diritti digitali e PA Servicematica

Come il ritardo tecnologico delle PA lede i diritti digitali dei cittadini

Nell’articolo “Diritti digitali, troppe PA li ignorano (in barba ai cittadini): una proposta cambiare le cose” pubblicato su Agenda Digitale, Mara Mucci, vicepresidente commissione di inchiesta sul digitale nella PA, esordisce dicendo:

“L’assenza di supporto e pianificazione nella trasformazione dei processi in chiave digitale porta al mancato rispetto dei diritti di cittadini e imprese, col crollo del Paese negli indici internazionali che misurano la digitalizzazione di economia e società.”

La pandemia ha digitalizzato la vita privata dei cittadini, il lavoro e le procedure delle aziende, ma la PA fatica ad adeguarsi, soprattutto a livello locale. Le normative a favore della digitalizzazione non mancano. Manca la loro attuazione. Le cause sono diverse: mancanza di competenze, formazione, strumenti, risorse.

MANCATA DIGITALIZZAZIONE E DIRITTI DIGITALI

Quando si pensa ai diritti di un cittadino, certamente l’accesso telematico ai servizi della PA non è la prima immagine che viene in mente.

Eppure, proprio la pandemia ci ha mostrato l’importanza di avere una dimensione digitale per “sopravvivere”. Considerando che alcune abitudini acquisite in questo periodo di limitazioni rimarranno anche a crisi superata, la digitalizzazione non può più essere considerata un’opzione, ma una necessità.

Ma come può la mancata digitalizzazione della PA ledere i diritti dei cittadini?

Sempre Mara Mucci porta un esempio:

“Il recente decreto semplificazioni (art. 24 del DL. 76/2020) ha indicato il 28 febbraio 2021 come giorno limite entro il quale doveva essere garantito al cittadino l’accesso ai servizi pubblici in rete attraverso l’uso di SPID o CIE, e doveva essere inibito il rilascio di credenziali di identificazione differenti da esse.
Ad oggi mancano all’appello parecchie PA e la legge non prevede sanzioni particolari per l’inadempienza.
Non sono stati individuati nemmeno obiettivi minimi riguardanti i servizi online che le amministrazioni devono fornire.”

Lo scenario paradossale che si sta venendo a creare è quello in cui i cittadini sono in possesso delle credenziali SPID per accedere ai servizi delle PA ma questi servizi online non esistono, impedendo loro di esercitare i loro diritti — comunicare con gli enti, portare avanti pratiche o richieste, ottenere prestazioni.

COSA SI PUÒ FARE?

Non servono grandi manovre per garantire una maggiore tutela dei diritti digitali dei cittadini. Partendo da ciò che già abbiamo, si può fare molto. Per esempio:

potenziare il ruolo del responsabile della transizione digitale, figura che guida la trasformazione digitale della PA, coordinando lo sviluppo di servizi pubblici digitali;
rafforzare e il ruolo del difensore civico, al quale i cittadini possono rivolgersi quando i loro diritti (anche quelli digitali) vengono lesi;
mettere in competizione le amministrazioni per responsabilizzare maggiormente la dirigenza e favorire performance migliori,
aumentare le competenze digitali dei cittadini e la consapevolezza dei loro diritti.

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Processo telematico: seconda PEC e deposito tardivo Servicematica

Processo telematico: seconda PEC e deposito tardivo

Nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, un’azienda propone un reclamo contro la sentenza di primo grado che aveva accolto l’impugnativa del licenziamento di un dipendente che aveva maturato i requisiti pensionistici.

La Corte di Appello dichiara inammissibile il reclamo.
La sentenza contestata è stata pubblicata e trasmessa via PEC ai procuratori costituiti il primo marzo 2018, mente il reclamo è stato depositato il 3 aprile 2018, quindi tardivamente perché oltre i 30 giorni stabiliti dall’art. 1, co. 58, L. n. 92 del 2012.

IL RICORSO

L’azienda ricorre in Cassazione, portando i seguenti motivi:

  • – il reclamo è stato depositato il 30 marzo 2018, pertanto non è tardivo. A testimonianza di ciò, la copia dei messaggi PEC generati dal deposito telematico, ricevuta di avvenuta consegna (RdAC) in primis. La RdAC si genera quando il messaggio con la busta telematica entra nella casella PEC del Ministero della Giustizia;
  • – la data del 3 aprile 2018 corrisponde al momento in cui la Cancelleria dell’ufficio giudiziario ha aperto la busta telematica del deposito;
  • – la sentenza ha violato l’art. 155, commi 4 e 5, c. p.c.: la Corte territoriale non ha considerato che il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione della sentenza cadeva il sabato precedente due festività (Pasqua e lunedì dell’Angelo), pertanto  anche un deposito effettuato il 3 aprile poteva considerarsi tempestivo.

IL DEPOSITO SI PERFEZIONA CON L’EMISSIONE DELLA SECONDA PEC

La Cassazione accoglie il ricorso (sentenza n. 12422 dell’11 maggio 2021).

Il deposito telematico si perfeziona infatti proprio con l’emissione della seconda PEC, la ricevuta di avvenuta consegna. Secondo l’art. 16 bis, comma 7 del d.i. n. 179 del 2012, partendo dalle disposizioni di cui all’art. 155, commi 4 e 5, c.p.c., il deposito è considerato tempestivo quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza.
Nel caso specifico, la Corte territoriale ha errato a valutare tardiva, e quindi inammissibile, l’impugnazione.

Inoltre, ha anche mancato di considerare quanto indicato dall’ultimo comma dell’art. 155 c.p.c., secondo cui, quando la scadenza dei termini cade di sabato è ammessa una proroga al primo giorno non festivo.

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Il 14 maggio scorso il CNF ha pubblicato sul proprio sito un comunicato relativo alle anticipazioni del Governo sulle riforme del processo penale e civile, considerate non adeguate.

Nel comunicato vengono riportate le parole della presidente Maria Masi, che spiega quale sia il limite delle proposte:

“La riforma della giustizia deve mirare ad un nuovo e rinnovato approccio di sistema. L’obiettivo perseguito, ossia la riduzione del 40% dei tempi del processo civile e del 20% di quelli del processo penale, così come richiesto dalla Commissione Europea […] non potrà, comunque, raggiungersi se oltre ad intervenire sulle regole del processo non si agisce coraggiosamente anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari, sugli investimenti funzionali e sulla carenza di organico di magistrati e personale amministrativo oltre che sull’equa responsabilizzazione di tutti gli operatori, compresi i magistrati”.

RIFORME DEL PROCESSO PENALE

Tra le varie misure previste dalle riforme del processo penale, vi è la riduzione dei tempi dei processi attraverso l’estensione dei riti alternativi. Fra questi, il patteggiamento permetterebbe il dimezzamento della pena, anziché la riduzione di un terzo. Verrebbero pero introdotti criteri più restrittivi per le impugnazioni in appello, insieme all’inappellabilità delle assoluzioni per i pm.

Per la prescrizione le strade potenziali sono due:
– riprendere la riforma Orlando (sospensione in appello di due anni invece che di un anno e mezzo, un anno di fermo in Cassazione, recupero del tempo in caso di sforamento);
– una soluzione ibrida tra prescrizione del reato, che si esaurirebbe con la richiesta di rinvio a giudizio, e improcedibilità per sforamento dei termini di fase, che ricadrebbe su tutti i gradi del processo.

RIFORME DEL PROCESSO CIVILE

Per quanto riguarda il processo civile, si punta al rafforzamento delle risoluzioni alternativa delle controversie, per arrivare a una situazione in cui la via giudiziale e stragiudiziale coesistano. 
È prevista l’estensione della mediazione obbligatoria, anche tramite incentivi fiscali, e della negoziazione assistita.

Altri emendamenti presentati riguardano: arbitrato, ufficio del processo, impugnazioni dei licenziamenti, creazione di un rito unificato per i procedimenti legati a famiglia e minori.

PERCHÈ LE RIFORME NON VANNO BENE

Il dubbio sollevato dal CNF è che le riforme tocchino solo i riti, ossia il risultato più immediato, e non la struttura del sistema. Ciò non permetterebbe di risolvere quei problemi a monte che causano una Giustizia lenta e non efficace.

Il rischio è che le riforme consentano sì una riduzione dei tempi ma a danno della tutela del diritto di accesso alla giustizia e alla difesa di tutti.

Ricordiamo che la riduzione dei tempi dei processi è richiesta dall’UE come condizione imprescindibile per l’erogazione dei fondi del Recovery Fund ed è quindi un nodo centrale da sciogliere per garantire un futuro al paese.

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L’innovazione tecnologica è un processo destinato a penetrare ogni settore, compreso quello della Giustizia. I primi passi sono già stati compiuti con l’introduzione del processo telematico e il COVID ha certamente accelerato la digitalizzazione di molti passaggi.

La figura dell’avvocato sarà inevitabilmente influenzata dai nuovi scenari che si prospettano, ma in che modo?

Già nel 2019 la Federation of Law Societies of Canada ha introdotto nel proprio codice di riferimento per i legali le competenze tecnologiche. All’epoca non sono stati pensati provvedimenti disciplinari in caso di violazioni di questo nuovo dovere. Nel frattempo Amy Salyzyn, professore associato dell’Università di Ottawa, ha individuato 6 caratteristiche dell’avvocato tecnologico.

Chiaramente il contesto italiano è diverso da quello canadese, ma vale comunque la pena prestare un po’ di attenzione a queste caratteristiche che potrebbero rappresentare un vantaggio competitivo per quegli avvocati più inclini ad adottarle.

LE 6 CARATTERISTICHE DELL’AVVOCATO TECNOLOGICO

Automazione

Automatizzare alcune fasi del proprio lavoro migliora l’efficienza, riduce gli sprechi di tempo e gli errori, genera migliori risultati.
L’automazione può riguardare la fatturazione elettronica, l’uso di database per l’archiviazione e la ricerca di fonti e riferimenti, l’uso di moduli o di sistemi di “filtraggio” della clientela.

Sicurezza

L’avvocato tecnologico deve essere consapevole dei rischi legati all’uso delle tecnologie. Deve essere in grado di implementare sistemi di sicurezza informatica per proteggere le proprie informazioni e quelle dei propri clienti.

Presenza online

È sicuro che alcune abitudini acquisite durante la pandemia non verranno messe da parte una volta terminata l’emergenza. Gli avvocati dovranno aumentare la propria presenza online, perché è ciò che i clienti, potenziali o già acquisiti, si aspettano.  Dovranno imparare a gestire piattaforme digitali per garantire la comunicazione e l’erogazione dei servizi. Dovranno essere al passo con le novità per non rimanere tagliati fuori.

Intelligenza artificiale

Con il tempo è possibile che la professione legale richieda l’uso di forme intelligenza artificiale, già peraltro in uso in altri ambiti della giustizia per “aiutare” le decisioni dei giudici, soprattutto all’estero.

Aggiornamento

Similmente a quanto detto per la presenza online, l’avvocato tecnologico deve essere aggiornato sulle tecnologie e gli strumenti digitali che costantemente vengono sviluppati. Questo aggiornamento non può essere solo teorico, ma deve essere anche bastato sull’uso diretto.

Etica

La conoscenza e l’uso delle tecnologie devono essere volti anche al miglioramento generale dell’amministrazione della giustizia, in modo da creare un sistema aperto, ordinato, imparziale.

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SMS e messaggi WhatsApp sono considerati prove? Rientrano nella categoria delle intercettazioni?

Con la sentenza n. 17552/2021 la Cassazione si esprime nuovamente in materia.

IL CASO

Un giudice conferma la sentenza di primo grado di un imputato accusato dei reati di danneggiamento seguito da incendio (art 424 c.p comma 1) e atti persecutori (612 bis commi 1 e 2), e lo condanna al risarcimento dei danni in favore della vittima, l’ex compagna, costituitasi parte civile.

La sentenza giunge anche dopo l’analisi degli messaggi prodotti in foto dalla vittima.

L’imputato però ricorre, portando 3 motivi. Tra questi, il rigetto della richiesta di maggiori accertamenti tecnici volti a dimostrare l’autenticità dei messaggi portati dall’ex compagna.

SMS E MESSAGGI WHATSAPP SONO DOCUMENTI

La Cassazione ritiene il ricorso inammissibile.

Come già detto, la Corte già in passato si era espressa sulla validità di SMS e messaggi WhatsApp conservati nella memoria di un cellulare, indicando che sono considerati documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p.

La loro acquisizione tramite fotografia è pertanto legittima, poiché non rappresenta la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, ma la documentazione di un flusso già avvenuto. Ad essi non può quindi applicarsi né la disciplina delle intercettazioni, né quella sull’acquisizione della corrispondenza secondo l’art. 254 c.p.p.

A maggior conferma della sentenza del caso specifico vi è anche il fatto che lo stesso imputato ha ammesso l’autenticità dei messaggi.

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Sostituire il difensore assente? Potrebbe ledere il diritto di difesa

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Cosa succede se un avvocato non riesce a partecipare all’udienza camerale perché non è in grado di collegarsi telematicamente? Può essere sostituito? Se sì, viene forse leso il diritto di difesa?

IL CASO

Un Tribunale rigetta un’istanza per la concessione della detenzione domiciliare. Il richiedente ricorre e chiede l’annullamento della decisione sostenendo la violazione degli articoli 178 lett. c) e 179 del codice di procedura penale.

Secondo il ricorrente, il Tribunale ha sbagliato nel nominare un difensore d’ufficio durante l’udienza di trattazione a causa dell’assenza del suo difensore di fiducia, impossibilitato a connettersi telematicamente.

IL DIRITTO DI DIFESA E LA PRESENZA INDISPENSABILE DELL’AVVOCATO

Cosa dicono gli articoli citati dal ricorrente?

L’art. 178 c.p.p lett. c) indica che è sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni che riguardano “l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante.

L’art. 179 c.p.p. invece indica che:
“1. Sono insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullità previste dall’articolo 178 comma 1 lettera a), quelle concernenti l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e quelle derivanti dalla omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza.

2. Sono altresì insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge.”

A partire da questi presupposti, la Corte di Cassazione accetta il ricorso.

Il procedimento di esecuzione e quello di sorveglianza sono infatti regolati dagli artt. 666 e 678 cod. proc. pen. Pertanto, “la partecipazione del difensore di fiducia già nominato è necessaria ed obbligatoria con la conseguenza che l’eventuale udienza tenuta in presenza del difensore d’ufficio, nominato in sostituzione di quello di fiducia, determina la nullità della predetta udienza nonché degli atti successivi compresa l’ordinanza conclusiva, ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 179 cod. proc. pen.”

Nel caso delle udienza camerali, il pubblico ministero e il difensore sono considerate figure indispensabili al garantire rispetto del diritto di difesa, anche se non vi è una disciplina specifica su questo tema. Il Tribunale in questione però non ha considerato questo elemento, data la natura camerale del procedimento.

Il Tribunale ha dunque sbagliato a nominare un difensore d’ufficio in sostituzione di quello di fiducia. L’inevitabile conseguenza è l’annullamento dell’ordinanza e il rinvio a un nuovo giudizio.

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Le PA non sono tenute a rispettare sempre l’equo compenso

 

equo compenso

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Dopo aver fornito loro tutti i documenti legati alla causa da intraprendere, il Comune di Cernusco sul Naviglio (Mi) chiede a cinque avvocati i preventivi con l’intento di affidare a uno di loro l’incarico.

Dopo aver visionato le proposte ricevute, il Comune affida il lavoro all’avvocato più conveniente.

Uno degli avvocati che si sono visti rifiutare il preventivo ricorre perché, secondo lui, la scelta del Comune ha violato il principio dell’equi compenso. La somma prevista dal preventivo vincitore risulta infatti inferiore persino ai parametri minimi sanciti dal DM Giustizia n. 55/2014.

IL RICORSO

Secondo l’avvocato ricorrente, il Comune avrebbe violato:

– quanto disposto dagli artt. 13-bis, legge n. 247/2012, e 19-quaterdecies, co. 3, del DL n. 148/2017, che impongono alle PA il rispetto del principio dell’equo compenso nel caso di conferimenti di incarichi a  professionisti. Questo perché il Comune ha considerato due preventivi nettamente “a ribasso”;

– artt. 4, 17 e 95, comma 3, del dlgs n. 50/2016, per aver seguito il criterio del prezzo più basso nell’affidare un incarico basato su una prestazione intellettuale.

Il Tar Lombardia Sezione 1 respinge il ricorso.

Poiché il Comune ha fornito i documenti relativi alla causa, gli avvocati hanno avuto la possibilità di valutare la propria proposta economica, e la sua convenienza, in base all’effettiva entità del lavoro richiesto.

Il Comune ha poi effettuato una semplice procedura comparativa, senza la necessità di tener conto del principio dell’equo compenso.

EQUO COMPENSO E PA

Nella sentenza n. 1071/2021 si legge:

La disciplina dell’equo compenso non trova applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti o, nelle fattispecie di formazione della volontà dell’amministrazione secondo i principi dell’evidenza pubblica, ove l’ amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare.”

La Pa non è tenuta “sempre e comunque a corrispondere al professionista incaricato di un servizio legale un compenso non inferiore al minimo dei parametri stabiliti dal decreto ministeriale, anche ove il compenso non sia imposto unilateralmente o non si ravvisi un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista, non può dunque essere accolta”.

Il TAR non concorda nemmeno con l’idea sostenuta dal ricorrente che la mancata applicazione del principio dell’equo compenso comporti il rischio di giungere a prestazioni di basso livello, poiché, indipendentemente dal prezzo, vige sempre il dovere di diligenza da parte del professionista, come indicato dall’art 1176 c.c. comma 2.

Anche il criterio comparativo adottato dal Comune non è contestabile, poiché segue l’orientamento dell’Anac secondo cui gli incarichi legali sono affidati valutando l’offerta economicamente più vantaggiosa. Ciò però non mette in discussione la preparazione e la serietà degli avvocati a cui è stata chiesto il preventivo. In sostanza, i principi di economicità, di efficacia e di proporzionalità non sono violati.

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A breve si decideranno le sorti del processo penale e della prescrizione ed è in questo contesto di prossime riforme che Matteo Salvini propone il referendum sulla giustizia.
Il leader leghista ha dichiarato:

«Questo Parlamento con Pd e 5 stelle non farà mai una riforma della giustizia, perciò stiamo organizzando con il Partito radicale una raccolta di firme per alcuni quesiti referendari»

E ancora:

«Se i partiti non troveranno un accordo in Parlamento su riforme necessarie e urgenti, saranno i cittadini a farlo, tramite referendum»

I CONTENUTI DEL REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA

Salvini ha indicato chiaramente i temi del referendum sulla giustizia:

«La responsabilità penale dei magistrati, perché qualunque lavoratore che sbaglia, paga, tranne in aula di tribunale; la separazione delle carriere; la cancellazione della legge Severino».

LE REAZIONI ALL’IPOTESI DI UN REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA

Eugenio Albamonte, segretario di Area, corrente progressista dei magistrati, ha così commentato l’idea del referendum sulla giustizia:

«Vedo scarsa materia di referendum. Forse, guarda caso, l’unica materia che si presta a un quesito referendario è la legge Severino, che non è una cosa che riguarda la magistratura ma la politica. Mettere insieme questi temi significa soprattutto cercare di trovare l’occasione per svincolare i politici dalla Severino e dalle conseguenze di eventuali condanne
[…]
Per il resto la responsabilità civile dei magistrati c’è, esisteva già ed è stata modificata da Renzi; non si può intervenire su questo se non con un referendum propositivo, e allora si torna alla parola al Parlamento, quindi tanto vale lavorare adesso lì.
[…]
Sulla separazione delle carriere la raccolta delle firme è già stata fatta, c’è una proposta in Parlamento, c’è un percorso avviato»

Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Pd, sostiene invece che «la riforma della Giustizia si farà prima del Referendum».

LA LEGGE SEVERINO

La legge n.190 del 6 novembre 2012 è nata dopo le rilevazioni dell’UE e dell’OCSE sull’impatto della corruzione nei diversi paesi. Le stime hanno posto l’Italia al terzo posto dei paesi OSCE più corrotti. Una situazione che all’epoca costava già 60 miliardi di euro l’anno.

La Legge Severino mira dunque a limitare la corruzione e la concussione, introducendo l’ineleggibilità, la sospensione, la decadenza e l’incandidabilità di quei soggetti “a rischio”. In particolare:

i condannati per concussione non sono considerati idonei a ricoprire cariche nella Pubblica Amministrazione o cariche politiche;

chi è stato condannato a più di due anni di reclusione per reati punibili almeno fino a quattro anni non può essere considerato eleggibile o cangiabile;

una carica comunale, regionale e parlamentare può essere sospesa in caso di condanna, anche quando questa avviene dopo la nomina. La condanna può essere anche non definitiva e la sospensione che può durare fino a 18 mesi;

chi è stato condannato per corruzione non può essere candidato a cariche negli enti locali, nel Parlamento italiano e nel Parlamento Europeo.

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A seguito di un esposto al Consiglio dell’Ordine da parte di un ex-superiore, un avvocato vede diffuse alcune informazioni personali, relative a precedenti sanzioni disciplinari, sempre annullate. L’avvocato, convinto che la tale condivisione di informazioni private fosse finalizzata a screditare la sua reputazione, chiede la condanna dell’ex-superiore e un risarcimento.
La vicenda però giunge fino in Cassazione.

IL TRATTAMENTO DELLE INFORMAZIONI PERSONALI

L’ex-superiore sostiene che la mancata tutela del diritto di riservatezza non ricada su di lei ma sul responsabile del trattamento dati, nel caso specifico il Presidente del tribunale.

La Corte però respinge questa visione, sostenendo che si applichi l’art. 15 Codice della Privacy nella versione ratione temporis (articolo abrogato dall’art. 27 c. 1, lett. a), n. 2), d.lgs. 101/2018), che dispone:

“chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”.

In sostanza, il danno è responsabilità di chi lo commette a prescindere che sia o meno responsabile del trattamento.

L’ex superiore sostiene però che la comunicazione delle informazioni personali dell’avvocato non violi l’art. 15 d. lgs. 196/2003, poiché è avvenuta in un ambiente circoscritto (il Consiglio dell’Ordine).

La Corte rigetta anche questa visione.
Sebbene “il trattamento delle informazioni personali effettuato nell’ambito di un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in relazione ad una asserita condotta deontologicamente scorretta posta in essere da un legale” sia lecito, è anche vero che questa condotta deve rispettare il criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali.

IL CRITERIO DI MINIMIZZAZIONE NELL’USO DEI DATI PERSONALI

Secondo queso criterio, quando si ha a che fare con dati personali altrui, si possono utilizzare solo quelli indispensabili, pertinenti e necessari al perseguimento delle finalità per cui sono stati raccolti e trattati (principi affermati anche dal GDPR all’art. 5, lett. c)

Nel caso specifico, la divulgazione delle informazioni relative ai procedimenti disciplinari nei confronti dell’avvocato non risulta pertinente allo scopo per i quali quei dati erano stati trattati. Al contrario, il loro uso da parte dell’ex-superiore risulta perpetrato proprio per minare l’immagine dell’avvocato.

L’ordinanza del 26 aprile 2021 n. 11020 della Corte di Cassazione spiega chiaramente che:

“non è ostativa all’integrazione della violazione dell’art. 15 codice della privacy la mera circostanza che la divulgazione della notizia riservata avvenga nel contesto di un procedimento di rilevanza pubblica, risultando comunque illecita la comunicazione dei dati personali non pertinente ed eccedente le finalità per cui essi sono raccolti e trattati”.

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Riportiamo alcuni contenuti dell’interessante articolo “Giustizia decentrata in 26 poli responsabili di governance e budget” apparso su Il Sole 24 Ore il 22 aprile scorso.

Un gruppo di magistrati, dirigenti, avvocati e docenti universitari vuole utilizzare i fondi del Next Generation Ue per realizzare dei progetti che rendano la giustizia una “risorsa e non un freno alla crescita”.

DECENTRAMENTO: I POLI GIUDIZIARI

Una delle proposte più interessanti riguarda l’organizzazione giudiziaria decentrata.

Il decentramento si realizza con «la costituzione di un livello intermedio tra attori centrali e uffici locali». Si tratta di poli giudiziari territoriali che coincidono con i 26 distretti delle corti d’appello.

I poli hanno il compito di assicurare un uso adeguato delle risorse assegnate ai vari uffici giudiziari sul territorio.

Come funzionano i poli

Ogni polo è gestito da un Consiglio che riunisce tutti i capi degli uffici giudiziari territoriali ed è coordinato dal presidente di corte di appello.

I singolo polo ha autonomia operativa ma anche doveri di accountability.

Le risorse a disposizione del polo sono finanziarie e di personale (togato e non togato), necessarie alla gestione dell’organizzazione, della logistica, dello sviluppo digitale e tecnologico.
Il polo riceve anche le somme derivanti dal recupero crediti e dalle sanzioni e  ha il dovere di rendicontare le spese attraverso gli strumenti di bilancio, di programmazione, controllo di gestione e di valutazione più idonei.

I piani d’azione

La distribuzione di risorse ai poli e la definizione di loro obiettivi si basano su piani d’azione triennali, con obiettivi e performance attese, soggetti a monitoraggio e valutazione periodici anche da parte di soggetti indipendenti, e accompagnati da un sistema di incentivi.

I piani di azione sono stesi dai poli giudiziari a partire dalle linee guida e le priorità elaborate da Csm e ministero della Giustizia. Il ministero definisce il budget massimo disponibile a livello nazionale e a livello dei singoli poli.
Sempre il ministero approva il piano, in base anche al parere del Csm.

I poli stabiliscono i budget degli uffici giudiziari e approva i loro piani di gestione e sviluppo.

DIGITALIZZAZIONE DEL PROCESSO

Un’altra proposta riguarda il superamento degli attuali modelli processuali cartacei a favore di un unico rito di cognizione digitale, che sia «non solo coerente con le tecnologie oggi disponibili, ma anche trasparente, garantito, semplice, unitario e flessibile, lasciando agli attori professionisti del processo la responsabilità di scegliere il percorso più efficace».

Questo nuovo rito digitale porta all’eliminazione, o quanto meno alla riduzione, dei tempi morti che incidono sull’attuale eccessiva durata dei processi. Parte di questo risultato deriva dall’automazione di quelle fasi a basso contenuto giuridico, impiegando così le professionalità umane nelle elaborazioni concettuali e nella fase di decisione.

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Servicematica

Nel corso degli anni SM - Servicematica ha ottenuto le certificazioni ISO 9001:2015 e ISO 27001:2013.
Inoltre è anche Responsabile della protezione dei dati (RDP - DPO) secondo l'art. 37 del Regolamento (UE) 2016/679. SM - Servicematica offre la conservazione digitale con certificazione AGID (Agenzia per l'Italia Digitale).

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