta di più

Nei primi 9 mesi di quest’anno, l’incremento record dell’export verso gli Stati Uniti ha visto primeggiare Trieste. Nel capoluogo giuliano la crescita è esplosa del 1.080 per cento, passando da quasi 107 milioni di euro di esportazioni riconducibili ai primi 9 mesi del 2024, a quasi 1,3 miliardi nello stesso periodo di quest’anno. La produzione di navi e imbarcazioni è il settore che ha trainato questa impennata. Seguono la provincia di Enna che ha visto aumentare le vendite del 582,4 per cento, grazie all’agroalimentare (miele, legumi, confetture di frutta, formaggi, funghi, etc.) e Vibo valentia con il +434,5 per cento. Anche per la provincia calabrese a spingere all’insù le vendite nel mercato a stelle e strisce è stato l’agroalimentare (salumi, formaggi, vino e olio). La provincia italiana più “proiettata” nel mercato statunitense è Firenze. Tra gennaio e settembre di quest’anno il capoluogo regionale toscano   ha esportato negli USA prodotti per 5,7 miliardi di euro (+30 per cento). La voce merceologica più importante riguarda i medicinali e i preparati farmaceutici (vedi Tab. 4).

[1] Importo a prezzi correnti e destagionalizzati.

[2] Statistics News Release, G20 INTERNATIONAL TRADE, Paris, 21 November 2025.

[3] Bollettino Economico, Numero 2/2025 Aprile.

[4] In un mondo in cui una grande economia impone dazi quasi a tutti, gli altri esportatori di tutti i paesi colpiti cercheranno nuovi sbocchi per compensare le perdite subite sul mercato USA. Questo fenomeno è noto come deviazione del commercio (per l’appunto trade diversion).

[5] Oro, argento, platino, etc.


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La Cassazione dà ragione agli avvocati di Roma: dubbi di costituzionalità sull’anticipo per l’iscrizione a ruolo

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma esprime grande soddisfazione per quanto affermato dalla Corte Suprema di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria n. 32227 dell’11 dicembre 2025, che solleva forti dubbi di illegittimità costituzionale della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 812, della legge 30 dicembre 2024 n. 207 (legge di bilancio 2025). La norma impone il versamento preventivo del contributo unificato per l’iscrizione a ruolo degli atti giudiziari.

Già nel dicembre 2024, sulla base dell’autorevole parere dei professori Giorgio Costantino e Antonino Galletti, erano state evidenziate le gravi criticità costituzionali della disposizione, ritenuta intrinsecamente irragionevole e in contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione. In particolare, era stato sottolineato come l’obbligo di un pagamento anticipato rappresentasse un ostacolo ingiustificato all’esercizio del diritto di azione.

A seguito di tali rilievi, nell’aprile 2025 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva deliberato di rivolgersi direttamente al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, chiedendo un intervento volto a emendare una misura giudicata gravosa e lesiva dei diritti fondamentali.

Con l’ordinanza dell’11 dicembre, la Suprema Corte ha ora riconosciuto le criticità segnalate, evidenziando come l’obbligo di versare anche un contributo economico minimo per iscrivere a ruolo una causa non presenti alcun collegamento con finalità di razionalizzazione o di miglioramento del servizio giustizia. La Corte rileva inoltre che la disposizione si applica anche ai soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, ponendo un concreto ostacolo all’accesso alla giurisdizione per i cittadini privi di mezzi.

Ulteriori profili di irragionevolezza emergono nella disparità di trattamento tra ricorrente principale e ricorrente incidentale, nonché nella finalità meramente finanziaria della norma, orientata esclusivamente al reperimento di risorse, senza un adeguato criterio di proporzionalità o ragionevolezza.

I rilievi della Cassazione confermano pienamente le posizioni espresse dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e rafforzano la validità dell’iniziativa a suo tempo avviata. La giustizia, ribadisce l’Ordine capitolino, non può trasformarsi in un lusso né in una concessione amministrativa: l’accesso ai tribunali è un diritto fondamentale e tale deve restare.

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma continuerà quindi a far sentire la propria voce, con rigore e determinazione, contro ogni misura che ostacoli l’accesso alla giurisdizione. Difendere il diritto di agire in giudizio significa, in ultima analisi, difendere la Costituzione, la dignità delle persone e l’idea stessa di democrazia.


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Sindacato sotto accusa: 3,3 milioni di evasione fiscale

Un cratere da oltre 6 milioni di euro nei conti della Società di servizi CGIL Sicilia srl, l’ente che gestiva i CAF del sindacato nell’isola, oggi dichiarato fallito dal Tribunale di Catania.
È questa la notizia che scuote il mondo sindacale e imbarazza il segretario generale Maurizio Landini.

La società, partecipata dalla CGIL siciliana e dalle Camere del lavoro territoriali, avrebbe accumulato negli anni debiti milionari, tra cui 3,3 milioni di contributi previdenziali non versati, imposte e tributi lasciati in sospeso, oltre a crediti di dipendenti rimasti senza retribuzioni regolari – in alcuni casi costretti a lavorare in nero per mesi.

La vicenda, ricostruita nella trasmissione Lo Stato delle Cose di Massimo Giletti, mette in luce una gestione perlomeno disinvolta di risorse che, per definizione, dovrebbero essere destinate ai lavoratori e ai servizi di tutela fiscale e previdenziale.

Un caso emblematico di come, nel tempo, una parte del sindacato sia diventata una macchina complessa e pesante, capace di muovere milioni, ma non sempre in modo trasparente.

Dal crollo della srl siciliana a una domanda più ampia: che cosa è diventato il sindacato?

L’episodio di Catania non è solo una notizia contabile: è il simbolo di un cambiamento profondo.
Perché se un tempo il sindacato viveva della fiducia diretta dei lavoratori, oggi si trova spesso in mezzo a ingranaggi burocratici, poteri interni e strutture gigantesche che difficilmente ricordano l’immediatezza e la purezza delle lotte del Novecento.

Un tempo si andava casa per casa a riscuotere la quota associativa. Chi non aveva soldi, offriva ciò che poteva: un paniere di uova, un sacchetto di verdure. Il sindacalista guadagnava poco più di un operaio e viveva la stessa vita di chi rappresentava.

Era un ruolo onorato, quasi un servizio civile spontaneo. Era la stagione in cui l’Italia sembrava una scena in bianco e nero di Guareschi, con Don Camillo e Peppone che si affrontavano sulle idee, non sui budget.

Il racconto di un declino: “Fottitutto” di Salvatore Livorno

Proprio da questo contrasto tra passato e presente nasce Fottitutto, il libro-denuncia di Salvatore Livorno (libro del 2020 edito da Spazio Cultura), che analizza il lato oscuro del sindacato contemporaneo. Livorno racconta cene faraoniche, rimborsi gonfiati, telefoni di lusso, auto di rappresentanza. E dall’altro lato, migliaia di sindacalisti autentici – quelli veri – che ogni giorno corrono tra fabbriche, cantieri, ospedali, senza riflettori. Sono loro, scrive l’autore, a pagare il prezzo dei vertici distanti, dei carrozzoni interni, delle strutture che hanno progressivamente sostituito la militanza con la gestione di potere. Il messaggio di Livorno è semplice: il sindacato serve ancora, forse più di ieri. Ma non così.

Chi paga chi? Una macchina economica che i lavoratori conoscono poco

La vicenda della CGIL siciliana riporta al centro un tema che raramente viene affrontato apertamente: da dove arrivano davvero i soldi che tengono in piedi il sindacato?
Nel tempo si è formato un sistema articolato, spesso poco comprensibile per gli stessi lavoratori che lo finanziano. Una parte dei sindacalisti continua a percepire lo stipendio dal proprio datore di lavoro tramite il meccanismo dei distacchi retribuiti: lavorano per il sindacato, ma vengono pagati dall’azienda o dall’amministrazione pubblica, un paradosso che solleva più di un interrogativo sull’autonomia reale delle organizzazioni.

Accanto a loro ci sono coloro che operano in aspettativa sindacale ex Legge 300, retribuiti direttamente dal sindacato grazie alle quote associative che confluiscono attraverso la cosiddetta canalizzazione.

Infine, esiste un’ampia rete di persone assunte direttamente dalle strutture sindacali, impiegate nei patronati, nei CAF, negli sportelli e nei numerosi servizi che fanno da ossatura economica all’organizzazione. Una macchina complessa, fatta di molte professionalità e di flussi finanziari imponenti, che non sempre vengono comunicati o rendicontati con la trasparenza che ci si aspetterebbe da chi, per missione, tutela i diritti dei lavoratori.

Serve un ritorno alle origini: fare giustizia insieme

Il caso siciliano, il libro di Livorno, la distanza crescente tra vertici e base pongono una domanda fondamentale: il sindacato di oggi rappresenta davvero i lavoratori?

Per molti, la risposta è: non abbastanza. Eppure proprio ora, in una stagione di inflazione, precarietà e salari fermi da trent’anni, servirebbe più che mai un sindacato forte, autorevole, capace di difendere chi non ha voce.

Un sindacato che torni al significato etimologico della parola: syn-dikein: fare giustizia insieme. Non un carrozzone di potere, ma una casa dei lavoratori.


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Natale di spese e debiti: boom di insolvenze e rischio usura alle stelle

Con l’arrivo delle festività natalizie cresce, puntuale, anche un fenomeno meno visibile ma sempre più preoccupante: il rischio usura. In questo periodo, infatti, la spesa delle famiglie aumenta e molti ricorrono al credito al consumo – prestiti personali, dilazioni, formule “compra ora, paga dopo” – per sostenere i costi di regali e cene. Una pressione che pesa soprattutto sulle categorie più fragili e su chi, come artigiani e piccoli commercianti, non gode né di entrate fisse né della tredicesima.

La corsa agli acquisti natalizi viene spesso vissuta come un obbligo sociale, anche da chi non può permetterselo. E così le richieste di denaro aumentano, talvolta rivolgendosi a canali non ufficiali. Lo conferma una ricerca commissionata da Facile.it: 800mila italiani hanno dichiarato di aver chiesto un prestito per comprare i regali, un dato che solleva una domanda inevitabile – tutti si sono rivolti a banche e finanziarie, o qualcuno ha bussato a porte rischiose?

Parallelamente cresce l’allarme tra gli imprenditori. Le analisi dell’Ufficio studi CGIA mostrano che le imprese in sofferenza continuano ad aumentare, dopo la parentesi di stabilità registrata durante la pandemia. Al 30 giugno 2025 le aziende insolventi sfioravano quota 122mila, con un incremento del 3,6% in un solo anno. Il Mezzogiorno è l’area più colpita: 42.032 imprese segnalate, pari al 34,5% del totale nazionale, e una crescita del 6,3%, la più alta d’Italia.

Dietro queste cifre ci sono per lo più lavoratori autonomi, artigiani e piccoli imprenditori che, dopo essere stati segnalati alla Centrale dei Rischi, non hanno più accesso al credito regolare. Quando le banche chiudono la porta, le alternative restano poche – e spesso pericolose.

Nonostante questo scenario, le denunce di usura diminuiscono. Un paradosso solo apparente: chi cade nelle mani degli strozzini raramente denuncia, frenato dalla paura, dalle minacce e da un profondo senso di vergogna, soprattutto nei piccoli centri dove tutti si conoscono.

La fotografia delle province più colpite conferma il peggioramento: Roma, Milano e Napoli guidano per numeri assoluti di imprese insolventi, ma l’aumento più drastico si registra altrove. Grosseto (+20,9%), Arezzo (+18,7%), Siena (+17,2%) e Siracusa (+15,8%) mostrano incrementi allarmanti.

La crisi di liquidità che colpisce molte imprese non è sempre frutto di cattiva gestione; spesso deriva dai ritardi nei pagamenti dei committenti o dal coinvolgimento in fallimenti a catena. Per questo la CGIA chiede da tempo di rafforzare il Fondo di prevenzione dell’usura, che rappresenta l’unico argine istituzionale per chi non può più rivolgersi al sistema bancario.

Il contesto, del resto, non aiuta. Dal 2011 a oggi i prestiti bancari alle imprese sono crollati di oltre 350 miliardi di euro (-34,4%). Dopo una breve risalita durante la pandemia grazie alle garanzie statali, la stretta creditizia è tornata a mordere, lasciando senza ossigeno migliaia di attività. E quando il credito legale si restringe, quello illegale si espande.


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Riforma Forense, così non va: rischio vertici troppo longevi e poca rappresentanza

“Gli Avvocati non esprimono un giudizio totalmente positivo sulla Riforma dell’attuale Legge Forense, soprattutto nella parte in cui si delinea la rappresentatività degli organi di vertice: il Consiglio Nazionale Forense e i Consigli dell’Ordine”. Così spiega Alessandro Graziani, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, ascoltato in Commissione Giustizia della Camera sul disegno di legge delega per la riforma dell’Ordinamento forense.

“Il gran numero degli Avvocati della capitale d’Italia non è adeguatamente rappresentato nel Consiglio Nazionale, a dispetto del grande valore qualitativo che Roma esprime. Inoltre, la proposta di aumentare da due a tre il numero dei mandati per le cariche elettive dell’Avvocatura costituisce una soluzione di cui non si sentiva il bisogno e che certamente non giova a quella rappresentatività che la democrazia richiede”.

“Il tema è semplice – spiega Graziani – nel nostro ordinamento vige generalmente il principio del limite del doppio mandato. Anche la Corte Costituzionale ha ribadito questo trattando il caso dei Presidenti di Regione. Al contrario, la Riforma che ci viene proposta consentirebbe di svolgere anche tre mandati consecutivi, moltiplicando disagi e costi per l’Avvocatura, senza spiegare l’utilità di questa soluzione”.

Il pericolo segnalato dal Presidente degli Avvocati di Roma è del tutto evidente: “Temiamo che si vengano a creare gestioni eccessivamente lunghe, rendendo sempre più difficoltoso il ricambio dei vertici e così allontanando ulteriormente la politica forense da coloro i cui interessi dovrebbe tutelare: gli Avvocati che ogni giorno indossano la toga nelle aule d’udienza”.


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