La Corte UE equipara il Giudice di Pace alla magistratura professionale

La Corte UE equipara il Giudice di Pace alla magistratura professionale

Il 16 luglio 2020 la Corte di Giustizia Europea ha stabilito che la figura del Giudice di Pace è del tutto equiparabile, dal punto di vista giuridico ed economico, alla magistratura professionale.

La pronuncia è la conseguenza di una controversia (causa C‑658/18) tra il giudice di pace Cristina Piazza e il governo della Repubblica Italiana, al quale aveva chiesto la retribuzione del proprio riposo durante il mese d’agosto secondo gli stessi canoni applicati ai magistrati.

LE RICHIESTE DEL GIUDICE DI PACE

Il Giudice di Pace aveva dunque chiesto alla Corte Europea se, nonostante il carattere onorario della sua professione, la sua figura potesse essere considerata un lavoratore a tutti gli effetti.

In particolare, desiderava sapere:

  • – se la sua figura potesse rientrare nella nozione di giudice comune europeo;
  • – in caso affermativo, se la sua attività lavorativa potesse essere considerata lavoro a tempo determinato;
  • – in caso di ulteriore risposta affermativa, se il suo lavoro fosse soggetto alle stesse regole di quello dei magistrati ordinari o professionali a tempo indeterminato.

I riferimenti normativi a cui si rifaceva il Giudice Piazza sono:
– gli articoli 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88,
– la clausola 2 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
– l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
– l’interpretazione della Corte nelle sentenze O’Brien e King.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

La Corte Europea ha stabilito che:

  • – «un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore”»;

  • – «la nozione di lavoratore a tempo determinato, contenuta in tale disposizione [clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato], può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»;

  • – la clausola 4, punto 1, dell’accordo «va interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell’ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di “lavoratore a tempo determinato”, ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario».

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La Corte di Giustizia Europea ha rigettato il Privacy Shield, l’accordo sottoscritto nel 2016 con gli Stati Uniti che regolamenta il trasferimento di dati personali di cittadini europei verso server americani.
La Corte ritiene che lʼaccordo non fornisca ai cittadini europei garanzie sufficienti contro le leggi e la sorveglianza USA.

COS’È IL PRIVACY SHIELD

Come spiega il Garante della Privacy:
“Il Privacy Shield, ovvero lo “scudo per la privacy” fra UE e USA, è un meccanismo di autocertificazione per le società stabilite negli USA che intendano ricevere dati personali dall’Unione europea. In particolare, le società si impegnano a rispettare i principi in esso contenuti e a fornire agli interessati (i.e. ovvero tutti i soggetti i cui dati personali siano stati trasferiti dall’Unione europea) adeguati strumenti di tutela, pena l’eliminazione dalla lista delle società certificate (“Privacy Shield List”) da parte del Dipartimento del Commercio statunitense e possibili sanzioni da parte della Federal Trade Commission (Commissione federale per il commercio).
[…] Il Privacy Shield è applicabile a tutte le categorie di dati personali trasferiti dall’UE agli USA, compresi informazioni commerciali, dati sanitari o relativi alle risorse umane, purché la società USA destinataria di tali dati abbia autocertificato la propria adesione allo schema.”

I RISCHI PER LA PRIVACY E LA GENESI DEL PRIVACY SHIELD

Quando i nostri dati vengono trasferiti su server americani, essi ricadono sotto la normativa statunitense che, in materia di privacy, è diversa rispetto a quella europea (GDPR in primis).

In sostanza, le nostre informazioni non sono sempre al sicuro e possono essere trattate dalle autorità statunitensi senza che noi ne siamo consapevoli. Tutto ciò è contrario a quanto stabilito dal GDPR.

Questo rischio è diventato chiaro nel 2013, quando Edward Snowden ha denunciato un sistema di sorveglianza mondiale gestito dalle agenzie governative americane e perseguito tramite accordi con i colori tecnologici come Google e Facebook.

Il Privacy Shield, nato nel 2016 in sostituzione di un precedente accordo non particolarmente efficace, avrebbe dovuto tutelare maggiormente i cittadini europei, limitando l’accesso delle forze dell’ordine e delle agenzie governative statunitensi.

Sembrava funzionare, finché alla Corte europea non è giunta la segnalazione di un cittadino austriaco che aveva scoperto che i suoi dati personali erano stati trasferiti da da Facebook Ireland, con sede in Europa e soggetta alle leggi comunitarie sulla privacy, a Facebook In, con sede negli Stati Uniti e quindi svincolata da tali leggi.

LE CONSEGUENZE DELL’ANNULLAMENTO DEL PRIVACY SHIELD

Se le associazioni dei consumatori europei hanno accolto con entusiasmo la sentenza, non si può dire lo stesso delle autorità americane. L’impatto della sentenza potrebbe essere rilevante: il segretario al Commercio, Wilbur Ross, stima che le conseguenze negative per le relazioni economiche tra i due contenuti possano ammontare a circa 7,1 trilioni di dollari.

La decisione dei giudici potrebbe infatti costringere le multinazionali americane, ma anche le realtà più piccole, a rivedere le proprie strategie e ad affrontare i costi della creazione di sedi per la raccolta dei dati in Europa, così da garantire il rispetto del GDPR.

Il problema è vero soprattutto per i grandi colossi il cui business si basa in gran parte sulla raccolta e il trasferimento dei dati, come Google o Facebook.

Ma la sentenza della Corte Europea non elimina del tutto gli scambi e la condivisione di dati. Semplicemente, impone maggiori controlli. Come si legge nella sentenza: «ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) il trasferimento dei suddetti dati verso un Paese terzo può avvenire, in linea di principio, solo se il Paese terzo considerato garantisce a tali dati un adeguato livello di protezione».

Linkiamo il testo della sentenza della Corte Europea.

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Firma autografa elettronica: nessun test per verificarne la validità come prova in giudizio

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Riprendiamo un interessante articolo di Giovanni Manca (ANORC) a proposito del valore della FEA, la firma autografa elettronica, come prova in sede di giudizio.

TANTE FIRME TUTTE DIVERSE

La perizia grafologica è lo strumento utile a stabilire se una firma è autentica o meno, ma anche alcuni elementi della condizione personale del firmatario.

A differenza di ciò che si potrebbe pensare, esistono diverse tipologie di firme.

Esiste la firma autografa, quella che eseguiamo a mano, con penna e carta.
Esiste la firma digitale che, detta in modo semplicistico, è una stringa di caratteri che conferisce a un documento informatico autenticità, integrità e non ripudio.
Ed esiste poi la firma grafometrica, ovvero la firma eseguita con una sorta di penna elettronica su un supporto digitale. È detta anche firma autografa elettronica (FEA).

La firma autografa elettronica assomiglia alla firma autografa tradizionale, poiché è generata da un gesto manuale molto simile, ma i mezzi e i supporti utilizzati sono completamente diversi e presentano questioni di non così immediata soluzione: la perizia grafologica tradizionale non è applicabile e l’acquisizione e al trattamento dei dati personali diventa rilevante.

L’ASSENZA DI UN TEST PER STABILIRE SE LA FIRMA AUTOGRAFA ELETTRONICA SIA UNA PROVA

Come spiega Manca, non esiste un test che permetta di stabilire se una firma grafometrica possa essere una prova da portare in giudizio. Solo «l’intervento di un perito grafologo che abbia acquisito una formazione specifica relativa all’analisi qualitativa e quantitativa dei dati, alla conoscenza dello strumento tecnologico, nonché alla normativa di riferimento per la verifica della FEA grafometrica» potrebbe risolvere la questione.

LA MODALITÀ DI VERIFICA DI UNA FIRMA GRAFOMETRICA

La firma autografa elettronica è una firma acquisita digitalmente, pertanto contiene ed è essa stessa un insieme di dati informatici che possono essere letti solo dal dispositivo con il quale è stata acquisita.
Poiché ogni produttore ha i propri protocolli, l’analisi della firma diventa complicata. Bisognerebbe, infatti, essere in possesso di una moltitudine di dispositivi (e delle relative conoscenze tecniche) per operare in maniera precisa.

L’insieme di dati digitali contenuti in una firma grafometrica devono dunque essere estratti e convertiti in formato ISO/IEC 19794-7 (2014), lo standard di riferimento.

Questo standard indica i parametri da considerare nell’analisi della firma, tra cui le coordinate X e Y del tratto o il tempo di acquisizione della coordinata.
Vi sono altri elementi che potrebbero rivelarsi utili e che non rientrano nello standard. Per esempio, i parametri di acquisizione del dispositivo usato offrono informazioni sulla pressione esercitata al momento della firma.

Molti dei dati estrapolati dalla firma grafometrica sono poi informazioni biometriche realtive firmatario. Per questo motivo, l’analisi deve essere svolta rispettando quanto stabilito dal Garante in materia di protezione dei dati personali (n. 513/2014) e sulla loro disponibilità solo su richiesta dell’Autorità Giudiziaria.

A complicare le cose vi è anche il fatto che la firma autografa elettronica può essere eseguita con una penna digitale ma anche con un dito e questo comporta delle peculiarità che influenzano l’analisi.

In aiuto è venuta AGI (Associazione Grafologica Italiana) che ha pubblicato un documento intitolato “Le buone prassi per l’analisi forense della scrittura” per offrire dei riferimenti per la perizia di una firma grafometrica.

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Il Garante della Privacy si è nuovamente espresso sulle fatture elettroniche, o meglio, sulle regole per l’emissione e la ricezione indicate dall Agenzia delle Entrate  (“Regole tecniche per l’emissione e la ricezione delle fatture elettroniche per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti e stabiliti nel territorio dello Stato e per le relative variazioni, utilizzando il Sistema di Interscambio, nonché per la trasmissione telematica dei dati delle operazioni di cessione di beni e prestazioni di servizi transfrontaliere e per l’attuazione delle ulteriori disposizioni di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127”).

Il provvedimento del Garante del 9 luglio 2020 si focalizza sulla durata del periodo di conservazione da parte dell’Agenzia delle Entrate delle informazioni contenute nelle fatture elettroniche.

Il periodo, stabilito per permettere all’Agenzia di effettuare controlli, è di 8 anni. Una durata che il Garante ritiene eccessiva.

È il Garante stesso a spiegarne i motivi:

“Lo schema in esame prevede, senza effettuare alcuna distinzione tra tipologie di dati o categorie di interessati, la memorizzazione e l’utilizzo dei file delle fatture elettroniche che contengono i dati inerenti la natura, qualità e quantità dei beni e servizi oggetto dell’operazione di cui all’art. 21, comma 2, lett. g), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, estendendo così tanto l’oggetto della memorizzazione, quanto l’ambito di utilizzazione dei dati presenti nella fattura elettronica.
Non vengono escluse neppure alcune tipologie di dati (quali quelli non rilevanti a fini fiscali o quelli inerenti la descrizione delle prestazioni fornite, suscettibili di comprendere anche dati appartenenti a categorie particolari o l’eventuale sottoposizione dell’interessato a procedimenti penali, come per le fatture relative a prestazioni in ambito forense (cfr. artt. 9 e 10 del Regolamento), né i codici fiscali dei consumatori (quantomeno per fatture relative a spese non detraibili).”

Considerando che vengono emesse circa 2 miliardi di fatture all’anno, la mole di dati memorizzata è davvero impressionante.

La conclusione del Garante è quindi che “la previsione della memorizzazione e dell’utilizzazione, senza distinzione alcuna, dell’insieme dei  dati personali contenuti nei file delle fatture elettroniche, anche laddove si assicurino elevati livelli di sicurezza e accessi selettivi, risulta sproporzionata in uno stato democratico, per quantità e qualità delle informazioni oggetto di trattamento, rispetto al perseguimento del legittimo obiettivo di interesse pubblico di contrasto all’evasione fiscale perseguito.”

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Nel Decreto Semplificazioni è stato inserito un articolo in cui si parla della posta elettronica certificata e di come i professionisti che non comunicano all’albo il proprio indirizzo pec rischino la sospensione.

In realtà, più che di indirizzo pec si parla di domicilio digitale, ovvero un indirizzo elettronico presente nell’anagrafe della popolazione residente.

Il decreto prevede l’estensione del domicilio digitale anche ai professionisti non iscritti ad albi e anche ai cittadini.

L’obiettivo è infatti di spingere la digitalizzazione del sistema e l’utilizzo della posta elettronica certificata dovrebbe migliorare i rapporti tra pubblica amministrazione e le imprese, i professionisti o i cittadini.

L’obbligo per i professionisti iscritti all’albo di comunicare la propria pec non è una novità, bensì era già inserito all’interno del CAD, il Codice dell’Amministrazione Digitale, ma non è mai stato rispettato.

OBBLIGO DI COMUNICARE LA PEC, PENA LA SOSPENSIONE

Dunque, ogni professionista deve comunicare il proprio indirizzo pec all’ordine di appartenenza. Se l’obbligo non viene rispettato, si rischia la sospensione.

L’articolo del Decreto Semplificazioni va a modificare l’ art. 16 del dl n. 185/2008, comma 7 bis: «I professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello  Stato  comunicano  ai  rispettivi  ordini o collegi il proprio indirizzo  di posta elettronica certificata ((o analogo indirizzo di posta  elettronica  di  cui al comma 6)) entro un anno dalla data di entrata  in  vigore  ((del presente decreto. Gli ordini e i collegi pubblicano  in  un  elenco  riservato, consultabile  in via telematica esclusivamente  dalle pubbliche amministrazioni, i dati identificativi degli  iscritti  con  il  relativo  indirizzo  di  posta  elettronica certificata))».

Viene aggiunto quindi che «Il professionista che non comunica il proprio domicilio digitale all’albo o elenco di cui al comma 7 è obbligatoriamente soggetto a diffida ad adempiere, entro trenta giorni, da parte del Collegio o Ordine di appartenenza.
In caso di mancata ottemperanza alla diffida, il Collegio o Ordine di appartenenza commina la sanzione della sospensione dal relativo albo o elenco fino alla comunicazione dello stesso domicilio.
L’omessa pubblicazione dell’elenco riservato previsto dal comma 7, il rifiuto reiterato di comunicare alle pubbliche amministrazioni i dati previsti dal medesimo comma, ovvero la reiterata inadempienza dell’obbligo di comunicare all’indice di cui all’articolo 6-bis del decreto-legislativo 7 marzo 2005, n. 82 l’elenco dei domicili digitali ed il loro aggiornamento a norma dell’articolo 6 del decreto del Ministro dello sviluppo economico 19 marzo 2013, costituiscono motivo di scioglimento e di commissariamento del collegio o dell’ordine inadempiente ad opera del Ministero vigilante sui medesimi». [fonte: Studio Cataldi]

SEMPRE PIÙ PEC

In attesa che il testo del Decreto Semplificazioni, approvato «salvo intese» il 7 luglio 2020 venga pubblicato in Gazzetta ufficiale, Agid ha rilasciato alcuni dati sull’uso della posta elettronica certificata in Italia.

Nell’ultimo anno, da gennaio 2019 a oggi, sono state attivate più di un milione di nuove caselle pec portando il totale a 11 milioni e 293 mila account.

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COVID-19 e il reato di epidemia omissiva

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Paolo Piras, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Sassari, ha pubblicato sul sito Sistema Penale un interessante articolo sulla possibile configurabilità dell’epidemia omissiva, di cui vi proponiamo i tratti salienti.

FOCOLAI COVID ED EPIDEMIA OMISSIVA

Il recente caso di un nuovo focolaio di COVID-19 in Veneto, causato dalla mancanza di rispetto delle regole di sicurezza sanitaria da parte di un soggetto positivo, non si sa bene se consapevolmente o meno, aprono un interrogativo serio: può esistere il reato di epidemia colposa omissiva?

Il reato di epidemia esiste già ed è descritto all’art.438 c.p.:

Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo.
Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte].

L’epidemia omissiva può essere in parte ritrovata nell’art.40 c.p., comma 2, sull’omesso impedimento dell’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire.

In tema di epidemia omissiva, un riferimento giurisprudenziale lo abbiamo con la sentenza n. 9133/18 della Cassazione, quarta sezione, che però non considera questa possibilità.
Facendo riferimento all’art. 438 c.p., la sentenza dice:
«La norma evoca, all’evidenza, una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con il disposto dell’art. 40, riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera».

Come Piras riassume, la decisione si basa su due presupposti e una conclusione logica:

  • – Presupposto 1:  l’art. 40 II co. c.p. non si applica ai reati a forma vincolata,
  • – Presupposto 2: l’epidemia è un reato a forma vincolata,
  • – Conclusione: l’art. 40 II co. c.p. è inapplicabile all’epidemia.

Ma è davvero così?

EPIDEMIA È REATO A FORMA VINCOLATA O LIBERA?

L’epidemia è un reato a forma vincolata o libera?
Esistono più modalità di commissione che possono essere punibili?

Partiamo da una constatazione: la diffusione di germi patogeni è l’essenza stessa di un’epidemia.
Senza tale diffusione, semplicemente non c’è epidemia. La diffusione è quindi l’unica modalità di commissione del reato.

Nell’art. 438 c.p. si parla dell’epidemia come un reato a forma vincolata: «si perfeziona solo se cagionata mediante la diffusione di germi patogeni». Non sono quindi punibili altre modalità (es.:  sostanze tossiche o radioattive).

Secondo Piras «l’epidemia non è un reato a forma vincolata, perché il legislatore non ha selezionato una modalità di commissione, ma ha solo preso atto dell’unica modalità di commissione. È un reato a forma naturalisticamente vincolata, non giuridicamente.»

ESISTE L’EPIDEMIA OMISSIVA?

Secondo Piras, sì.
La diffusione di germi patogeni indicata nell’art. 438 c.p. può avvenire anche in forma omissiva.

«L’omissione consiste nel non inserire il dovuto ostacolo alla diffusione» dell’epidemia.

Pertanto, la mancata osservanza delle regole sanitarie che possono limitare la propagazione dei contagi rientra nella fattispecie dell’epidemia omissiva colposa.

L’esempio riportato è quello di un ospedale il cui personale non isola un paziente COVID-19: omettendo di applicare le misure per limitare la diffusione, il personale facilita l’epidemia

Vi invitiamo ad approfondire l’argomento leggendo l’articolo originale.

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e se copia notificata dell’atto è priva della sottoscrizione del difensore?

E se la copia notificata dell’atto è priva della sottoscrizione del difensore?

Cosa succede se nella copia notificata dell’atto introduttivo manca della sottoscrizione da parte del difensore presente invece nell’originale? Questa difformità può inficiare un citazione o un ricorso?

L’ordinanza n. 10450/2020 della Corte di Cassazione, pubblicata il 3 giugno 2020, ci offre informazioni utili.

COPIA NOTIFICATA E MANCATA SOTTOSCRIZIONE

Una società vuole ottenere il pagamento di una ristrutturazione compiuta, ma il convenuto non è d’accordo. Tra le varie motivazioni, anche la mancanza, nella copia notificata, della firma del legale della società. 

Le istanze del convenuto vengono accolte e la società ricorre.
La Corte d’Appello dà ragione a questa, sostenendo che le eventuali mancanze della copia notificata vengono sanate dalla presenza di tutti gli elementi nell’originale e dalla costituzione del convenuto (art.164 c.p.c., terzo comma).

La questione però non termina e viene portata in Cassazione, con il convenuto che contesta anche la violazione dell’art. 163 c.p.c., nn. 2 e 6, art. 164 c.p.c., comma 1, e art. 167 c.p.c., comma 2.
Secondo la parte, sarebbe errata la decisione del giudice di non ritenere nulla la copia notificata nonostante i vizi presenti rispetto l’atto originale, poiché si porrebbe in contrasto con il principio generale secondo cui in caso di difformità è la copia notificata dell’atto a prevalere.

La Corte di Cassazione ritiene però che il ricorso sia infondato e ribadisce che la mancata sottoscrizione della copia notificata dell’atto introduttivo da padre del difensore non incide affatto sulla validità dello stesso se la firma del difensore compare nell’originale e se gli elementi presenti nella copia notificata permette alla controparte di dedurne la provenienza.

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La riforma del reato di abuso d’ufficio prende piede con l’approvazione, “salvo intese”, del Decreto Semplificazioni.

Verrebbe così modificato l’art. 323 del codice penale con la sostituzione dei termini “di norme di legge o di regolamento” in “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Il testo completo dell’articolo modificato sarebbe dunque il seguente:

Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.

L’obiettivo del reato di abuso di ufficio è tutelare il buon funzionamento, la trasparenza e l’imparzialità della pubblica amministrazione.

REATO DI ABUSO D’UFFICIO, COSA CAMBIA

La riforma del reato di abuso d’ufficio tende quindi a offrire un quadro d’azione più preciso.

Conte stesso ha spiegato che l’obiettivo della modifica è circoscrivere la portata del reato, non ridurlo, abbandonando l’idea che basti violare norme e principi generali per incapparvi e, al contrario, indicando con precisione specifiche regole di condotta che, se violate, farebbero scattare la fattispecie criminosa.

Uno degli effetti che ci si aspetta da questa maggiore precisione è il superamento delle titubanze che spesso colpiscono i funzionari pubblici al momento di firmare atti e procedimenti: la paura di eventuali responsabilità penali non considerate preventivamente mantiene la pubblica amministrazione, e quindi il paese, in stallo.

La definizione di quali siano le precise violazioni che faranno scattare il reato di abuso di ufficio sarà al centro dei dibattiti parlamentare dei prossimi giorni.
Ulteriori modifiche e ripensamenti non sono quindi da escludere.

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Il Decreto Rilancio va a emendare i contenuti dell’articolo 83 del Cura Italia. Potremmo dire che il primo segna la fine del secondo, proprio in senso temporale.

Se, infatti, inizialmente le misure straordinarie applicate alla Giustizia sarebbero dovute proseguire fino al 31 dicembre 2020, in concomitanza con ila fine dell’emergenza sanitaria decisa dal Governo, con il decreto Rilancio il termine viene anticipato al 31 ottobre.

La volontà è quella di non perdere quanto di buono c’è stato nell’attività giudiziaria sperimentate degli ultimi mesi e, allo stesso tempo, ascoltare le istanze di chi, primo fra tutti il CNF,  ha chiesto di non imporre tali misure agli avvocati ma di ripristinare anche le modalità tradizionali e lasciare a loro la libertà di scelta.

Dunque, fino al 31 ottobre avremo ancora il pagamento digitale del contributo unificato, le udienze da remoto e il deposito telematico degli atti e delle note.

Ecco alcuni dettagli.

Processo Civile

Su richiesta delle parti o del difensore, le udienze civili possono essere svolte da remoto. La parte deve però partecipare collegandosi dalla medesima postazione del difensore.

La domanda di partecipazione all’udienza da remoto deve essere depositata almeno 15 giorni prima della data in cui questa si terrà.

Il giudice comunica ora e modalità di collegamento almeno 5 giorni prima.

Il giudice può decidere di trattare da remoto le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice solo se le parti sono d’accordo.

Processo Penale

Le udienze da remoto sono permesse, ma sono permessi anche i colloqui da remoto tra detenuti e altri soggetti e si utilizzano le apparecchiature a disposizione dell’amministrazione penitenziaria.

È permesso il deposito telematico degli atti nella fase delle indagini preliminari. È da considerarsi perfezionato quando viene generata la ricevuta di accettazione da parte del sistema.

Smart working cancelleria

L’emendamento all’articolo 263 del Decreto Rilancio tocca anche un altro tema che ha movimentato l’opinione degli avvocati nelle ultime settimane, soprattutto davanti alle evidenti difficoltà che la Giustizia ha dimostrato nella fase di riapertura.

Si tratta dello smart working delle cancellerie.

Anche questo, come le udienze da remoto, non verrà affatto abbandonato. Anzi, la volontà generale del Governo è di far salire la quota di lavoratori in smart working non solo entro al fine dell’anno ma anche negli anni successivi.

Fino al 31 dicembre, gli uffici giudiziari hanno la possibilità di organizzare «il lavoro dei propri dipendenti e l’erogazione dei servizi attraverso la flessibilità dell’orario di lavoro, rivedendone l’articolazione giornaliera e settimanale, introducendo modalità di interlocuzione programmata, anche attraverso soluzioni digitali e non in presenza con l’utenza, applicando il lavoro agile (…) al 50 per cento del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte in tale modalità».

[Fonti: Il Dubbio, Iusletter]

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LA RIPARTENZA DELLA GIUSTIZIA E LA SOSPENSIONE DEGLI OBBLIGHI CONTRIBUTIVI

Siamo giunti alla Fase 3 della Giustizia ai tempi del COVID-19.

Nonostante la ripresa si stia dimostrando più difficoltosa del previsto a causa di ostacoli ambientali e conflitti tra categorie, è tempo per gli avvocati di pianificare nuovamente il pagamento delle spese previdenziali. 

Il CdA di Cassa Forense ha valutato la situazione e ha deciso che a tutti i contributi obbligatori la cui scadenza fosse stata prorogata al 30 settembre 2020 a causa del coronavirus si applicheranno nuovamente i termini originari con decorrenza dal 1 ottobre.

Nel caso in cui parte del periodo di decorrenza originario fosse già trascorso prima dell’adozione della sospensione, questo verrebbe annullato.

Per spiegare meglio il concetto, la news porta l’esempio della retrodatazione:

«l’iscritto ha sei mesi di tempo dal ricevimento della comunicazione d’iscrizione alla Cassa per optare se aderire o meno al predetto beneficio. Orbene, se il termine di scadenza di tale adempimento ricadeva nel periodo tra il 11.03.2020 al 30.09.2020, a prescindere dal tempo già decorso, l’iscritto ha di nuovo un termine di sei mesi, decorrenti dal 1 ottobre 2020, per poter esercitare la facoltà di retrodatazione (scadenza del nuovo termine 31.03.2021)».

ALTRE SCADENZE

Cassa Forense fa sapere che:

  • gli obblighi contributivi i cui termini non fossero ricaduti nel periodo di sospensione  (dal 1 ottobre in poi) non subiscono alcuna modifica;
  • – la quarta dei contributi minimi dell’anno 2020 con scadenza al 30 settembre rientra nel periodo di sospensione e potrà essere pagata entro il 31 dicembre, senza interessi e/o sanzioni;
  • – il termine per i contributi in autoliquidazione  (I e II rata) connessi al mod. 5/2020 (riferimento redditi 2019) rimangono al  31 dicembre 2020.

A proposito della riscossione dei contributi obbligatori, il CdA di Cassa ha assicurato che gli iscritti riceveranno «comunicazioni personalizzate, idonee a fugare i dubbi e i fraintendimenti che comunicazioni c.d. “massive” possono sempre ingenerare». Ognuno saprà quindi cosa dovrà fare.

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