Il danno da occupazione abusiva di un immobile non può essere risarcito “a sensazione” né colmato con stime generiche. Lo ha ribadito con fermezza la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21607 depositata il 28 luglio 2025, ponendo un freno alle liquidazioni equitative non sorrette da un’adeguata base probatoria. Il principio, già tracciato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, viene oggi rilanciato nel contesto di una vicenda che si trascina da oltre trent’anni e che torna nuovamente davanti alla Corte d’Appello di Firenze.
Il caso: occupazioni, inerzie e risarcimenti
La controversia ha origine nei primi anni ’90, quando decine di appartamenti di proprietà di due società immobiliari furono occupati da appartenenti al “Movimento per la casa”. Le società avevano chiesto il risarcimento dei danni al Ministero dell’Interno, accusando l’Amministrazione di non aver dato esecuzione all’ordine di sgombero emesso dalla Procura.
Nel 2021, in sede di rinvio dopo un primo passaggio in Cassazione, la Corte d’appello di Firenze aveva accolto le ragioni delle società, condannando il Ministero a risarcire 625mila euro, calcolati in via equitativa. Ma il Ministero ha impugnato nuovamente la sentenza, contestando i presupposti della liquidazione.
La decisione della Suprema Corte: “Nessuna liquidazione equitativa senza prova del danno”
Accogliendo il ricorso, la Terza sezione civile ha stabilito due principi chiave:
- La liquidazione equitativa è possibile solo se il danno è certo nella sua esistenza. Non basta allegare genericamente una lesione del diritto di proprietà: serve dimostrare che da quella lesione è derivato un pregiudizio concreto e specifico.
- La stima equitativa non può basarsi su valutazioni arbitrarie. Il giudice deve indicare nella motivazione il valore di riferimento da cui ha preso le mosse, spiegando i criteri con cui ha condotto la quantificazione. In mancanza di questi elementi, la motivazione è da considerarsi apparente.
La Cassazione, richiamando il consolidato orientamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 33645/2022), ha chiarito che non è sufficiente il semplice fatto dell’occupazione per far scattare un diritto al risarcimento. La perdita del godimento del bene, per essere risarcibile, va dimostrata con elementi puntuali: ad esempio, documentando la volontà concreta di vendere o affittare gli immobili, o allegando i dati contabili a supporto della perdita patrimoniale.
Gli errori della Corte d’appello: motivazione assente e calcolo opaco
La Corte ha criticato duramente la sentenza d’appello per essersi limitata a una generica affermazione d’impossibilità nel determinare il danno. In particolare, i giudici di merito avevano ammesso:
- di non sapere se gli immobili sarebbero stati destinati alla vendita o alla locazione;
- di non avere riscontri su eventuali affitti precedenti o successivi all’occupazione;
- di non aver esaminato la documentazione contabile delle società.
A ciò si aggiunge un altro vizio: la Corte d’appello ha liquidato un danno che incorporava capitale, rivalutazione monetaria e interessi compensativi senza indicare il criterio per la loro separazione, né il tasso di interesse applicato, né il periodo di riferimento. Un’imprecisione che ha reso impossibile ricostruire il ragionamento seguito dal giudicante.
Una vicenda emblematica: trent’anni di contenzioso
A distanza di tre decenni dall’inizio della vertenza, il procedimento fa così ritorno alla Corte d’appello di Firenze, per una nuova pronuncia nel rispetto dei principi fissati dalla Cassazione. L’ordinanza non entra nel merito dell’esistenza del danno, ma impone una rigorosa verifica probatoria e argomentativa, che il giudice di rinvio sarà chiamato a rispettare.
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