Avvocato domiciliatario: chi paga il compenso?

Avvocato domiciliatario: chi paga il compenso?

Immaginiamo un cliente che debba instaurare un giudizio presso un foro diverso da quello in cui opera il suo avvocato di fiducia. Il cliente potrebbe volere comunque l’assistenza del suo legale, oppure chiedere a quest’ultimo una soluzione alternativa.

In entrambi i casi, sarà necessario ricorrere alla collaborazione di un altro avvocato.

A questo punto però si aprono due possibili scenari:
la parte conferisce mandato all’avvocato domiciliatario,
– la parte mantiene il rapporto diretto col proprio legale, l’avvocato dominus, e conferisce al domiciliatario solo la procura necessaria a rappresentarlo in giudizio.

Chi paga il compenso dell’avvocato domiciliatario? Il dominus o la parte assistita?

DEFINIRE CHI SIA IL CLIENTE DELL’AVVOCATO DOMICILIATARIO

Per capire su chi ricada l’obbligo di corrispondere il compenso dell’avvocato domiciliatario va compreso chi sia il suo reale cliente.

La risposta è semplice: il cliente del domiciliatario è il soggetto che gli ha conferito l’incarico.

Va però notato che chi conferisce l’incarico non è necessariamente chi gode direttamente dell’attività professionale del legale.

In sostanza, bisogna analizzare la relazione tra avvocato domiciliatario, avvocato dominus e parte assistita.
Da qui si capisce che se è il dominus a conferire l’incarico al domiciliatario, sarà sempre il dominus a pagare il compenso, anche se la prestazione professionale è concretamente svolta a beneficio della parte.

Va inoltre sottolineato che l’esistenza di una procura congiunta a favore di entrambi i legali non cambia la situazione.

Sul tema del pagamento del compenso dell’avvocato domiciliatario si è espressa anche la Corte di Cassazione che, con l’ordinanza n.7037 del 12 marzo 2020, conferma che il diritto al compenso è legato al conferimento dell’incarico: «il cliente del professionista non è necessariamente colui nel cui interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito incarico al professionista ed è conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo»

Per approfondire: CFNews – Avvocato domiciliatario, procura congiunta, soggetto obbligato al pagamento del compenso

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Con i contagi da COVID in salita e nonostante le misure del nuovo DPCM n.125 è plausibile che nei prossimi mesi molti genitori si troveranno a dover affrontare l’esperienza della quarantena dei propri figli.
Come funziona il congedo parentale?

IL CONGEDO PARENTALE IN CASO DI QUARANTENA DEI FIGLI

I genitori hanno a disposizione diverse possibilità.

Lavoro agile

L’art. 5 del D.L. n. 111 dell’8 settembre 2020 prevede che al genitore lavoratore dipendente sia concesso di svolgere il proprio lavoro in smart working per tutta o parte della quarantena del figlio convivente e minore di 14 anni; quarantena che deve essere disposta dal Dipartimento di Prevenzione della ASL territoriale nel caso in cui fosse stato accertato un contatto con un contagiato all’interno degli ambienti scolastici.
Questa misura è valida nel periodo tra il 9 settembre 2020 e il 31 dicembre 2020.

Congedo al 50%

Se il lavoro agile non fosse possibile, uno solo dei genitori può optare per un congedo al 50% della retribuzione. Anche in questo caso il figlio deve avere meno di 14 anni e la quarantena deve essere disposta dal Dipartimento di Prevenzione della ASL territoriale nel caso in cui  fosse stato accertato un contatto con un contagiato all’interno dell’istituto scolastico.

QUARANTENA A SEGUITO DI CONTATTO FUORI DAL CONTESTO SCOLASTICO

Non sono state indicate misure per i casi in cui il figlio fosse costretto alla quarantena a seguito di un contatto con un contagiato avvenuto in contesti non scolastici. Cosa può fare un genitore in questo caso?

Ferie

I genitori, lavoratori sia pubblici che privati, possono utilizzare le ferie ancora a disposizione per il 2020. Opzione già caldamente sostenuta dal governo ai tempi del lockdown.

ROL e permessi

I genitori lavoratori dipendenti privati possono sfruttare eventuali ROL e permessi previsti dai CCNL.
I dipendenti pubblici non ha questa facoltà, ma hanno a disposizione 18 ore o 3 giorni di permessi per motivi personali e familiari, come previsto dall’ultimo CCNL.

Congedi parentali ordinari

I congedi parentali ordinari spettano ai genitori di bambini fino ai 12 anni (ex art. 32 D.Lgs. 151/2001).
La loro durata è di 6 mesi per la madre e di 7 mesi per il padre. La somma dei congedi parentali ordinari dei due non può superare gli 11 mesi.
Il genitore solo ha diritto a 10 mesi di congedo parentale.

L’indennizzo previsto è pari al 30% della retribuzione, se il periodo complessivo tra entrambi i genitori non supera i 6 mesi (salvo diversi trattamenti previsti dai CCNL) e fino al sesto anno di vita del bambino.
Fino all’ottavo anno del bambino, l’indennità rimane al 30% solo se il reddito individuale del genitore è inferiore a  2,5 volte l’importo del trattamento minimo pensionistico a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.
Oltre l’ottavo anno e fino ai 12 non è prevista alcuna indennità.

Part-time

Il genitore può chiedere, per una sola volta, che il rapporto di lavoro passi da tempo pieno a tempo parziale, a patto che la riduzione d’orario non superi il 50% (ex art. 8, comma 7, D.Lgs. n. 81/2015).

[Fonte orginale: edotto.com]

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Come sicuramente avrete sentito, secondo Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, gran parte dei problemi della giustizia sono dovuti a un presunto eccessivo numero di avvocati nel nostro paese: «Nel 1996 in Italia avevano 87.000 avvocati, nel 2019 245.000, quasi il triplo in 23 anni. Facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione della giustizia».

Queste dichiarazioni hanno smosso il mondo forense, con l’AIGA (Associazione Italiana Giovani Avvocati) che non ha tardato a dichiararle «inaccettabili, offensive e fuori luogo» soprattutto in un momento storico in cui «in diversi Stati del mondo (non da ultima la Turchia) gli avvocati vengono perseguitati, condannanti, portati alla morte, perché rei di esercitare il loro mandato difensivo nell’interesse della Giustizia. Una violazione assoluta dei diritti di libertà, difesa e di tutti i valori umani più elementari».

A ben guardare, già qualche anno fa Morra aveva espresso la sua posizione nei confronti degli avvocati, proponendo l’introduzione di una sorta di certificazione di qualità per «verificare e validare la loro tenuta morale ed etica. Nel contrasto alla criminalità organizzata si partirà anche da quella parte dell’economia sana che rischia di essere inquinata: uno strumento potrebbe essere l’istituzione di un bollino blu per gli iscritti ai vari ordini professionali. Penso a una sorta di controllo di filiera etica che possa rappresentare una certificazione di moralità».

RIDURRE GLI AVVOCATI A PARTIRE DAI PRATICANTI

Sergio Longhi, segretario della Fondazione dell’Avvocatura Napoletana per Alta Formazione Forense, a settembre di quest’anno, attraverso il quotidiano Il Mattino esprimeva la sua speranza in una «drastica riduzione del numero degli aspiranti avvocati a tutto vantaggio della collettività».

La volontà di ridurre il numero di avvocati passa dunque per i praticanti. Del resto, non potendo agire su chi è già avvocato, bisogna per forza spingere chi vuole intraprendere la carriera forense a cambiare idea.

Ma ci sono davvero troppi avvocati in Italia?

AVVOCATI IN ITALIA. I NUMERI E  IL COMMENTO DELL’EUROPA

Cassa Forense ha pubblicato alcuni interessanti dati statistici.

Gli avvocati residenti in Italia al 1° gennaio 2020 erano effettivamente più di 245.000, circa 2.000 in più rispetto al 2019.

C’è però da dire che il tasso medio annuo di crescita della categoria si è drasticamente abbassato: nei primi anni 2000 ha toccato l’8 – 9%, nel triennio 2017-2019 è rimasto inferiore all’1%. «L’avvocatura cresce pertanto in maniera molto contenuta, per non dire che si trova in situazione di stazionarietà, forse a causa di una professione che attira sempre meno le giovani generazioni ma soprattutto in conseguenza di un inesorabile calo demografico della popolazione italiana».

Per approfondire il tema è possibile analizzare i rapporti annuali del CEPEJ (Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) che, al momento, non dimostrano alcuna relazione tra i problemi della giustizia e il numero di avvocati in Italia.

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Lo scorso 28 settembre 2020, presso la Corte di Giustizia Europea, si è celebrata la prima seduta solenne che ha dato il via ufficiale alle attività della Procura Europea.

La Procura Europea è un organismo indipendente dell’Unione Europea che si occuperà di indagare e perseguire quei reati che ledono gli interessi dell’UE, per esempio frodi contro il bilancio dell’Unione, frodi relative a fondi UE superiori a 10.000 euro o all’IVA transfrontaliera che possano generare danni superiori a 10 milioni di euro.

Prima della sua creazione, questi reati erano di competenza delle sole autorità nazionali preposte, che non potevano certo agire al di fuori dei confini del proprio paese.
Altri organismi europei, come l’OLAF, l’Eurojust e l’Europol non hanno la potenza d’azione riconosciuta alla Procura Europea.

La Procura Europea può dunque svolgere indagini, esercitare l’azione penale ed agire come pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali dei singolo stati membri. Può anche chiedere l’arresto di un soggetto, ma per procedere deve ottenere la convalida dell’autorità nazionale competente.

LA COMPOSIZIONE DELLA PROCURA EUROPEA

L’organismo ha sede a Lussemburgo ma è formato da procuratori delegati europei localizzati nei diversi stati aderenti, che al momento sono 22: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna).

Il procuratore capo europeo è Laura Codruţa Kövesi, nominata il 16 ottobre 2019, dal Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea, mentre i primi 22 procuratori europei sono stati nominati lo scorso 27 luglio 2020.
I candidati a diventare procuratori europei dovevano essere tra i “membri attivi delle procure o della magistratura degli stati membri e offrire tutte le garanzie di indipendenza“. Era richiesta anche esperienza “in materia di indagini finanziarie e di cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale”.

Per l’Italia è stato scelto Danilo Ceccarelli, già sostituto procuratore a Milano e International Prosecutor nella missione EULEX in Kosovo.

Questi gli altri componenti della procura europea: Mme Laura Codruţa Kövesi (RO), Frédéric Baab (FR), Cătălin-Laurențiu Borcoman (RO), aka Brezigar (SI), Gatis Doniks (LV), Yvonne Farrugia (MT), Teodora Georgieva (BG), Daniëlle Goudriaan (NL), José Eduardo Guerra (PT), Petr Klement (CZ), Tomas Krušna (LT), Tamara Laptoš (HR), Katerina Loizou (CY), Ingrid Maschl-Clausen (AT), Juraj Novocký (SK), Andrés Ritter (DE), Maria Concepción Sabadell Carnicero (ES), Gabriel Seixas (LU), Kristel Siitam-Nyiri (EE), Harri Tiesmaa (FI), Yves Van Den Berge (BE) e Dimitrios Zimianitis (EL).

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Nel Supplemento ordinario n. 35 alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 241 del 29.9.2020 contiene la ripubblicazione del testo del decreto-legge n. 76/2020, coordinato con la legge di conversione n. 120/2020, recante Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, corredato delle relative note. L’art. 28 del predetto decreto-legge (al quale la legge di conversione non ha apportato modifiche) ha introdotto significative novità in materia di notificazioni telematiche, riformando gli artt. 16, commi 12 e 13, e 16 ter d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012).

In particolare, i commi 12 e 13 dell’art. 16 (rubricato Biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica) d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012) oggi recitano:

“12. Al fine di favorire le comunicazioni e notificazioni per via telematica alle pubbliche amministrazioni, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, comunicano al Ministero della giustizia, con le regole tecniche adottate ai sensi dell’articolo 4, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, l’indirizzo di posta elettronica certificata conforme a quanto previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, e successive modificazioni, a cui ricevere le comunicazioni e notificazioni. L’elenco formato dal Ministero della giustizia è consultabile esclusivamente dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti, e dagli avvocati. Con le medesime modalità, le amministrazioni pubbliche possono comunicare altresì gli indirizzi di posta elettronica certificata di propri organi o articolazioni, anche territoriali, presso cui eseguire le comunicazioni o notificazioni per via telematica nel caso in cui sia stabilito presso questi l’obbligo di notifica degli atti introduttivi di giudizio in relazione a specifiche materie ovvero in caso di autonoma capacità o legittimazione processuale. Per il caso di costituzione in giudizio tramite propri dipendenti, le amministrazioni pubbliche possono altresì comunicare ulteriori indirizzi di posta elettronica certificata, riportati in una speciale sezione dello stesso elenco di cui al presente articolo e corrispondenti a specifiche aree organizzative omogenee, presso cui eleggono domicilio ai fini del giudizio.

13. In caso di mancata comunicazione ai sensi del comma 12, le comunicazioni e notificazioni a cura della cancelleria si effettuano ai sensi dei commi 6 e 8 e le notificazioni ad istanza di parte si effettuano ai sensi dell’articolo 16 ter, comma 1 ter.”

L’art. 16 ter (rubricato Pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni) d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012) oggi recita:

“1. A decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6 bis , 6 quater e 62 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, dall’articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia.

1 bis. Le disposizioni dei commi 1 e 1 ter si applicano anche alla giustizia amministrativa.

1 ter. Fermo restando quanto previsto dal regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, in materia di rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato, in caso di mancata indicazione nell’elenco di cui all’articolo 16, comma 12, la notificazione alle pubbliche amministrazioni degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale è validamente effettuata, a tutti gli effetti, al domicilio digitale indicato nell’elenco previsto dall’articolo 6 ter del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e, ove nel predetto elenco risultino indicati, per la stessa amministrazione pubblica, più domicili digitali, la notificazione è effettuata presso l’indirizzo di posta elettronica certificata primario indicato, secondo le previsioni delle Linee guida di AgID, nella sezione ente dell’amministrazione pubblica destinataria. Nel caso in cui sussista l’obbligo di notifica degli atti introduttivi di giudizio in relazione a specifiche materie presso organi o articolazioni, anche territoriali, delle pubbliche amministrazioni, la notificazione può essere eseguita all’indirizzo di posta elettronica certificata espressamente indicato nell’elenco di cui all’articolo 6 ter del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, per detti organi o articolazioni.”

Il comma 1 ter dell’art. 16 ter d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012) è di immediata applicazione (ex art. 28 comma 2 n. 76/2020).

L’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA) è oggi pubblico elenco ai fini della validità delle notifiche telematiche ex art. 3 bis l. n. 53/1994

Ai fini della validità della notifica, l’art. 3 bis l. n. 53/1994 stabilisce che, per effettuare una notifica telematica, l’avvocato deve utilizzare una casella di posta elettronica risultante da un “pubblico elenco” e che anche l’indirizzo PEC del destinatario risulti da tale elenco.

L’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA), ad accesso libero in cui si trovano quasi tutte le PEC delle PP.AA., da tempo non era più legalmente utilizzabile ai fini delle notifiche telematiche. In particolare, dal 19.8.2014 non era più un “pubblico elenco” ai fini delle notificazioni telematiche l’IPA, previsto dall’art. 6 ter CAD (e già dall’art. 57 bis CAD), realizzato e gestito dall’AgID, il quale costituisce l’archivio ufficiale contenente i riferimenti organizzativi, telematici e toponomastici delle PP.AA. e dei gestori di pubblici servizi. Per effetto di modifiche legislative succedutesi nel tempo, l’IPA è stato in passato un “pubblico elenco” ai fini della validità delle notifiche telematiche dal 15.12.2013 al 18.8.2014.

Grazie al c.d. “decreto semplificazioni”, IPA è tornato a essere un “pubblico elenco” ai fini della validità delle notifiche telematiche alle PP.AA. Come già accennato, il comma 1 ter dell’art. 16 ter d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012) prevede oggi che, in caso di mancata indicazione nel predetto registro PP.AA., la notificazione alle PP.AA. degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale è validamente effettuata, a tutti gli effetti, al domicilio digitale (in caso di più domicili, alla p.e.c. primaria) indicato nell’IPA.

Infatti, l’art. 16 ter d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012), attualmente, stabilisce che, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale, sono “pubblici elenchi” dai quali possono essere attinti gli indirizzi p.e.c. dei destinatari delle notifiche telematiche quelli previsti dalle seguenti norme:

  1. art. 6 bis d. lgs n. 82/2005 (“CAD”) (rubricato Indice nazionale dei domicili digitali delle imprese e dei professionisti), il quale prevede la istituzione di un pubblico elenco denominato Indice nazionale dei domicili digitali (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti, presso il Ministero dello sviluppo economico;
  2. art. 6 quater CAD (rubricato Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato, non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese), che non risulta essere stato ancora istituito;
  3. art. 62 CAD (rubricato Anagrafe nazionale della popolazione residente-ANPR), non ancora istituito. Al completamento dell’ANPR di cui all’art. 62, l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) provvede al trasferimento dei domicili digitali contenuti nell’elenco di cui all’art. 6 quater CAD nell’ANPR;
  4. art. 16 comma 12 d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012), il quale prevede la istituzione di un registro, formato dal Ministero della giustizia, contenente gli indirizzi di PEC delle PP.AA., consultabile esclusivamente dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti, e dagli avvocati;
  5. art. 16 comma 6 d.l. n. 185/2008 (conv. con modif. dalla l. n. 2/2009) ovvero il Registro delle Imprese;
  6. il Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (ReGIndE), gestito dal Ministero della giustizia, il quale contiene i dati identificativi nonché l’indirizzo di PEC dei soggetti abilitati esterni;
  7. art. 6 ter CAD (rubricato Indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi), realizzato e gestito dall’AgID, ma solo in caso di mancata indicazione nell’elenco di cui all’art. 16, comma 12, d.l. n. 179/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 221/2012) dell’indirizzo di PEC della PA.

Con le nuove disposizioni, da un lato, la PA può inserire in tale Registro gli indirizzi PEC di propri organi o articolazioni, anche territoriali, presso cui eseguire comunicazioni o notificazioni telematiche in caso di obbligo di notifica presso questi degli atti introduttivi di giudizio per specifiche materie ovvero di autonoma capacità o legittimazione processuale; dall’altro, per il caso di costituzione in giudizio tramite propri dipendenti, le PP.AA. possono comunicare in una speciale sezione dello stesso elenco ulteriori indirizzi PEC di specifiche aree organizzative omogenee, presso cui eleggono domicilio ai fini del giudizio.

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Avvocato Ione Ferranti

Avvocato dal 1998, nel 2004 ha fondato lo Studio legale Ferranti a Roma. Autrice di numerose pubblicazioni fin dal 1996. Dal 1998 al 2016 ha collaborato con il Prof. Nicola Picardi all’aggiornamento del commento di alcuni articoli del Codice di Procedura Civile, edito dalla Giuffré Editore nella Collana "Le fonti del diritto italiano".
Nel 2008/2009 ha vinto una procedura di selezione per una docenza a contratto indetta dall’Università di Perugia, dove ha insegnato diritto dell’Unione Europea. Pubblica periodicamente anche articoli in materia di giustizia digitale, IT/IP e processi telematici

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Nulla vieta a un’avvocato o a uno studio legale di farsi pubblicità, a patto che l’attività di marketing legale sia svolta nel rispetto dei principi indicati dal codice deontologico.

Per qualcuno questo può sembrare un ossimoro; in realtà il codice deontologico non solo non esclude questa la possibilità ma, anzi, suggerisce una condotta comportamentale che è a tutto favore di un marketing di qualità.

Tre sono gli articoli di particolare rilevanza.

MARKETING LEGALE: 3 ARTICOLI DI RIFERIMENTO

Il primo articolo utile a definire come fare marketing legale è l’art.37 sul divieto di accaparramento della clientela:

“1. L’avvocato non deve acquisire rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi a correttezza e decoro.
2. L’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o a terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali.
3. Costituisce infrazione disciplinare l’offerta di omaggi o prestazioni a terzi ovvero la corresponsione o la promessa di vantaggi per ottenere difese o incarichi.
4. E’ vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
5. E’ altresì vietato all’avvocato offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare.”

Il secondo è l’art.17:

“1. È consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti.
2. Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative.
3. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.”

Infine, l’art.35 offre dei veri e proprio spunti pratici per offrire una “corretta informazione”:

  1. ” L’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati, deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
  2. L’avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale.
  3. L’avvocato, nel fornire informazioni, deve in ogni caso indicare il titolo professionale, la denominazione dello studio e l’Ordine di appartenenza.
  4. L’avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo se sia o sia stato docente universitario di materie giuridiche; specificando in ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.
  5. L’iscritto nel registro dei praticanti può usare esclusivamente e per esteso il titolo di “praticante avvocato”, con l’eventuale indicazione di “abilitato al patrocinio” qualora abbia conseguito tale abilitazione.
  6. Non è consentita l’indicazione di nominativi di professionisti e di terzi non organicamente o direttamente collegati con lo studio dell’avvocato.
  7. L’avvocato non può utilizzare nell’informazione il nome di professionista defunto, che abbia fatto parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime degli eredi.
  8. Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano.
  9. Le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare i principi di dignità e decoro della professione.”

Presi nel loro complesso, questi 3 articoli offrono ad avvocati e studi legali il perimetro entro cui muoversi.
È evidente che il codice deontologico non neghi affatto la possibilità di fare marketing legale, in particolare attraverso i mezzi digitali a disposizione oggi (sito, blog, social, podcast, ecc.), ma che spinga per una comunicazione che sia indirizzata verso la condivisione trasparente di informazioni e la creazione di una relazione onesta con l’utente, e non una comunicazione basata su messaggi puramente commerciali.

Questi non sono affatto limiti; al contrario, sono indicazioni perfettamente in linea con i principi del marketing di qualità.

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Uno degli effetti del Decreto Semplificazioni 76/2020 è quello di aver reso più veloce la procedura di liquidazione dei compensi degli avvocati che si prestano al gratuito patrocinio.
All’art. 37-bis si legge:

1. Al fine di favorire una celere evasione delle richieste di liquidazione dei compensi spettanti al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e al difensore d’ufficio ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, le istanze prodotte dal giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono depositate presso la cancelleria del magistrato competente esclusivamente mediante modalità telematica individuata e regolata con provvedimento del direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia.

Il deposito telematico delle istanze di pagamento decorre dunque a partire dal 16 settembre 2020, giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione n. 120/2020.

L’emendamento che ha introdotto questa novità è stato voluto dalla senatrice Anna Rossomando (Pd) che ha spiegato che «il governo si è impegnato a prevedere nel primo provvedimento utile, tutte le misure di carattere economico ed amministrativo necessarie a favorire il pagamento dei compensi degli avvocati difensori in tempi certi e ragionevoli. Impegno che viene indicato chiamando in causa il reperimento delle risorse necessarie e, in particolare, che il relativo capitolo di bilancio sia sufficientemente capiente».

GRATUITO PATROCINIO: IL COSTANTE RITARDO NEL PAGAMENTO DEI COMPENSI

La liquidazione dei compensi degli avvocati che si prestano al gratuito patrocinio è afflitta da cronici ritardi, che a volte possono tradursi in anni di attesa.
Le cause sono molteplici, prima fra tutte la scarsità di risorse economiche.

Il Rendiconto del Ministero della Giustizia del 20 gennaio 2020 indicava quanto segue:

nell’anno 2019 lo stanziamento iniziale di bilancio del cap. 1360, p.g. 1, “spese di giustizia” è pari ad euro 516.626.730, a fronte di una spesa che, su base previsionale, può essere quantificata in misura superiore a 628 milioni di euro.

Anche dalla gestione dell’anno 2019, dunque, è derivata una consistente esposizione debitoria.

Le maggiori esigenze sono principalmente correlate all’aumento della spesa per difensori d’ufficio di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, passata da circa 271 milioni di euro dell’anno 2016 ai circa 323 milioni circa dell’anno 2017 e fino ai circa 366 milioni di euro dell’anno 2018 (comprensivi di IVA e cassa forense – dati consuntivi di spesa).

Le risorse a disposizione sono scarse e, parallelamente, le richieste di accesso al gratuito patrocinio sono aumentate. Con tutta probabilità, la situazione è destinata a esasperarsi a causa degli effetti dell’emergenza COVID sull’economia nazionale, che potrebbero portare a una più diffusa povertà e, quindi, a un ulteriore aumento delle richieste.

LE CONSEGUENZE SUL DIRITTO ALLA GIUSTIZIA

A subire le conseguenze di tale situazione sono, in primis, gli avvocati. Ma anche l’istituto stesso del gratuito patrocinio ne esce indebolito.

Il patrocinio a spese dello Stato è disciplinato dall’art.74 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002:

1. È assicurato il patrocinio nel processo penale per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria.
2. E’, altresì, assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate.

Gli avvocati che si prestano al gratuito patrocinio offrono una prestazione professionale con un alto valore sociale. Assicurare i loro compensi non è solo un atto di correttezza ‘contrattuale’, ma un punto fondamentale per mantenere in vita l’istituto e conseguentemente, come suggerisce la Sen. Rossomando, «garantire la piena applicazione del diritto alla difesa per tutti i cittadini indipendentemente dal reddito».

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PEC: dal 1° ottobre sanzioni per chi non comunica il domicilio digitale

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Come stabilito dal Decreto “Semplificazioni” (DL. 76/2020), dal 1° ottobre aziende e professionisti sono tenuti a comunicare il proprio indirizzo PEC, o meglio il proprio domicilio digitale, al Registro Imprese o all’ordine professionale di appartenenza.

Chi ha già comunicato il proprio indirizzo PEC valido al Registro Imprese o all’ordine professionale di riferimento è già in regola con l’obbligo di comunicazione e non deve preoccuparsi.
Vediamo ora cosa succede in caso di inadempimento.

DOMICLIO DIGITALE: IMPRESE INADEMPIENTI

Le imprese che non comunicano il proprio domicilio digitale rischiano le seguenti sanzioni economiche:
tra i 206 e i 2.064 €, per le società,
tra i 30 a 1548 € per le imprese individuali.

Va notato che il Registro Imprese può assegnare d’ufficio al soggetto inadempiente un domicilio digitale presso il cassetto digitale dell’imprenditore disponibile all’indirizzo impresa.italia.it. Questo domicilio sarà valido solo per ricevere comunicazioni e notifiche e sarà accessibile tramite identità digitale (SPID, CNS e CIE).

DOMICLIO DIGITALE: PROFESSIONISTI INADEMPIENTI

Per i professionisti iscritti a un albo non sono previste sanzioni economiche, ma l’ordine può diffidare il professionista ad adempiere all’obbligo entro 30 giorni e, in caso di ulteriore inadempienza, può sospendere il professionista fino alla comunicazione del domicilio digitale.

Per i professionisti non iscritti a ordini o collegi non sono previste sanzioni di alcun genere e possono pertanto continuare a non avere un domicilio digitale/indirizzo PEC.

COSA FARE

Per assicurarsi di essere in regola con l’obbligo di comunicare il proprio domicilio digitale bisogna:
– verificare di possedere un indirizzo PEC attivo e in regola,
– verificare l’iscrizione del domicilio digitale presso il Registro delle Imprese attraverso il cassetto digitale dell’imprenditore,
– verificare la presenza della propria attività sul sito www.registroimprese.it 

Nel caso non si fosse in possesso di una PEC, potete richiedere a Servicematica l’attivazione di una casella. Scopri di più sulla PEC Servicematica.

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Liquidazione del compenso dell’avvocato: nessuna decadenza nel gratuito patrocinio

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Quando va presentata l’istanza di liquidazione del compenso dell’avvocato nel gratuito patrocinio?
Esiste un termine preciso oltre il quale decade il diritto di presentare l’istanza?

RIGETTATA L’ISTANZA DI LIQUIDAZIONE DEL COMPENSO DELL’AVVOCATO

la Corte d’Appello rigetta la richiesta di liquidazione del compenso presentata da un avvocato per l’attività di difensore svolta a favore di un’azienda in fallimento ammessa al gratuito patrocinio.

La Corte fonda la sua decisione su una sua interpretazione dell’art. 83 comma 3 bis del DPR n. 115/200 che stabilisce che l’emissione del decreto di pagamento avviene contestualmente alla pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui si riferisce la richiesta. Nel caso in questione, la richiesta è stata presentata successivamente, quando ormai il giudice aveva perso la potestas iudicanti.

L’AVVOCATO DELLA PARTE AMMESSA AL GRATUITO PATROCINIO NON È L’AUSILIARIO

L’avvocato ricorre in Cassazione ritenendo errata l’interpretazione data dalla Corte d’Appello.

L’art. 83 infatti non fissa un termine preciso per la presentazione dell’istanza di liquidazione del compenso dell’avvocato difensore nel gratuito patrocinio, come avviene per il compenso dell’ausiliario che ha 100 giorni a sua disposizione dal compimento delle operazioni.

La Cassazione accoglie il ricorso, e con la sentenza n. 19733/2020 evidenzia che «l’art.83 per il quale il decreto di pagamento deve essere emesso dal giudice contestualmente alla pronuncia del provvedimento ha lo scopo di raccomandare la sollecita definizione delle procedure di liquidazione del compenso del difensore, senza tuttavia imporre alcuna decadenza a carico del professionista».

Dunque, «nel patrocinio a spese dello Stato non è prevista alcuna decadenza per l’avvocato che depositi l’istanza di liquidazione dei compensi in un momento successivo alla pronuncia».

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Il certificato medico inviato in ritardo motiva eventuali provvedimenti disciplinari, tra cui il licenziamento, perché configura l’assenza ingiustificata da parte del lavoratore.

Questo il principio ribadito dalla sentenza n. 18956/2020 della Cassazione.

IL CASO

Una lavoratrice non si reca a lavoro per malattia dal 3 ottobre al 2 novembre 2014 e nei giorni 8 e 9 febbraio 2015, ma il certificato medico giunge in ritardo all’azienda. La titolare procede con il licenziamento disciplinare a causa delle assenze ingiustificate.

Si procede per vie legali e la Corte d’Appello conferma l’assenza ingiustificata della lavoratrice tra il 3 e l’8 ottobre 2014, periodo non coperto dal certificato medico, giunto in ritardo, e ritiene adeguato il licenziamento, considerando l’esistenza di una precedente contestazione e una successiva ulteriore assenza ingiustificata nei giorni 8 e 9 febbraio 2015.

L’ASSENZA INGIUSTIFICATA LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO

La lavoratrice non accetta la decisione della Corte e ricorre in Cassazione sollevando quattro motivi. Tra questi, proprio il fatto che le sia stata contestata l’assenza ingiustificata nonostante avesse presentato la certificazione medica e che tale condotta sia stata erroneamente ritenuta rilevante ai fini del successivo licenziamento, sanzione considerata sproporzionata.

La Cassazione ritiene infondate tutte le lagnanze della lavoratrice e conferma quanto espresso dalla Corte territoriale, ovvero che «devono qualificarsi in termini di assenza ingiustificata i giorni di assenza risultati solo a seguito del tardivo invio di certificazione medica riconducibili a uno stato di malattia».

Ciò significa che la condotta della lavoratrice giustifica la legittimità del licenziamento deciso dall’azienda.

Qui il link al testo della sentenza n. 18956/2020 della Cassazione sul licenziamento legittimo in caso di assenza ingiustificata e certificato medico in ritardo.

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