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Telemarketing selvaggio: il Garante Privacy e la Guardia di Finanza confiscano banche dati

Contattavano decine di migliaia di utenti che non avevano rilasciato il consenso necessario, proponendo offerte commerciali da parte di alcune compagnie energetiche. Successivamente, inviavano i contratti realizzati ad altre aziende, che concludevano l’operazione intascando le provvigioni.

Un sistema collaudato, ma stroncato da un’operazione condotta in Toscana e nel Veneto, da parte del Garante della Privacy e dalla Guardia di Finanza, che sequestrano, per la prima volta, banche dati di call center, colpendo direttamente il sottobosco, con belle sanzioni per le società coinvolte.

Il fenomeno del telemarketing selvaggio continua ad imperversare, nonostante sia entrato in funzione il Registro delle opposizioni. Oggi, le associazioni dei consumatori chiedono che le aziende in questione risarciscano gli utenti.

L’operazione è partita grazie ad una segnalazione da parte della Guardia di Finanza di Soave, a Verona, grazie alla quale sono state individuate le quattro società sanzionate. In Veneto, Mas s.r.l.s. e Mas s.r.l. sono state sanzionate per 200.000 euro e per 500.000 euro.

Queste aziende avrebbero acquisito illegalmente banche dati di potenziali clienti. Dopo aver sottoscritto i contratti da parte di alcune compagnie energetiche, li inviavano a due società toscane, Sesta Impresa s.r.l., multata per 300.000 euro e Arnia società cooperativa, multata per 800.000 euro.

Quest’ultime inserivano i contratti nel database delle compagnie, incassandone le provvigioni senza alcun incarico e in pieno contrasto con la normativa sulla privacy. Si tratta di attività che formano il “sottobosco”, indicato più volte dal Garante come causa di espansione del telemarketing illegale.

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Utilizzare lo strumento della confisca, per il Garante, «è il segno di un ulteriore innalzamento della strategia di contrasto da parte dell’Autorità, che, da un lato, sta collaborando con gli operatori virtuosi del settore per l’approvazione di un codice di condotta, ma, dall’altro, non riduce la propria attività di controllo e repressione».

Le associazioni dei consumatori, nonostante il plauso, richiedono altre misure. Come sottolinea il presidente del Codacons, Gianluca Di Ascenzo, «è necessario obbligare gli operatori scorretti a risarcire tutti i cittadini danneggiati».

Inoltre, ricorda come dopo un anno di Registro delle Opposizioni il problema non sembra essere stato risolto, a causa dei problemi che si presentano con i call center stranieri oppure con quelli illegali.

Secondo i dati raccolti da Codacons, su 25 milioni di iscrizioni al Registro, circa il 66% degli iscritti riceve ancora telefonate commerciali. Spiega Massimiliano Dona, presidente dell’UNC: «Per questi call center va disposta la sospensione dell’attività e, in caso di recidiva, la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, altrimenti non se ne esce».


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Identità digitale: nasce INAD, l’Indice Nazionale dei Domicili Digitali

A Venezia un detenuto si è suicidato in carcere: per Fp Cgil «lo Stato ha fallito»

INAD domicilio digitale

Identità digitale: nasce INAD, l’Indice Nazionale dei Domicili Digitali

D’ora in poi i cittadini italiani potranno registrare su INAD il proprio domicilio digitale, ovvero un indirizzo PEC nel quale si desidera ricevere tutte le comunicazioni ufficiali da parte della PA. Non si tratta di un’operazione difficile: basta accedere al sito domiciliodigitale.gov.it accedendo con CIE, SPID o CNS ed inserire la propria PEC.

INAD nasce grazie alla collaborazione tra Agid e Infocamere. Spiega Alessio Butti, Sottosegretario di Stato con delega all’Innovazione tecnologica: «Si tratta di un progresso importante. Il domicilio digitale, insieme alla Piattaforma Notifiche, ci consentirà di compiere un passo avanti fondamentale per la digitalizzazione del Paese e la semplificazione dei rapporti tra cittadini, imprese e PA».

Continua Butti: «Attraverso il domicilio digitale, infatti, cittadini, professionisti e aziende potranno beneficiare di un canale semplice e immediato per ricevere le comunicazioni ufficiali da parte della PA, con un risparmio significativo di tempi e costi».

Le PA, dal 6 luglio 2023 utilizzeranno il domicilio digitale per tutte le comunicazioni che hanno valenza legale. A partire dallo stesso giorno, chiunque potrà consultarlo nell’area pubblica del sito, senza procedere con l’autenticazione, inserendo soltanto il codice fiscale della persona di cui si vuole conoscere il domicilio digitale.

Sempre dal 6 luglio, le PA, i gestori di pubblico servizio e privati aventi diritto avranno la possibilità di consultare INAD nella modalità applicativa con apposite interfacce dedicate, fruibili tramite PDND, la Piattaforma Digitale Nazionale Dati.

Potranno eleggere il proprio domicilio digitale anche professionisti che non sono iscritti ad albi, elenchi ed enti di diritto privati che non sono presenti in INI-PEC.

I vantaggi di INAD

Con INAD, le comunicazioni della PA con valore legale, come detrazioni d’imposta e rimborsi fiscali, verbali di sanzioni amministrative, accertamenti e così via, vengono inviate direttamente nella casella di posta che ha indicato il cittadino, che gestisce il proprio domicilio digitale in autonomia.

Le notifiche, dopo aver registrato il domicilio digitale, arriveranno in tempo reale, senza ritardi o problemi per quanto riguarda il mancato recapito, con risparmi sia per quanto riguarda il minor utilizzo della carta, ma anche per quanto riguarda l’azzeramento dei costi di invio tramite servizi postali.

Il cittadino, inoltre, avrà subito a disposizione tutta la documentazione, senza la necessità di doversi spostare fisicamente per riuscire a recuperarla, mentre la PA avrà un sistema di comunicazione centralizzato maggiormente efficiente, sicuro ed automatizzato.

Il domicilio digitale dei professionisti iscritti in INI-PEC, secondo il Codice dell’Amministrazione Digitale, verrà automaticamente importato su INAD in qualità di persona fisica. Potrà essere comunque modificato inserendo un altro indirizzo PEC.

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A Venezia un detenuto si è suicidato in carcere: per Fp Cgil «lo Stato ha fallito»

Arriva il Green Pass mondiale

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A Venezia un detenuto si è suicidato in carcere: per Fp Cgil «lo Stato ha fallito»

Dopo la conferma dell’ordinanza per la custodia in carcere, all’interno di una maxi operazione anti-droga, un uomo di 39 anni di origini tunisine, in semilibertà, sapendo del suo arresto, non ha retto e ha deciso di togliersi la vita.

I rappresentanti della Fp Cgil, con una nota informano del suicidio del detenuto, avvenuto martedì 6 giugno 2023 nel carcere di Santa Maria Maggiore: «Oggi lo Stato ha fallito», si legge.

«Nel carcere di Venezia si è suicidato un detenuto a cui hanno revocato il beneficio della semilibertà. Sicuramente nessuno ne piangerà la perdita e nessuno farà qualcosa per limitare i suicidi in carcere e, come al solito, ci saranno tante parole ma nulla si muoverà».

Stava scontando una pena a causa di fatti di droga, e da un anno aveva riottenuto la semilibertà, uscendo dal carcere per poter andare a lavorare in un cantiere, immaginando un futuro diverso. Quando in cella gli è stata consegnata l’ordinanza per la sua custodia cautelare in carcere per fatti di droga risalenti al 2018, gli è crollato il mondo addosso.

L’uomo ha chiamato la moglie per dirle addio, con una telefonata disperata, che ha allarmato tutti i familiari, che raccontano di aver chiamato per tre volte il carcere chiedendo di poter stare vicini al congiunto. Ma è stato tutto inutile.

Lo strazio e la rabbia dei familiari

Lo strazio dei familiari si fonde con la rabbia. «Questa vicenda non può restare nascosta. Non si può far morire così una persona. Noi avevamo chiamato per tre volte il carcere per dire che stessero attenti, che Bessem voleva uccidersi. Per tre volte ci hanno risposto che andava bene, che avevano capito. Invece», dice la cognata.

«Dopo la notifica dell’ordinanza, Bessem è stato isolato. Alle 12 ci ha chiamato con il telefono che aveva avuto con la semilibertà, che però non può ricevere telefonate. Era fuori di sé. Ci ha detto che non poteva reggere questa nuova carcerazione, che si sarebbe ucciso, che gli dispiaceva di lasciare la moglie sola, ma che non ce la faceva più», continua.

«Abbiamo cercato di rassicurarlo, ma era disperato. Noi, che lo conosciamo, abbiamo capito che la situazione era grave. Bessem sembrava un uomo forte, in realtà era una persona molto fragile. Non potevamo chiamarlo al suo telefono, così abbiamo contattato il carcere», che ha rassicurato i familiari.

«Ma noi non eravamo tranquilli. E alle 15.40 è arrivata la telefonata dell’ufficio matricole. Mi scusi, devo comunicarle una cosa brutta. Suo marito si è suicidato», hanno detto alla moglie, Silvia, «e poi hanno messo giù il telefono. Tutto questo non è giusto! Noi siamo i primi a dire che chi sbaglia deve pagare. Ma non pagare così, con la vita».

Verrà presentata una denuncia

I familiari, ora, hanno intenzione di presentare una denuncia, per chiarire che cosa è successo nelle ultime ore che l’uomo ha trascorso in carcere. Sconvolto anche l’avvocato del 39enne, Marco Borella: «In passato aveva fatto i suoi errori, certo, ma stava pagando. Aveva già scontato due anni e mezzo».

Continua Borella: «Da circa un anno era in semilibertà e lavorava in un cantiere, dove erano molto contenti di lui. Ho le lettere di encomio del datore di lavoro. Tra pochi giorni avrebbe avuto un permesso premio di una settimana e a settembre speravamo di ottenere la messa alla prova per farlo uscire dal carcere. In questo periodo era tranquillo, felice, gli stava andando tutto bene. Fino all’ordinanza di ieri che deve averlo fatto crollare. Era per fatti vecchi, avremmo trovato una soluzione».

Mancanza di investimenti nella struttura

Sembra che in queste ore stia avvenendo una gran protesta dei detenuti, che gli agenti stanno tentando di placare. Spiegano i sindacati: «Come Fp Cgil, più volte abbiamo segnalato la mancanza di personale e di figure di sostegno. Abbiamo fatto presente la mancanza di un’amministrazione penitenziaria centrale, che è scollegata con la realtà».

A Venezia «la stessa amministrazione non ha investito nella struttura, con mancanza di spazi e lavorazioni; il personale è ridotto ai minimi termini con carichi di lavoro ormai insostenibili. Se le carceri sono lo specchio della società, possiamo affermare che siamo alla frutta».

La denuncia di Fp Cgil

Sempre secondo quanto riferito dai sindacati, oggi si sarebbe verificato un altro episodio. Un detenuto, durante un colloquio, nel quale ha avuto un diverbio con un familiare, ha aggredito un poliziotto, rendendo necessarie le cure dell’ospedale.

Fp Cgil denuncia «lo scarso interesse e l’assenza dell’amministrazione penitenziaria che non fa nulla sia per i suicidi in carcere, che per le aggressioni al proprio personale, non investe in progetti di recupero e di tutela mantenendo carceri come quello di Venezia, Santa Maria Maggiore, privi di spazi e in sovraffollamento con situazione acuita dalla cronica mancanza di personale in tutte le figure».

«Chiediamo urgentemente un incontro istituzionale per affrontare e risolvere i problemi della struttura. L’amministrazione penitenziaria prenda atto dello stato di abbandono del personale di polizia e della popolazione detenuta, e agisca di conseguenza».


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Arriva il Green Pass mondiale

Edward Snowden: dieci anni fa cambiò il nostro modo di vedere internet

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Arriva il Green Pass mondiale

La Commissione europea, insieme all’Organizzazione mondiale della sanità, ha deciso di trasformare il green pass in un documento digitale internazionale, finalizzato al miglioramento della mobilità a livello globale.

I due enti hanno firmato un partenariato per la salute digitale, per rendere il Certificato Covid digitale UE standard in tutto il resto del mondo.

Una delle novità, per esempio, potrebbe essere il suo utilizzo per la sostituzione del certificato internazionale di vaccinazione, che oggi è ancora cartaceo.

Il certificato digitale Covid, il famoso green pass, è stato pensato e creato dall’Ue per superare i troppi certificati nazionali Covid-19, allo scopo di facilitare la mobilità all’interno del territorio europeo, dopo le restrizioni e i blocchi introdotti con la pandemia.

Lo strumento è nato principalmente per riuscire a superare le difficoltà nel riconoscimento transfrontaliero dei test, visto che i viaggi effettuati all’interno dell’Ue erano diventati veramente difficili.

Dunque, durante il mese di giugno 2023, l’OMS adotterà ufficialmente il sistema di certificazione digitale Covid-19 per poter istituire un sistema «che contribuirà a facilitare la mobilità globale e a proteggere i cittadini di tutto il mondo dalle minacce sanitarie attuali e future».

Per la Commissione, si tratta del primo elemento che costituirà la rete globale di certificazione della salute digitale da parte dell’OMS, che ha intenzione di sviluppare una grande gamma di prodotti digitali.

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Nell’accordo rientra anche una collaborazione per quanto riguarda lo sviluppo, l’attuazione e la gestione del sistema. L’ente usufruirà delle competenze tecniche messe a disposizione da funzionari Ue del settore.

Il green pass poggia su tecnologie e standard open-source prive di brevetto. Una circostanza che ha consentito l’utilizzo dello strumento anche da parte di Paesi che si trovano al di fuori dell’Ue, ma che rilasciano certificati che si basano su criteri Ue.

L’OMS, da quando è cominciata la pandemia, si è impegnata nel definire le linee guida generali per tali certificati. Al fine di «rafforzare la preparazione sanitaria globale di fronte alle crescenti minacce per la salute», l’Organizzazione Mondiale della Sanità comincia ad istituire una rete internazionale di certificazione digitale sanitaria, basata sulle tecnologie Ue.

Per facilitare il processo di diffusione e convergenza dei certificati digitali, l’Agenzia della Nazioni Unite che si occupa della salute globale ha intenzione di adottare standard comuni, come la convalida delle firme digitali per poter prevenire le frodi.

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L’OMS non riuscirà ad accedere ai dati personali, visto che continueranno a restare di dominio esclusivo dei governi. Nel mese di giugno 2023, il primo elemento che costituirà tale sistema globale diventerà operativo, e nei prossimi mesi sono previsti altri sviluppi.


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Edward Snowden: dieci anni fa cambiò il nostro modo di vedere internet

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Edward Snowden: dieci anni fa cambiò il nostro modo di vedere internet

Dieci anni fa, il 6 giugno 2013, il The Guardian pubblicò il primo articolo di una lunga serie, che riguardava la sorveglianza di massa da parte della NSA, la National Security Agency degli USA. In quell’articolo si parlava di come l’intelligence americana riuscisse a raccogliere i dati dei telefoni di milioni di clienti Verizon, uno dei principali fornitori di servizi di telecomunicazione, seguendo un’ordinanza top secret.

L’articolo si basava sul testo di tale ordinanza, e conteneva anche la prima rivelazione di Edward Snowden, ex membro dell’intelligence americana e il principale whistleblower della sua generazione. A quell’articolo ne seguirono molti altri, costruendo uno dei maggiori casi giornalistici dell’epoca.

Il caso Snowden fu la prima e dettagliatissima ricostruzione del funzionamento delle operazioni di sorveglianza nella nostra epoca, e come ne prendano parte anche governi considerati democratici. Il focus delle sue dichiarazioni riguardava principalmente gli Stati Uniti e i paesi alleati, dimostrando come la raccolta dei dati spesso entra in contrasto con i nostri diritti fondamentali.

Dieci anni sono un’eternità, ma siamo ancora lì

Se oggi si parla così tanto di privacy e di diritti digitali, se oggi c’è il GDPR e le multe a Meta lo si deve in buona parte ad Edward Snowden.

In termini di Internet, dieci anni sono un’eternità. Ma i documenti divulgati da Snowden nel 2013 sono ancora estremamente attuali visto che offrono uno spaccato del periodo storico che ha visto la nascita dei big data e che oggi sono alla base delle intelligenze artificiali come ChatGPT.

Oggi viviamo in un mondo che ci monitora sempre più: si pensi ai sistemi di riconoscimento facciale, destinati ad essere sempre più in voga nel futuro.

Ci siamo rassegnati alla sorveglianza di massa?

Oggi concediamo i dati su Internet forse con estrema leggerezza, rassegnandoci, in un certo senso, alla sorveglianza di massa. Per Solange Ghernaouti dell’Università di Losanna, «assistiamo a una banalizzazione della raccolta ed elaborazione dei dati, spesso invisibile agli utenti, che sta permettendo lo sviluppo di un’economia digitale ma anche di un’economia di sorveglianza, che è già una realtà».

«Parallelamente», continua, assistiamo ad una «deriva verso il rafforzamento della sicurezza, in cui vengono imposte sempre più tecniche basate sulla sorveglianza e gli spazi di libertà sono sempre di meno: tutti i luoghi pubblici sono dotati di sensori, telecamere di sorveglianza. Le persone non si sentono sotto sorveglianza, ma lo sono non appena usano lo smartphone o sono per strada. E non c’è chiarezza su cosa succeda a questi dati, da chi, dove e per quale scopo vengano conservati».

Snowden ha spiegato più volte che il suo unico desiderio era quello di informare le persone di quello che viene «fatto in loro nome e quello che è stato fatto contro di loro». La giustificazione ha convinto l’Europa, e per questo è stato riconosciuto come informatore e difensore internazionale dei diritti umani.

In Russia, ma non per scelta

Le conseguenze della sua scelta si sono riversate sulla sua vita privata. Ancora oggi, Snowden è ricercato dagli Stati Uniti con l’accusa di spionaggio, anche se gli stessi tribunali USA hanno stabilito che alcune pratiche denunciate da Snowden fossero illegali.

Nessun presidente degli USA ha deciso di far cadere i capi d’accusa mossi contro Snowden. Da dieci anni è costretto a restare in Russia, paese in cui si è sposato, ha avuto due figli e dove di recente ha ottenuto il passaporto.

Il whistleblower non si trova in Russia per una scelta personale, ma perché si è visto revocare i documenti mentre si trovava in scalo a Mosca, durante un viaggio verso l’Ecuador, paese che gli aveva concesso asilo politico.

Se c’è, è perché qualcosa non funziona

Snowden è riuscito a rompere quel velo d’ipocrisia che ruota attorno ad Internet, riflettendo anche sullo stato di salute della democrazia, e di come internet possa essere utilizzato per scopi in contrasto con essa.

«Snowden è una persona a cui dobbiamo un dibattito fondamentale sui diritti online e sullo stato di salute della democrazia», spiega Philip Di Salvo, professore dell’Università di San Gallo, specializzato in whistleblowing e nella sorveglianza internet.

Continua Di Salvo: «Un dibattito che va avanti da dieci anni ed è tutt’altro che puramente tecnico: riguarda cosa è lecito che le democrazie facciano e cosa può essere fatto di internet per trasformarlo in uno strumento di controllo e di dominio».

Si oscilla sempre «fra la sicurezza e la libertà dei cittadini, ma le due questioni non devono essere poste in modo che le democrazie funzionino con un livello di trasparenza sufficiente perché il whistleblowing sia necessario. Se c’è, è il sintomo che qualcosa non funziona».


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Su TikTok i giovani prendono in giro i profili Facebook dei genitori

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Su TikTok i giovani prendono in giro i profili Facebook dei genitori

È arrivato il momento in cui i figli scoprono gli account Facebook dei propri genitori. Su TikTok, infatti, è scoppiato il trend in cui i giovani visitano gli account dei loro genitori, ritrovandosi spesso protagonisti di quei profili, visto che trovano le loro foto da neonati.

In generale, possiamo dire che i giovani passano in rassegna i profili Facebook dei genitori prendendoli in giro. #oldfacebook è un hashtag ormai virale, che riapre il dibattito sulla presenza online dei bambini e dei neonati, visto che oggi i nativi digitali cominciano ad essere abbastanza grandi da comprendere l’importanza della questione.

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Facebook è stato creato da Mark Zuckerberg nel 2004 ed è stato reso disponibile nella versione italiana nel 2008. Sono passati quasi 20 anni dalla sua creazione, dunque, non bisogna stupirsi se i primi utenti del social ora sono diventati genitori.

Prima di Facebook c’era MySpace, dove i giovani postavano i loro pensieri e le loro foto preferite. Oggi, i giovanissimi stanno scoprendo il passato online dei loro genitori. Su TikTok, alcuni giovani creano video intitolati Guardami crescere attraverso Facebook di mamma/papà, che contengono le foto pubblicate sui social dai loro genitori.

Da un lato, questa potrebbe essere una bella opportunità per loro per conoscere meglio gli hobby, gli interessi e la vita professionale dei genitori. Sfogliando vecchie foto e vecchi post, potrebbero conoscere un po’ meglio la storia delle loro famiglie, e questo contribuisce a rafforzare il legame tra i figli e i genitori.

L’altra faccia della medaglia è il venire a galla di situazioni scomode o imbarazzanti. I genitori, infatti, potrebbero aver pubblicato commenti o foto che i figli ritengono inappropriati o superati.

In alcuni casi, i figli potrebbero non sentirsi rispettati, oppure vergognarsi dei genitori, compromettendo i rapporti familiari.

Kate Lindsay, una giornalista americana, ha analizzato questo trend, scoprendo che i giovani hanno maggior comprensione e consapevolezza della vita online delle persone, anche di quella dei loro genitori.

Ma trovare vecchie foto di sé stessi online, per gli adolescenti, potrebbe diventare sconvolgente. Alcuni, infatti, potrebbero non capire perché determinate loro foto sono online, oppure capire chi le ha pubblicate, facendoli sentire vulnerabili in quanto incapaci di controllare la diffusione di queste foto.

I giovani potrebbero sperimentare stati d’ansia, mettendo in discussione la gestione della loro impronta digitale. In alcuni casi specifici, le foto online che ritrovano i ragazzi potrebbero portare a bullismo, stalking o molestie. Malintenzionati e predatori online potrebbero sfruttare quel materiale per vittimizzarli o per ricattarli.

Per tutti questi motivi, i genitori dovrebbero porre maggior attenzione a quanto pubblicato online: le foto dei loro bambini, soprattutto quelle che possono essere ritenute imbarazzanti, non dovrebbero essere pubblicate nei social. Una volta che qualcosa è su internet, resta lì per sempre.


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Antiquata e lenta, l’industria legale è la candidata principale per l’irruzione della tecnologia. Visti i recenti sviluppi dell’IA generativa, si attende un terremoto nel mondo legale, conservando comunque una bella dose di ottimismo.

I recenti progressi registrati per quanto riguarda lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale sono stati osservati con sempre maggior preoccupazione, soprattutto da parte di chi si sforza di prevedere quali saranno gli impatti che tali soluzioni comporteranno nel mondo del lavoro.

Basti pensare a ChatGPT di OpenAI, che ha suscitato un sacco di reazioni, soprattutto molta apprensione per alcuni ambiti professionali. Sono tutte ansie perfettamente comprensibili. Tuttavia, è anche vero che gran parte delle preoccupazioni sollevate sin ad ora si fondano sulla paura dell’ignoto e del futuro.

Secondo un recente rapporto pubblicato da Goldman Sachs, società leader nell’investment banking, si prevede che i progressi in ambito di intelligenza artificiale possano causare l’automazione di circa 300 milioni di posti di lavoro.

Un buon candidato, ma non un ottimo avvocato

Nel settore giudiziario, caratterizzato da deficit strutturali ancestrali e dalla necessità di gestire grandi risme di documenti complessi, una tecnologia che comprende e riassume in maniera rapida i testi potrebbe rivelarsi decisamente utile.

Ebbene, i recenti progressi nel campo dell’intelligenza artificiale sembrano confermare quanto questa tecnologia sia fatta su misura per il mondo legale. L’ultima versione di ChatGPT ha infatti superato il test standard americano per l’abilitazione professionale, l’Universal Bar Exam.

Nonostante ciò, non vuol dire che l’intelligenza artificiale sia pronta per prendere il posto dell’avvocato.

Il modello è stato addestrato su migliaia di test pratici, e per questo è un candidato impressionante, ma non un ottimo avvocato. Inoltre, non ci sono dati trasparenti per quanto riguarda l’addestramento di ChatGPT, visto che OpenAI non ha mai rilasciato grandi informazioni in merito.

Addio alle attività ripetitive

Il sistema, dunque, non è ancora pronto per poter sostituire un avvocato, anche se è decisamente bravo nell’analisi dei testi.

Per Daniel Katz, professore di diritto che ha condotto l’esame di ChatGPT, «la lingua è la moneta nel regno dell’industria legale e nel campo del diritto. Ogni strada porta a un documento, che va letto, prodotto o in qualche modo consumato».

Si tratta di una considerazione vera, senza dubbio, visto che la professione forense è caratterizzata da tantissime attività ripetitive, e operazioni come la ricerca delle leggi, l’estrazione di prove pertinenti e lo studio di casi applicabili potrebbero essere operazioni automatizzate in maniera efficace.

Meno tirocinanti, più programmatori

Ma non siamo nel campo delle novità assolute: l’intelligenza artificiale, infatti, è già stata utilizzata per prevedere gli esiti di una procedura giudiziaria e per rivedere i contratti. Alcuni ricercatori, inoltre, hanno deciso di esplorare i sistemi che potrebbero rendere l’AI uno strumento capace di affiancare gli esperti nell’iter di approvazione di una legge.

Sembra comunque che sarà sempre più difficile specializzarsi, visto che il tipico lavoro svolto dal praticante lo faranno le macchine. Il valore di passare ore sui libri, probabilmente, andrà perduto. È un cammino già scritto: ci saranno meno tirocinanti, ma più programmatori che allenano i sistemi di machine learning.

Un piccolo sociopatico

Comunque, i limiti dell’IA sono ancora evidenti. ChatGPT produce delle argomentazioni molto convincenti, ma non sempre corrette. Il ricercatore Pablo Arrodondo racconta di come GPT l’abbia fatto dubitare di un caso su cui aveva lavorato.

«Ti sbagli», gli ha detto, «ho discusso io questo caso, so di cosa parliamo». ChatGPT gli risponde: «Puoi sederti lì e vantarti dei casi su cui hai lavorato, Pablo, ma ho ragione io ed eccoti la prova». Ma la prova fornita è un URL che portava ad una pagina inesistente.

«E’ un piccolo sociopatico», conclude Arrodondo.


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Vietare i social ai minori di 13 anni: se ne riparla dopo il caso Chiara Ferragni

In Francia, per potersi iscrivere ad un social network, d’ora in poi bisognerà avere 15 anni. Si tratta di una proposta di legge approvata praticamente all’unanimità dall’Assemblea Nazionale in prima lettura, con 82 voti contro 2.

L’idea sarebbe quella di ricalcare il modello parigino, fissando dei paletti anche in Italia. Il piano è stato annunciato da Carlo Calenda, leader di Azione. L’obiettivo sarebbe l’introduzione di un divieto di iscrizione per le persone che hanno meno di 13 anni, consentendo a coloro che non hanno ancora raggiunto i 15 anni d’età di utilizzare un account social soltanto tramite il consenso dato dai genitori.

I social, in questo modo, saranno tenuti a verificare minuziosamente l’età degli utenti per consentire la registrazione dei minori.

Il caso Ferragni

Se ne ritorna a parlare dopo l’accesa discussione degli ultimi giorni, che ha visto come protagoniste la famosa imprenditrice digitale Chiara Ferragni e una ragazzina di 11 anni, che ha commentato una foto condivisa su Instagram da Ferragni, che la ritraeva seminuda davanti ad uno specchio.

L’undicenne ha commentato: «A parte che in questa foto non fai vedere vestiti o costumi da bagno, ma praticamente te stessa nuda. Qual è il messaggio per noi ragazzine? Che per farci notare dobbiamo metterci nude? Io non lo trovo un bel messaggio da mandare».

La risposta di Ferragni non è tardata: «Il messaggio per tutte, ragazzine e non, da parte mia è molto semplice: nessuno ci può giudicare o farci sentire sbagliate. Pubblicare una foto così non dovrebbe far vergognare nessuno e anzi dimostrare che ognuno è libero di essere se stesso e celebrarsi quando si sente di farlo».

In molti hanno preso le difese della ragazzina, criticando la scelta di Ferragni. Racconta la madre dell’undicenne a Repubblica: «Ho dovuto disattivare le notifiche ai suoi post per evitare che leggesse commenti poco piacevoli».

Il profilo della ragazzina è stato cancellato, e per alcuni sarebbe vittima di censura online, visto che, sempre secondo alcuni, il commento non sarebbe stato particolarmente gradito da Ferragni. La tesi è sostenuta anche dalla madre, che dichiara ai microfoni del Corriere della Sera: «Io non posso accettare che mia figlia, per aver espresso un’opinione, peraltro condivisa da tante persone, sia stata messa a tacere, bannata, eliminata».

Tuttavia, le regole di Instagram sono chiare: non ci si può iscrivere al social se si ha meno di 13 anni.

Utilizzare i social in maniera consapevole

Secondo la nuova legge, saranno previsti controlli e sanzioni nei casi di inadempienza per le piattaforme che non andranno a verificare correttamente se i dati anagrafici sono esatti. Spiega l’ex ministro dello Sviluppo economico durante la trasmissione di Rai 3 Mezz’Ora in più: «Ci dovrà essere anche un riconoscimento dell’identità».

Attualmente, la proposta di legge si trova in fase di costruzione. Secondo alcune fonti parlamentari di Azione, il progetto mira ad un utilizzo più consapevole dei social: «E’ una questione di responsabilità. I minori non sentono più la necessità di incontrarsi, ma soprattutto rischiano di essere assuefatti dagli smartphone. Non si può lasciare il compito di educarli solo alla scuola e alle famiglie, occorre una regolamentazione».

Il tema è molto sentito anche dai genitori. Durante il Safer Internet Day, evento promosso dalla Commissione Europea per un utilizzo migliore e consapevole di Internet, Telefono Azzurro ha presentato un progetto alla Camera, per poter innalzare l’età minima per utilizzare i social da 14 a 16 anni: «il primo scopo è quello di preservare la salute mentale dei minori, evitando un’esposizione ai social network in età troppo giovane».

Calenda sta cercando di replicare il modello francese con gli esperti del settore, per «ridurre i fenomeni di cyberbullismo». In Francia, la soglia era già stata inserita nel 2018, anche se non è stata realmente applicata e non c’è stato alcun impatto: sui social è stato accertato che la prima registrazione avviene circa a 8 anni e mezzo, e la fascia d’età più presente nei social è quella 10-14.

In Italia ci sono tantissimi giovani tra gli 11 e i 12 anni ad avere un profilo TikTok, Snapchat o Instagram. Circa 4 ragazzi su 10 dichiarano inoltre di avere un profilo pubblico, ovvero aperto e accessibile a tutti.

Le associazioni dei genitori contro gli smartphone

Ma non solo Francia o Italia discutono circa l’utilizzo dei social da parte dei minori: anche in altri Paesi il dibattito sull’utilizzo degli smartphone da parte dei più giovani prende sempre più piede. Nella città irlandese di Greystones, per esempio, i genitori hanno fatto in modo che i figli non possano avere uno smartphone almeno fino alla scuola secondaria.

Nelle otto scuole elementari presenti nella zona, le associazioni dei genitori hanno deciso di evitare che i figli, non ancora adolescenti, utilizzino uno smartphone. Riferisce una mamma al Guardian: «Se lo facciamo tutti insieme non ti senti come se fossi strano. Più a lungo riusciremo a preservare la loro innocenza, meglio sarà».

Alla base della scelta di questi genitori, molto probabilmente c’è la preoccupazione che gli smartphone alimentino l’ansia dei bambini, esponendoli a materiale per persone adulte. Infatti, per Rachel Harper, preside della scuola di San Patrizio a capo dell’iniziativa, «l’infanzia sta diventando sempre più breve».

Probabilmente, la molla è scattata nel momento in cui bambini di nove anni hanno cominciato a chiedere ai genitori di avere uno smartphone. L’unica soluzione alle quale sono giunti, in questo caso, è stato un patto collettivo, che diventa anche un esperimento sociale molto interessante.


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Verso anche una valutazione più stringente dell’esito dei corsi di recupero destinati ai sex offenders, finalizzati alla sospensione condizionale della pena ma anche dell’eventuale diritto di restare in Italia se i responsabili della violenza di genere sono persone straniere.

“Un tagliando alla normativa attuale”

Sta arrivando la revisione delle norme per poter fronteggiare la violenza contro le donne: l’approfondimento era già cominciato a febbraio, dapprima con la convocazione dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne da parte del Dipartimento Pari Opportunità, al quale hanno partecipato le associazioni, e successivamente un tavolo interministeriale avvenuto tra Eugenia Roccella, ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità, Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno e il Guardasigilli Carlo Nordio.

La ministra Roccella definisce l’operazione come un tagliando alla normativa attuale, che nel prossimo consiglio dei ministri si concretizzerà, visti gli ultimi casi eclatanti di femminicidi. Nel pacchetto si prevede di rafforzare le tutele per le vittime di violenza domestica e di genere per quanto riguarda l’accesso ai percorsi di giustizia riparativa e per la formazione degli operatori, come le forze dell’ordine, che devono relazionarsi con le vittime.

Un aspetto importante è la reale attuazione della legge 53/2022 relativa alla raccolta dati che permette il monitoraggio dei reati spia. Tra i vari obiettivi delle misure relative all’esame del Governo troviamo anche la velocizzazione dei processi di tali reati. La nuova normativa sulla violenza contro le donne, dunque, punta tutto su tre punti base, ovvero: prevenzione, sicurezza e giustizia.

Bisogna velocizzare i tempi

Nel frattempo, le associazioni chiedono a gran voce alla politica di fare presto: Differenza Donna, per esempio, gestore del 1522, il numero nazionale antistalking e antiviolenza, ha rivolto un appello al premier Meloni e alla ministra Roccella, poiché il piano nazionale antiviolenza è ormai «fermo da troppo tempo».

Differenza Donna chiede anche dei fondi straordinari in supporto alla rete dei centri antiviolenza per aprire delle nuove case rifugio, visto che il fenomeno sembra aumentare sempre più. Telefono Rosa dice che l’esigenza più immediata è quella della realizzazione di una gran campagna informativa che, come puntualizza la presidente Maria Gabriella Cernieri Moscatelli, «deve essere fatta a tappeto su tv e giornali, per far acquisire alle stesse donne la consapevolezza di che cosa sia la violenza di genere, per capire da subito i primi segnali e non sottovalutarli».

Assolutamente fondamentali, per Telefono Rosa, corsi di formazione per operatori che procedano ad educare i giovani nelle scuole: soltanto così si riesce ad intervenire sul cambio culturale che tutti richiedono.

Qualche dato

Dall’inizio del 2023 ci sono già state 23 donne che, dopo aver deciso di porre fine alla loro relazione violenta, sono state uccise dal loro partner. Si pensi anche al recente caso di Giulia Tramontano, una giovanissima donna incinta uccisa dal fidanzato.

Nel 2022 sono avvenuti 319 omicidi. 120 di questi casi, erano femminicidi. Nonostante il numero degli omicidi volontari sia diminuito dagli anni ’90 ad oggi, il numero di donne uccise sembra aumentare.

L’Italia presenta il secondo dato più basso in tutta Europa per quanto riguarda l’incidenza degli omicidi, 0,48 ogni 100mila abitanti, contro una media europea di 0,89, ma anche per quanto riguarda i femminicidi la media è inferiore rispetto a quella europea, ovvero 0,38 contro 0.66.

In ogni caso, i dati non sono rassicuranti. Nel 2020, in Italia, l’85,3% degli omicidi di donne sono stati commessi da familiari oppure da partner ed ex partner, mentre nel 2012 la quota era del 74%.

Nel 2022, ci sono state 33.000 ricerche su Google con le parole “uomo violento”, che comprendevano anche “uomo violento cosa fare”, “come allontanare un uomo violento” e “come comportarsi con un uomo violento”.

Riportiamo di seguito il numero di ricerche effettuate relative a situazioni coniugali e relazionali, come:

  • 3.840 ricerche per “mio marito quando beve diventa cattivo”;
  • 2.520 ricerche per “mio marito ha scatti d’ira”;
  • 2.040 ricerche per “mio marito mi picchia”;
  • 7.080 ricerche per “è normale che il mio ragazzo mi picchi”.

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Efficienza e ambizione: questi gli elementi che caratterizzano il nuovo strumento di assistenza legale, GiuriMatrix, completamente basato sull’intelligenza artificiale. GiuriMatrix è uno strumento ambizioso, visto che vuole essere utile per qualsiasi operatore del mondo del diritto, e non soltanto per gli avvocati.

Inoltre, GiuriMatrix vuole essere uno strumento di supporto innovativo per tutti i professionisti del diritto che hanno intenzione di svolgere il proprio lavoro in maniera efficiente e precisa. Il software alla base è dotato di una tecnologia avanzata, che permette ai professionisti del settore di migliorare la qualità del lavoro svolto, risparmiando tempo prezioso e aumentando la produttività.

A fondare GiuriMatrix ci hanno pensato l’avvocato Luigi Viola, esperto di giustizia predittiva e di intelligenza artificiale, gli ingegneri Francesco Cozza e Pierluigi Casale e il professor Michele Filippelli.

Il metodo di lavoro utilizzato dall’assistente legale di IA prevede che le risposte vengano individuate nella legge, citando la fonte, mentre giurisprudenza e dottrina vengono utilizzate in quanto mezzi per poter trovare la risposta corretta.

«GiuriMatrix non si vuole sostituire in alcun modo al giurista, ma potenziarlo. Non a caso sulle questioni più articolate suggerisce di consultare sempre un avvocato. Il software è totalmente gratuito e capace di rispondere a domande di diritto civile poste con linguaggio naturale: è il primo caso in Italia, tra i primi al mondo», spiega Viola.

In una prova eseguita con GiuriMatrix è stato chiesto al chatbot: «E’ ammissibile la donazione di cosa altrui?». Dopo una ventina di secondi GiuriMatrix ha risposto: «No, non è ammissibile la donazione di una cosa altrui. La donazione può essere fatta solo dal legittimo proprietario della cosa. La donazione di una cosa altrui è nulla e non produce alcun effetto giuridico (Codice Civile, articolo 769)».

Continua Viola: «GiuriMatrix cita sempre la fonte della sua risposta, al fine di restare controllabile confutabile, come si ritiene siano le questioni di diritto».

Sono diversi gli elementi che caratterizzano il software: «Sono presenti dottrina e giurisprudenza, ma al solo fine di agevolare l’individuazione della disposizione codicistica. Ciò in ragione del profondo convincimento che la risposta ad una questione giuridica può venire dalla sola legge, che è vincolante per tutti, e non già dalla giurisprudenza, che al più è arginata dai limiti del giudicato o dalla dottrina che ha funzione orientativa-evolutiva».

GiuriMatrix non è un servizio offerto da Servicematica. Per avere maggiori informazioni in merito, potete cliccare qui sopra per accedere al sito di GiuriMatrix.


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