Opposizione a decreto ingiuntivo: l’onere della proposta di mediazione ricade sull’opposto

Opposizione a decreto ingiuntivo: l’onere della proposta di mediazione ricade sull’opposto

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che in caso di giudizio promossi con opposizione a decreto ingiuntivo l’onere della proposta di mediazione ricade sull’opposto e non sull’opponente.

Nella sentenza 19596/20 si legge:

«Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell’art.5, Comma 1-bis, del d.lgs. n.28 del 2010, i cui i giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo».

Questo principio rettifica quanto in precedenza stabilito dalla Terza Sezione Civile della Cassazione con la sentenza 24629/15, di orientamento completamente opposto:

«poiché è l’opponente il soggetto interessato alla proposizione del giudizio di cognizione è su di lui che deve gravare l’onere di avviare la procedura di mediazione».

DECRETO INGIUNTIVO. PERCHÈ L’ONERE DI PROMUOVERE LA MEDIAZIONE RICADE SULL’OPPOSTO

Come spiega l’Avv. Giancarlo Renzetti, Delegato di Cassa Forense, la rettifica è così giustificata:

1) seguendo quanto indicato dall’artt. 4 e 5 del d.lgs. 28/2010, l’onere di promuovere la mediazione è a carico del creditore e in caso di opposizione a decreto ingiuntivo si può considerare l’opposto come creditore;

2) se l’onere della promozione della mediazione fosse a carico dell’opponente, la sua mancanza comporterebbe l’improcedibilità dell’opposizione e il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo. Con l’onere a carico dell’opposto, in caso non fosse proposta la mediazione, l’improcedibilità comporterebbe la sola revoca del decreto ingiuntivo che però potrebbe essere nuovamente proposto. In questo modo viene maggiormente tutelato il diritto di difesa.

Qui l’articolo originale pubblicato sul sito di Cassa Forense.

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Sospensione per l’avvocato che finge una grave malattia per ottenere denaro

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Con la sentenza n. 172/2019, il CNF conferma la sanzione della sospensione disciplinare per l’avvocato che ha finto una malattia grave al fine di ottenere denaro da una cliente.

IL CASO

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense riceve un esposto dal parte del COA a proposito dell’avvio di un’azione penale per truffa aggravata (artt. 61 n. 7 e 640 c.p.) contro un avvocato iscritto.

A quando pare, l’avvocato «mediante artifizi e raggiri consistiti nel prospettare falsamente una patologia tumorale agli occhi richiedente un urgente intervento chirurgico non coperto da convenzione del S.S.N.» ha convinto una donna a prestargli denaro per un totale di 60.000€.

Il Consiglio di Disciplina avvia una procedura contro l’avvocato, invitandolo a chiarire la sua posizione entro 30 giorni, ma questo non offre alcuna risposta.

Il Consiglio allora ottiene dalla Procura gli atti processuali e decide di sospendere il provvedimento disciplinare in attesa della conclusione del procedimento penale.

La causa viene estinta per remissione della querela e il Consiglio riprende il procedimento disciplinare evidenziando la violazione di diverse norme deontologiche.
In particolare, l’avvocato ha violato i principi di decoro, probità e dignità estorcendo il denaro mentendo e facendo leva sull’emotività della donna raggirata. Pertanto, stabilisce l’applicazione della sanzione della sospensione dall’esercizio della professione forense per quattro mesi.

Il RICORSO E LA CONFERMA DELLA SOSPENSIONE

L’avvocato si rivolge al CNF che, con la sentenza n. 172/2019, ne respinge il ricorso per le seguenti ragioni:

  • – l’avvocato attribuisce la propria condotta agli effetti di una depressione maggiore certificata da documenti medici, che però non si può affermare abbia inciso «sulla sfera di discrimine volitivo» come sostenuto dallo stesso;
  • – a proposito della differenza tra illecito istantaneo con effetti permanenti e illecito permanente che il ricorrente sostiene non sia stata presa in considerazione al momento della sentenza e che incide sulla prescrizione della pena, il Cnf spiega che:
       – questa risiede «nel rapporto causale tra evento e condotta contra ius del soggetto agente con la conseguenza che mentre nell’illecito istantaneo tale comportamento si esaurisce con il verificarsi del fatto, pur se l’esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito ad effetti permanenti); di contro nell’illecito permanente applicabile alla fattispecie, la condotta oltre a produrre l’evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell’uno e dell’altro»
    e che:
       – «la mancata restituzione di somme sono comportamenti pregiudizievoli che si protraggono nel tempo fintantoché non venga a cessare la stessa condotta indebitamente appropriativa ed è solo da tale eventuale cessazione che inizia a decorrere la prescrizione della azione disciplinare»;
  • – sulla presunta sproporzione della sospensione, rileva che la «gravità dell’uso di artifici e raggiri (profitto indebito fondato sullo stato emozionale gravemente compressivo della libera determinazione del terzo, profittando di una conoscenza occasionale in sede di pregressa consulenza prestata (…) aggravato dalla falsità delle affermazioni (patologia tumorale maligna inesistente)» giustifica la sanzione. Inoltre, fa notare che sono previste sanzioni più severe per casi meno gravi di quello in questione.

Qui il link alla sentenza CNF n. 172/2019.

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Tramite il comunicato stampa del 22 settembre 2020, l’Agenzia delle Entrate comunica l’esistenza di una nuova truffa via mail (phishing).

Le mail di phishing segnalano false incongruenze nei dati delle “eliminazioni periodiche IVA”.

COS’È IL PHISHING

Il phishing è un tipo di truffa via mail il cui scopo è rubare dati sensibili, come numeri di carte di credito, password e pin, informazioni personali, ecc.

Per farlo, viene generalmente chiesto al destinatario di:
– cliccare su un link fraudolento,
scaricare degli allegati apparentemente innocui che, invece, nascondono malware (virus informatici) che possono potenzialmente “sequestrare” il pc o lo smartphone fintantoché non viene pagato un riscatto.

L’efficacia del phishing si deve all’aspetto assolutamente credibile delle mail.

IL COMUNICATO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Nel comunicato, l’Agenzia delle Entrate spiega che l’attuale truffa via mail è caratterizzata da messaggi che nell’intestazione riportano la dicitura “IL DIRETTORE DELL’AGENZIA” o “GLI ORGANI DELL’AGENZIA” e che nel testo invitano a visionare i documenti in allegato al fine di verificare «alcune incoerenze» risultanti «dall’esame dei dati e dei saldi relativi alla divulgazione delle eliminazioni periodiche IVA».

Condividiamo le due immagini di esempio rilasciate dall’AdE.

L’Agenzia delle Entrate precisa di essere totalmente estranea a tali messaggi e invita gli utenti a cancellarli subito e a non aprire gli allegati.

COME DIFENDERSI DALLA TRUFFA VIA MAIL

L’Agenzia ricorda che per nessun motivo è sua abitudine inviare ai propri utenti mail con la richiesta di comunicare dati personali. Tutte le informazioni che li riguardano sono consultabili tramite il Cassetto Fiscale, presente nell’area riservata del sito dell’Agenzia stessa.

Vi ricordiamo che per tutelarvi dai tentativi di truffa via mail (phishing) è importante prestare attenzione ad alcuni dettagli dei messaggi di posta elettronica che ricevete.
In particolare:
– diffidate dai messaggi provenienti da mittenti sconosciuti o da enti, banche e società che, come suggerito poco sopra, non richiedono mai ai propri clienti di comunicare informazioni private tramite mail,
– non aprite mai allegati presenti in mail sospette,
– non cliccate sui link contenuti in mail sospette,
  se avete dubbi, contattate il mittente per assicurarvi che la mail sia davvero voluta.

Potete capire meglio come difendervi leggendo gli articoli suggeriti qui sotto.

Qui il link al comunicato ufficiale dell’Agenzia delle Entrate.

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Fattura elettronica: nuove specifiche tecniche a partire dal 1° ottobre

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Con il provvedimento n.166579/2020 del 20 aprile 2020, l’Agenzia delle Entrate ha aggiornato le specifiche tecniche dei tracciati xml della fattura elettronica, abbandonando alcuni codici e inserendone di altri.

Le nuove specifiche tecniche, la versione 1.6.1, vengono introdotte attraverso un periodo di transizione che parte dal 1° ottobre 2020.
Durante tale periodo il Sistema di Interscambio accetterà fatture elettroniche e note di variazione predisposte seguendo sia il nuovo schema che quello precedente (versione 1.5).

Dal 1° gennaio 2021 il Sistema di Interscambio accetterà solo le fatture e le note di variazione conformi al nuovo schema.

FATTURA ELETTRONICA E SPECIFICHE TECNICHE: QUALI NOVITÀ

Tra le novità introdotte dalla versione 1.6 delle specifiche tecniche evidenziamo:

– nuovi codici «TipoDocumento»
Viene ampliata la gamma di documenti che possono essere emessi e trasmessi.
Un esempio è il codice TD20, al momento utilizzabile in diversi casi, tra i quali il reverse charge. Con le nuove specifiche, il reverse charge presenta 3 nuovi codici:
TD16 per quello interno,
TD17 per acquisti di servizi da soggetti UE ed extra-UE,
TD18 per acquisti da fornitori UE;

– nuovi codici «Natura IVA»
I nuovi codici faciliteranno la dichiarazione Iva precompilata;

– nuovi codici «Tipo ritenuta»
Viene introdotta la possibilità di inserire più ritenute all’interno della stessa fattura. Sono ammesse ritenute di tipo previdenziale e la ritenuta d’acconto.
Si passa dai seguenti codici:
RT0 ritenuta persone fisiche,
RT02 ritenuta persone giuridiche,
a questi:
RT01 ritenuta persone fisiche,
RT02 ritenuta persone giuridiche,
RT03 contributo Inps,
RT04 contributo Enasarco,
RT05 contributo Enpam,
RT06 altro contributo previdenziale;

– nuovi codici «Modalità pagamento»
Viene introdotto il codice per i pagamenti tramite PagoPA.

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Procura non valida, l’avvocato paga

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L’ordinanza 18283/2020 emessa il 3 settembre dalla sesta sezione civile della Cassazione dichiara inammissibile un ricorso a causa della procura non valida rilasciata dal difensore del ricorrente.

L’inammissibilità è così spiegata:

«Il ricorso è innanzitutto inammissibile perché allorquando la procura, apposta su foglio separato e materialmente congiunto al ricorso, contenga espressioni incompatibili con la proposizione dell’impugnazione ed univocamente dirette ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali (Cass. 23 gennaio 2020, n. 1525; 2 luglio 2019, n. 17708; 5 novembre 2018, n. 28146; 11 ottobre 2018, n. 25177; 30 marzo 2018, n. 7940; 24 luglio 2017, n. 18257; 21 marzo 2005, n. 6070; 16 dicembre 2004, n. 23381).
La procura del presente ricorso è su foglio aggiunto al medesimo e contiene espressioni incompatibili con il giudizio di legittimità: il riferimento ad ogni fase e grado, la possibilità di deferire e riferire giuramento nonché chiamare terzi in causa, proporre domanda di riassunzione, proporre appello. In caso di ricorso per cassazione dichiarato inammissibile per difetto di una valida procura rilasciata al difensore, deve provvedersi alla dichiarazione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come novellato dalla L. n. 228 del 2012, sicché, trattandosi di attività processuale della quale il legale assume esclusivamente la responsabilità, su di lui e non sulla parte grava la pronuncia relativa alle spese del giudizio, compreso il raddoppio dell’importo dovuto a titolo di contributo unificato (Cass. 9 dicembre 2019, n. 32008; 10 ottobre 2019, n. 25435; 20 giugno 2006, n. 14281)».

Dunque, poiché la responsabilità ricade esclusivamente sul legale del ricorrente, è quest’ultimo a dover sostenere tutte le spese di giudizio.

PROCURA NON VALIDA E RICORSO INAMMISSIBILE. NULLA È CAMBIATO DAL 1982

La decisione di considerare inammissibile un ricorso in caso di procura non valida non rappresenta una novità, come fa notare il presidente dell’Unione nazionale Camere civili, Antonio de Notaristefani, a Il Dubbio: «già nel 1982, quando io mi sono iscritto all’abo dei praticanti procuratori, se ne poteva fare esperienza: uno dei nostri tormenti consisteva nello spasmodico sforzo di racchiudere l’atto nel foglio uso bollo in modo che nelle ultime tre righe disponibili potesse iniziare la procura, che se integralmente riportata su un foglio spillato sarebbe stata ritenuta invalida. […] Non è cambiato nulla».

DIRITTO ALA GIUSTIZIA

Oltre all’onere economico per gli avvocati, questo tipo di decisione ha conseguenze anche sul diritto alla giustizia: «non si dimentichi mai che dietro un ricorso anche di legittimità può esserci un genitore a cui stano per sottrarre l’affidamento dei figli, un lavoratore licenziato che chiede di ottenere la reintegra o una persona sfrattata dalla casa in cui vive. La dimensione parallela del diritto formale in cui avvocati e giudici sono a volte rinchiusi non può far perdere quella della giustizia sostanziale attesa dai cittadini».

Linkiamo il testo all’ordinanza 18283/2020 della Cassazione.

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Tra i 557 progetti che L’Italia sta considerando di inserire nel piano per accedere ai fondi del Recovery Fund molti riguardano la digitalizzazione e alcuni toccano il settore della Giustizia.

La Scrivania Tecnologica Portatile è uno di questi: quasi 2 miliardi per potenziare gli strumenti digitali al fine di migliorare l’efficienza della PA e «consentire alle figure professionali di rispondere alle esigenze dell’utenza anche in situazioni emergenziali».

Tra gli obiettivi della digitalizzazione vi è poi anche l’implementazione della giustizia predittiva per l’Avvocatura dello Stato, per facilitare la scrittura di pareri e memorie a partire da precedenti giuridici.

PRO E CONTRO DELLA GIUSTIZIA PREDITTIVA

Cosa rende la giustizia ‘giusta’? La sua certezza.

Ma l’umana natura è, per sua essenza, fallace. Per questo l’impiego di tecnologie che permettano di analizzare precedenti e dati in maniera più precisa e oggettiva può essere utile nel raggiungere una giustizia più certa e, quindi, ‘giusta’.

Almeno, questa è la teoria. La pratica è, sfortunatamente, più complessa.

La capacità di un computer di prevedere quale possa essere la sentenza più ‘probabile’ si basa su degli algoritmi, operazioni che, a partire dai dati inseriti, compiono determinati passaggi di calcolo fino a offrire un risultato finale.

Il punto è che questi algoritmi sono creati e usati da umani e il risultato che possono offrire dipende sia dai criteri con cui sono stati costruiti sia dai dati inseriti. In sostanza, l’algoritmo non può essere del tutto neutrale perché é creato e usato dall’uomo che, per sua natura, non è mai neutrale.

Dunque, se a seconda dei dati inseriti varia il risultato, la giustizia predittiva non può garantire il principio di uguaglianza che è alla base della certezza, che è, a sua volta, alla base della giustizia ‘giusta’.

Inoltre, l’intelligenza artificiale su cui si basa la giustizia predittiva può sfuggire di mano al suo stesso creatore e un programmatore potrebbe faticare a risalire i passaggi che una tecnologia può aver seguito per giungere al suo risultato o individuarne gli errori.

IL PROBLEMA DELLA DISCRIMINAZIONE ALGORITMICA

Partendo da queste premesse, è facile intuire che anche gli algoritmi possono portare a forme di discriminazione. Un esempio è quanto accaduto con il software inglese Hart, i cui risultati erano frutto di una considerazione diversa degli accusati in base al loro codice di avviamento postale, cosa che ha portato a condanne discriminatorie verso i residenti in zone degradate.

Questo tipo di rischio insito nella giustizia predittiva non sta certo passando inosservato, nemmeno a casa nostra.
Il  Consiglio di Stato spiega che «non può essere messo in discussione che un più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sia fondamentale per migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli utenti» (sentenza n.881/2020) e rileva che, quando si utilizzano algoritmi per giungere a una decisione, è necessario considerare tre principi fondamentali (sentenza n. 8472/2019):

– il principio di conoscibilità: ognuno ha il diritto di sapere se il processo decisionale a cui è sottoposto è automatizzato e, in tal caso, di conoscere la logica su cui si basa;

il principio di non esclusività della decisione algoritmica: se una decisione automatizzata produce effetti significativi sulla persona, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata solo sul processo automatizzato;

il principio della non discriminazione algoritmica: il titolare del trattamento dei dati utilizzati nelle procedure di profilazione deve fare il possibile per garantire che le inesattezze nei dati e gli errori nei risultati siano minimizzati.

In conclusione, la giustizia predittiva sembrerebbe portare i migliori risultati solo se mediata e controllata da una sorta di revisione umana.

[Fonti e approfondimenti: “Recovery fund: i progetti dell’Italia per 5G, AI, cashless, digitale e banda ultralarga“; “Sentenze algoritmiche e principi del diritto. Per un rinnovamento nella continuità“; “Consiglio di Stato: non è da escludere l’adozione di un algoritmo in un procedimento amministrativo“; “Che cambia se è l’algoritmo a valutare i condannati: i test“]

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Scambio e deposito delle note scritte. La loro assenza equivale alla mancata comparizione

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Il D.L. Cura Italia (n. 18/2020) contiene misure a sostegno di famiglie, lavoratori e imprese con l’obiettivo di limitare la diffusione dell’epidemia di Covid-19.
Alcune di queste misure hanno toccato la Giustizia, in particolare quelle indicate negli art. 83, 84 e 85.
Un esempio è il comma 7, lett h), dell’art.83 che ha concesso ai capi degli uffici giudiziari la facoltà di far svolgere le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti attraverso il solo scambio e il deposito telematico delle note scritte contenenti istanze e conclusioni.

E se i difensori non procedono allo scambio e al deposito delle note scritte?

IL CASO

I legali di una banca si appellano alla Corte d’Appello di Napoli, ma non presentandosi all’udienza di comparizione e trattazione, il procedimento viene rinviato e una nuova udienza viene fissata al 19 maggio 2020, ancora in emergenza COVID.

Nel frattempo, il Presidente della Sezione si allinea a quanto stabilito dal D.L. Cura Italia e dispone che la seconda udienza venga svolta secondo le modalità previste dall’art. 83, comma 7, lett. h).
Le parti avrebbero dunque dovuto scambiarsi e depositare telematicamente le note scritte con istanze, conclusioni e la prova dell’avvenuto invio alle controparti tramite PEC ma, nonostante fossero stati avvisati, i legali dell’appellante non hanno provveduto in tal senso.

NOTE SCRITTE E COMPARIZIONE FISICA

Nella sentenza n. 2151/2020, la Corte d’Appello di Napoli spiega che le note scritte rappresentano un «eccezionale surrogato della comparizione fisica dei difensori delle parti all’udienza tenuta dal giudice».  Se queste non vengono presentate, non significa che l’udienza non sia stata svolta, ma la loro assenza equivale alla mancata comparizione delle parti all’udienza  (art. 348, comma 2, c.p.c.).

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Torniamo a parlare della tempestività delle notifiche, tema che continua a genera confusione.

Con l’ordinanza 18235/2020, la Cassazione offre nuovamente una prospettiva chiarificatrice.

IL CASO

L’ordinanza si riferisce a un ricorso presentato dopo che il giudice d’appello ha ritenuto tardiva un’impugnazione notificata via PEC oltre le 23 dell’ultimo giorno disponibile e, quindi, perfezionata alle 7 del giorno seguente (ex art. 16 D.L. 179/2012), quando ormai il termine per presentare era scaduto.

La Cassazione ha riconosciuto la fondatezza del ricorso, richiamando quanto indicato in una precedente ordinanza emessa in aprile 2019 (n. 75/2019).

In quel caso, la Cassazione analizzava il tema della tempestività della notifica dichiarando incostituzionale l’art. 16 del D.L. 179/2020 nella parte in cui indica che «la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta».

LA TEMPESTIVITÀ DELLA NOTIFICA. DIFFERENZE TRA DESTINATARIO E MITTENTE

L’approccio indicato nell’art.16 limita però l’esercizio del diritto alla difesa da parte del notificante.

Il motivo è semplice.

Il divieto di notifica oltre le 21, e il relativo perfezionamento alle 7 del giorno successivo, è stato creato per tutelare il destinatario ed evitare che questi continui a controllare la propria casella PEC in una fascia oraria che si presume dedicata al riposo.

Tale tutela non ricade però sul mittente, al quale viene invece imposto un limite che gli impedisce di sfruttare tutto il tempo a sua disposizione. Tempo che l’art. 155 c.p.c. conteggia in giorni e che, nel caso di impugnazione, si protrae fino alle 24 dell’ultimo giorno disponibile.

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La durata dell’udienza incide sul compenso dell’avvocato? Se si rivela estremamente breve, il compenso può essere escluso?

UN’UDIENZA PRELIMINARE DI SOLI 10 MINUTI

Un avvocato, difensore di un assistito ammesso al gratuito patrocinio, impugna il decreto con cui il g.u.p. liquida il compenso da lui maturato. Alla base dell’impugnazione, la mancata liquidazione della somma maturata per la fase decisionale.

Il Tribunale rigetta l’impugnazione, sostenendo che la fase decisionale, essendo durata una decina di minuti e in un’unica sessione, ha rappresentato solo «un simulacro di discussione, durato pochi secondi». Troppo poco per concorrere al calcolo del compenso del legale.

L’avvocato ricorre in Cassazione lamentando la violazione e/o falsa applicazione

– dell’art. 12 comma 3, lettera d) del dm n. 55/2014, in cui si dice che «il compenso si liquida per fasi. Con riferimento alle diverse fasi del giudizio si intende esemplificativamente: […] per fase decisionale: le difese orali o scritte, le repliche, l’assistenza alla discussione delle altre parti processuali sia in camera di consiglio che in udienza pubblica».

– dell’art.12 comma 1, del dm n. 55/2014 in cui vengono elencati tutti parametri da considerare ai fini della liquidazione del compenso del difensore.

L’avvocato ritiene dunque incorretta la decisione del giudice di non considerare l’udienza preliminare nel calcolo della somma solo perché non ha assunto la forma di una vera e propria udienza. 

LA DURATA DELL’UDIENZA CONCORRE A QUANTIFICARE IL COMPENSO MA NON LO ESCLUDE

Con l’ordinanza n. 18791/2020, la Cassazione accoglie il ricorso e spiega che la breve durata dell’udienza preliminare non consente al giudice di negare il compenso all’avvocato.

Così si legge nell’ordinanza:«il tempo necessario per lo svolgimento della prestazione professionale, quindi, purché svolta in udienza che non sia di mero rinvio, rileva unicamente ai fini della quantificazione del compenso conseguentemente maturato, ma non può in alcun modo comportare che, in ragione della asserita brevità temporale di esecuzione della stessa, il compenso relativo possa essere addirittura negato».

Il tempo è dunque un parametro che serve a quantificare con più precisione il compenso, mai ad escluderlo.

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Domicilio digitale. Sanzioni in caso di mancata comunicazione

Domicilio digitale. Sanzioni in caso di mancata comunicazione

Domicilio digitale. Sanzioni in caso di mancata comunicazione

L’art.1 comma 1, n-ter, del Codice dell’Amministrazione Digitale definisce il domicilio digitale come “indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata o un servizio elettronico di recapito certificato qualificato, come definito dal regolamento (UE) 23 luglio 2014 n. 910 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE, di seguito «Regolamento eIDAS»,valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale”.

L’importanza del domicilio digitale trova uno dei più recenti riconoscimenti nel D.L. Semplificazioni, n. 76/2020, che all’art. 37 stabilisce le “disposizioni per favorire l’utilizzo della posta elettronica certificata nei rapporti tra pubbliche amministrazioni, imprese e professionisti”.

Il Decreto impone ai professionisti iscritti ad albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato di comunicare il proprio domicilio digitale all’ordine o al collegio di appartenenza e al registro delle imprese.

Ordini e collegi raccoglieranno tutti i domicili digitali, insieme ai dati identificativi dei professionisti, in un elenco telematico a disposizione delle pubbliche amministrazioni.

Da questa dinamica sono esclusi i revisori legali e le società di revisione legale, che dovranno comunicare il proprio domicilio digitale al Ministero dell’economia e delle finanze o all’incaricato della tenuta del registro a loro dedicato.

CONSEGUENZE IN CASO DI MANCATA COMUNICAZIONE DEL DOMICILIO DIGITALE

I professionisti che non rispettano l’obbligo di comunicare il proprio domicilio digitale incorrono in sanzioni.
La prima è la diffida ad adempiere entro trenta giorni da parte del collegio o dell’ordine di appartenenza. Se questa non viene rispettata, il professionista rischia la sospensione dall’albo o dall’elenco fino alla comunicazione del domicilio.

Anche i collegi e gli ordini possono essere sanzionati qualora dovessero non pubblicare l’elenco dei domicili o non comunicare i dati alle PA o all’indice nazionale dei domicili digitali delle imprese.
La sanzione consiste nello scioglimento o nel commissariamento del collegio o dell’ordine.

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