Notifiche fiscali, la prova arriva dal tracciato informatico delle raccomandate

Milano – Una pagina di tracciamento online non basta, ma il tracciato informatico ufficiale di Poste Italiane sì. Con la sentenza n. 1305/25/2025, depositata il 19 maggio, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia ha chiarito che la notifica di un avviso di liquidazione può dirsi validamente perfezionata per compiuta giacenza quando l’ufficio produce il documento estratto dal sistema informatico postale, che descrive l’attività del portalettere e l’avvenuto deposito dell’avviso nella cassetta del destinatario.

Il caso

Un contribuente aveva impugnato una cartella di pagamento, sostenendo che l’atto presupposto – l’avviso di liquidazione – non fosse mai stato notificato. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione, osservando che l’amministrazione si era limitata a produrre la stampa della tracciatura online della raccomandata, priva di valore probatorio perché non attestava l’inserimento dell’avviso di giacenza.

L’ufficio ha fatto appello, spiegando di avere effettuato la notifica con raccomandata ordinaria, con due tentativi di consegna andati a vuoto e con l’inserimento in cassetta degli avvisi di giacenza. A sostegno ha depositato il tracciato informatico dettagliato della spedizione, generato da Poste Italiane.

La decisione

I giudici di secondo grado hanno accolto l’appello. Hanno ricordato che, secondo giurisprudenza costante della Cassazione (tra cui ordinanza n. 37148/2021), la cartella di pagamento deve essere preceduta dall’avviso di liquidazione. La validità di quest’ultimo dipende quindi dall’esito della notifica.

Il collegio ha ritenuto sufficiente e idonea la prova prodotta in appello: il tracciato informatico non solo riporta il percorso della raccomandata, ma attesta in modo puntuale l’attività svolta dal portalettere, compreso il deposito dell’avviso nella cassetta postale. Tale documento è stato ritenuto ammissibile anche in fase di appello, ai sensi dell’articolo 58 del Dlgs 546/1992.


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Vigneti e uliveti, il nuovo bene rifugio dei grandi patrimoni

La finanza vacilla, la terra resiste. Nel 2025 cresce l’appeal dei vigneti e degli uliveti come nuovo bene rifugio per gli High Net Worth Individuals (Hnwi), i grandi investitori internazionali. Un trend che non riguarda solo l’Italia ma si estende a Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, dove il mercato immobiliare agricolo di lusso è trainato da un mix di fattori: redditività stabile, incentivi fiscali, domanda globale di vino e olio premium e, soprattutto, uno stile di vita legato alla natura e alle tradizioni.

Toscana e Piemonte sul podio

Secondo l’ultima indagine di Knight Frank, in Italia il Barolo e il Brunello di Montalcino segnano un +5% sul 2024, mentre Bolgheri e Chianti Classico crescono del 3%. A livello europeo spiccano la Loira (+5%) e la Champagne (+2%), mentre Bordeaux (-4%) e Côtes du Rhône (-10%) mostrano segni di rallentamento.

La Toscana si conferma tra le mete più richieste, terza nella top 5 delle destinazioni extra urbane più ambite, seguita dal Piemonte. Accanto alla vocazione produttiva, queste regioni offrono anche un valore esperienziale fatto di agriturismo, ospitalità di lusso e produzioni biologiche, elementi che attraggono soprattutto investitori anglosassoni e nordamericani.

Prezzi da record e nuove strategie

I numeri parlano chiaro: un ettaro di vigna in Toscana o in Provenza può superare i 100mila euro, mentre in aree emergenti come l’Andalusia restano accessibili intorno ai 5mila euro. Le bottiglie dei marchi più prestigiosi oscillano tra i 30 e i 150 euro, mentre l’olio extra vergine premium tocca i 30 euro al litro, spinto dalla crescita della domanda internazionale.

Il fenomeno si lega anche al trend del “try before you buy”, sempre più diffuso: gli acquirenti testano una destinazione con l’affitto di una tenuta prima di investire nell’acquisto definitivo.

Tra incentivi e identità

Gli incentivi europei per l’agricoltura biologica e regimi fiscali agevolati sul capital gain agricolo rendono l’investimento ancora più interessante. Ma, oltre alla redditività, ciò che spinge i grandi patrimoni a puntare sul settore è la dimensione identitaria: una tenuta agricola come progetto di vita e di famiglia, capace di unire ritorni economici, sostenibilità e qualità della vita.


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L’avvocato digitale: formazione obbligatoria e nuovi rischi con l’AI

L’intelligenza artificiale è entrata stabilmente negli studi professionali, dagli avvocati ai consulenti fiscali, dagli ingegneri agli architetti. Le potenzialità sono enormi, ma insieme alle opportunità crescono anche i rischi: tecnici, giuridici, etici e reputazionali. Il messaggio che arriva dall’AI Act, il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, è chiaro: non si tratta solo di usare nuovi strumenti, ma di costruire una cultura digitale consapevole, capace di comprendere il funzionamento degli algoritmi e di rispettare un quadro normativo complesso.

Formazione obbligatoria: tre dimensioni da conoscere

Il regolamento europeo stabilisce di fatto un obbligo formativo per fornitori e utilizzatori di sistemi di AI. La formazione dovrà coprire tre aree fondamentali:

  • Tecnica: capire come funzionano gli algoritmi, riconoscere bias e limiti del machine learning.
  • Giuridica: conoscere le regole di AI Act, GDPR e normative nazionali, comprese le responsabilità per eventuali violazioni.
  • Etica: prevenire discriminazioni, garantire equità e tutelare la dignità delle persone.

Per i professionisti significa non accettare passivamente le soluzioni tecnologiche, ma valutarne criticamente l’impatto, documentando scelte e conseguenze.

Trasparenza verso clienti e utenti

Altro principio cardine dell’AI Act è la trasparenza. Chi sviluppa o fornisce sistemi di intelligenza artificiale deve spiegare in modo chiaro obiettivi, logiche di addestramento e rischi connessi. Gli studi professionali che adottano queste tecnologie devono a loro volta informare i clienti, rendendoli consapevoli del modo in cui i loro dati vengono trattati.

Il Parlamento italiano, con il disegno di legge sull’intelligenza artificiale in discussione, introduce un ulteriore passo: l’obbligo di informativa preventiva al cliente sull’uso di strumenti di AI. Un vincolo che si affianca alla necessità di mantenere un rapporto fiduciario basato sulla massima chiarezza.

La responsabilità non si delega al fornitore

L’utilizzo di piattaforme sviluppate da terzi non solleva gli studi dalle proprie responsabilità. Al contrario, la fase pre-contrattuale diventa cruciale: bisogna analizzare documentazione tecnica e contrattuale, verificare il livello di rischio del sistema (minimo, limitato, alto o inaccettabile), controllare le misure di cybersecurity adottate e chiedere al fornitore test documentati su bias e discriminazioni.

La conformità al GDPR è un altro tassello obbligato: serve valutare se il trattamento dei dati è lecito, effettuare una DPIA (valutazione d’impatto sulla protezione dei dati) quando necessario e verificare che l’anonimizzazione sia reale e dimostrabile.


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Avvocati, cambia l’accesso alla professione: pratica in studio e nuovo esame di Stato

Roma – Un ritorno alle origini, ma con strumenti aggiornati. È questa la filosofia che anima il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento forense, approvato il 4 settembre dal Consiglio dei ministri e destinato a sostituire la legge professionale 247/2012. Al centro, due nodi cruciali: il tirocinio obbligatorio e il nuovo modello di esame di Stato.

Il tirocinio: 18 mesi tra pratica e formazione

Il testo conferma la durata di 18 mesi continuativi, da svolgere principalmente presso lo studio di un avvocato, l’Avvocatura dello Stato o l’ufficio legale di un ente pubblico. L’esperienza dovrà garantire l’apprendimento delle competenze tecniche necessarie a esercitare la professione e a gestire uno studio, senza trascurare i principi etici e le regole deontologiche.

Accanto alla pratica, diventa obbligatoria la frequenza a corsi di formazione professionale della durata di 18 mesi, organizzati da scuole forensi accreditate, ordini professionali o università. Previsti anche periodi all’estero, fino a sei mesi, presso studi legali di Paesi Ue, o in parte durante l’ultimo anno di università. Vengono invece esclusi percorsi alternativi come gli stage in tribunale, oggi in parte riconosciuti come equivalenti.

«Chi vuole fare l’avvocato deve formarsi nello studio di un legale», osserva Francesco Napoli, vicepresidente del Consiglio nazionale forense. «La riforma intende restituire autorevolezza alla professione, assicurando una preparazione più solida ai giovani».

L’esame di Stato: due scritti e un orale

Sul fronte dell’esame, la riforma introduce un modello a due prove scritte e una orale. Gli scritti consisteranno in un parere motivato e in un atto giudiziario, entrambi in una materia scelta dal candidato tra diritto privato, penale e amministrativo. Si svolgeranno in presenza, con modalità di videoscrittura e l’uso di codici annotati con la giurisprudenza.

La prova orale si articolerà in tre momenti: illustrazione delle prove scritte, discussione di un caso pratico e colloquio su procedura civile e penale, diritto civile e penale, ordinamento e deontologia forense, più due materie a scelta del candidato tra diritto amministrativo, commerciale, costituzionale, del lavoro, tributario, ecclesiastico ed europeo.

Una riforma attesa da anni

Dal 2012 ad oggi, il percorso di accesso alla professione è stato oggetto di continue proroghe e modifiche. Il vecchio modello a tre scritti e un orale non è mai entrato a regime: la pandemia ha introdotto prove orali straordinarie, poi sostituite da formule ibride prorogate fino al 2024.

Anche i numeri riflettono il cambiamento: dai 22.750 candidati del 2020 si è scesi ai 10.316 del 2024, con tassi di successo oscillanti tra il 46 e il 52%. Ora, con la delega, si punta a un assetto definitivo che riduca incertezze e valorizzi le competenze pratiche.

Tempi e prospettive

Il provvedimento dovrà ora affrontare l’iter parlamentare e sarà seguito dall’emanazione dei decreti legislativi, previsti entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Se il cronoprogramma sarà rispettato, le nuove regole potrebbero entrare in vigore già per le prossime sessioni d’esame.


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Scuole: metà degli edifici senza agibilità

Roma – A venticinque anni dalla prima edizione, il report Ecosistema Scuola di Legambiente restituisce l’immagine di un sistema scolastico che fatica a uscire dalle sue fragilità strutturali. L’analisi, che ha coinvolto 97 Comuni capoluogo su 112, coprendo oltre 7mila edifici, fotografa un’Italia in cui meno della metà delle scuole ha il certificato di agibilità e solo il 45% dispone del collaudo statico.

Nonostante decenni di finanziamenti straordinari – dalla Buona Scuola al PNRR – e programmi di edilizia scolastica, il 54,8% degli edifici in zone sismiche non ha mai effettuato una verifica di vulnerabilità e meno del 15% è stato progettato o adeguato alle normative antisismiche.

Solai, manutenzione e fondi frammentati

Un capitolo delicato riguarda i solai: solo il 31,2% degli edifici è stato sottoposto a diagnosi negli ultimi cinque anni, e appena il 10,9% ha visto interventi di messa in sicurezza. Le differenze regionali sono marcate: al Sud la percentuale sale al 17%, mentre nel Centro si ferma al 7,7%.

Sul fronte della manutenzione, i numeri parlano chiaro. Nel 2024 i fondi per interventi straordinari sono scesi a 39.648 euro di media nazionale, ma la spesa effettiva si è fermata a 29mila euro. Al Nord le risorse sono più consistenti (oltre 41mila euro), mentre Sud e Isole restano molto indietro, con appena 5mila euro a edificio. Anche la manutenzione ordinaria arranca: la media si ferma a 8.338 euro annui.

Secondo Claudia Cappelletti, responsabile scuola di Legambiente, il problema non è solo economico ma organizzativo: «Da anni vengono stanziati fondi, ma restano frammentati tra diverse fonti e livelli di governo. Questo genera dispersione e ostacola la pianificazione strategica».

L’Italia poco sostenibile: tra energia e rinnovabili

Se la sicurezza resta il primo allarme, la sostenibilità ambientale non è da meno. Solo il 16% degli edifici ha beneficiato di interventi di efficientamento energetico, e appena il 6,5% è in classe A. La maggioranza schiacciante (66,6%) ricade ancora nelle classi E, F e G.

Paradossale la situazione sul fronte delle fonti rinnovabili: nonostante il sole della penisola, solo il 21% delle scuole utilizza impianti green, con punte minime nelle Isole, ferme al 10,8%.

Amianto e DVR: un quarto di secolo dopo, i nodi restano

L’edizione 2025 del report ha integrato i dati dell’Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica, che fotografa oltre 39mila edifici pubblici. Solo nel 79,6% dei casi è presente il Documento di valutazione dei rischi (DVR) previsto dal Dlgs 81/2008.

Lo sguardo sul lungo periodo è impietoso: nel 2004 il 16% delle scuole conviveva con l’amianto; oggi, dopo vent’anni, la percentuale è scesa solo al 10%.

Legambiente: serve una strategia di lungo periodo

Per Elena Ferrario, presidente scuola e formazione di Legambiente, la risposta non può più essere episodica: «Servono programmazione stabile, manutenzione ordinaria come pilastro della prevenzione, più rinnovabili e un Osservatorio sull’edilizia scolastica funzionante come luogo di co-programmazione».


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Esplode il contenzioso sul lavoro pubblico: scuola, sanità ed enti locali guidano la corsa alle cause

Il contenzioso in materia di lavoro e previdenza continua a crescere, trainato soprattutto dal pubblico impiego. Nel 2024 i tribunali italiani hanno registrato 77.941 cause avviate da dipendenti della Pubblica amministrazione, contro le meno di 20mila del 2019: un incremento di oltre il 290% in cinque anni.

Il dato emerge dal sesto rapporto annuale del Ministero della Giustizia, confermato anche dal monitoraggio dei principali tribunali nei primi mesi del 2025. Complessivamente, i procedimenti di lavoro e previdenza iscritti nel 2024 sono stati 314.288, con un aumento dell’11,7% rispetto al 2023 e del 3,2% oltre i livelli pre-Covid.

La scuola, epicentro della conflittualità

La parte più consistente delle liti arriva dal mondo scolastico. Negli ultimi anni il contenzioso si è trasformato: dalle cause individuali per titoli e graduatorie si è passati a ricorsi seriali su quattro questioni principali:

  • Carta del docente anche per i precari;
  • indennità per ferie non godute ai docenti con contratto a termine;
  • ricostruzione di carriera senza il “vuoto” del 2013, anno del blocco degli stipendi;
  • riconoscimento del servizio prestato nelle scuole paritarie.

La Corte di giustizia dell’UE ha recentemente confermato la legittimità della normativa italiana che distingue tra esperienza maturata in scuole statali e paritarie, ridimensionando così parte del contenzioso. La Cassazione, invece, ha riconosciuto il diritto alla Carta del docente anche ai precari e, con le sentenze 14268/2022 e 16715/2024, ha stabilito che i docenti a termine hanno diritto alla monetizzazione delle ferie non fruite se il datore di lavoro non ha garantito condizioni adeguate per usufruirne.

Sanità ed enti locali: altri fronti caldi

Secondo l’avvocata Aurora Notarianni, responsabile dell’ufficio di direzione dell’Agi (Associazione giuslavoristi italiani), l’ondata di cause non riguarda solo la scuola. Nella sanità pesano i ricorsi legati all’uso massiccio di straordinari in un contesto di grave carenza di personale. Negli enti locali, invece, dopo le stabilizzazioni avviate con la legge Madia, molti lavoratori socialmente utili chiedono il passaggio dal part-time al tempo pieno. A ciò si aggiungono le liti nelle società partecipate, che gestiscono servizi cruciali come trasporti e assistenza sociale.

Il peso sul lavoro dei tribunali

Il contenzioso del lavoro rappresenta una fetta significativa dell’attività giudiziaria civile. Nel 2024 i procedimenti di lavoro e previdenza hanno costituito il 14% delle nuove cause civili. Se si includono gli accertamenti tecnici preventivi per il riconoscimento delle invalidità previdenziali e assistenziali, la percentuale sale al 23%, con 206.682 nuovi procedimenti in un anno.

Un fenomeno strutturale

Il boom di cause, soprattutto nel settore pubblico, segnala una criticità strutturale. La conflittualità non è più episodica, ma sistematica, alimentata da politiche di reclutamento fragili, blocchi salariali e carenze di organico. Se non si interverrà con riforme e soluzioni strutturali, il rischio è che i tribunali restino congestionati e che la giustizia del lavoro diventi sempre più lenta e complessa.

Torino, boom di ricorsi sul lavoro: il Tribunale riunisce le cause seriali dei precari

Nella sezione lavoro il 97% delle liti riguarda docenti contro il Ministero. Stop alla frammentazione dei ricorsi e apertura ai decreti ingiuntivi anche senza busta paga allegata.

Torino – Il Tribunale del lavoro di Torino si trova a gestire un contenzioso in costante crescita, dominato quasi interamente dal pubblico impiego. Secondo la presidente della sezione, Daniela Paliaga, il 97% delle cause è promosso da insegnanti precari contro il Ministero dell’Istruzione, con rivendicazioni sempre più variegate: dal riconoscimento di benefici economici alle ferie non godute, fino ai diritti legati alla carriera.

La moltiplicazione dei ricorsi

A complicare ulteriormente il quadro è stata la prassi di presentare un ricorso distinto per ciascuna pretesa, anche se proveniente dallo stesso lavoratore. Il risultato? Un’esplosione di fascicoli e un aggravio di lavoro per giudici, avvocati e cancellerie.

Per affrontare il fenomeno, la sezione ha avviato un monitoraggio mirato: le cause riconducibili allo stesso ricorrente vengono ora riunite e affidate a un unico magistrato. Inoltre, nel liquidare le spese processuali, il tribunale tiene conto del frazionamento iniziale, scoraggiando così la proliferazione di ricorsi seriali.

I primi risultati sembrano incoraggianti: stanno arrivando ricorsi che, come già avviene in altri settori, accorpano tutte le domande del lavoratore in un unico procedimento. Una prassi che potrebbe diventare la regola, rendendo più snella la gestione dei processi.

La questione dei decreti ingiuntivi

Un altro fronte caldo è quello delle richieste di somme non corrisposte dai datori di lavoro. Nel 2024, a Torino, i decreti ingiuntivi sono aumentati sensibilmente. «Si tratta per lo più – spiega Paliaga – di retribuzioni non pagate, pur a fronte dell’emissione della busta paga».

Il Tribunale ha adottato un approccio più flessibile: oggi può pronunciare un decreto ingiuntivo anche in assenza della singola busta paga contestata, purché quelle precedenti e successive contengano tutti gli elementi utili a ricostruire la posizione del lavoratore. Resta ovviamente salva la possibilità per il datore di lavoro di proporre opposizione.


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Pagamenti con assegni post-datati: per il CNF violano il decoro professionale

L’avvocato non può accettare assegni post-datati come forma di pagamento dei propri compensi professionali. A sancirlo è il Consiglio nazionale forense (CNF) con la sentenza n. 47/2025, depositata il 6 agosto, che ha confermato un anno di sospensione a carico di un legale accusato di gravi violazioni deontologiche.

Le violazioni accertate

Le indagini disciplinari hanno fatto emergere un quadro pesante:

  • mancata iscrizione a ruolo di 12 cause su 17 affidategli in mandato;
  • ricezione di diversi assegni post-datati, due dei quali usati come titoli esecutivi;
  • assenza di regolare fatturazione delle somme percepite;
  • richiesta di compensi sproporzionati rispetto all’attività svolta;
  • avvio di un atto di precetto nei confronti della cliente, nonostante i suoi inadempimenti professionali.

Secondo l’esposto, la cliente aveva già versato oltre 40mila euro, cui si sarebbero aggiunti assegni post-datati per altri 42mila euro, senza che la maggior parte delle cause fosse portata a termine.

La decisione del Consiglio

Il CNF ha ritenuto la condotta del professionista in palese contrasto con i doveri di probità, dignità e decoro, sottolineando come l’accettazione di assegni post-datati violi la normativa sull’assegno (R.D. n. 1736/1933) ed esponga anche a possibili responsabilità fiscali, inclusa l’evasione dell’imposta di bollo.

La pluralità delle violazioni, il danno arrecato alla cliente e i gravi precedenti disciplinari hanno spinto il Consiglio a confermare la sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

Il principio ribadito

La sentenza si inserisce in una linea interpretativa consolidata: i rapporti economici tra avvocato e cliente devono essere improntati alla massima correttezza e trasparenza. L’utilizzo di strumenti di pagamento non conformi alla legge non solo mina la fiducia nel singolo professionista, ma compromette l’onorabilità dell’intera avvocatura.


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Produzione, credito e lavoro: perché senza natura il sistema economico non regge

Il capitale naturale non è più solo una questione ambientale, ma un pilastro economico e finanziario che sostiene imprese, occupazione e credito. Il sesto Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, pubblicato dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE), fotografa un legame stretto: il 72% delle aziende dell’area euro dipende da almeno un servizio ecosistemico, e quasi il 75% dei prestiti bancari alle imprese non finanziarie è concesso a realtà direttamente legate a questi servizi.

Un quadro internazionale: dall’Accordo di Parigi al Global Biodiversity Framework

Il rapporto colloca l’Italia dentro un contesto globale che va dall’Accordo di Parigi all’Agenda 2030, fino al Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF), firmato da 196 Paesi. Obiettivo: un mondo “in armonia con la natura” entro il 2050, con traguardi intermedi come il 30×30 (proteggere il 30% delle aree terrestri e marine entro il 2030).
Il Target 15 del GBF assegna a imprese e finanza un ruolo decisivo: fermare e invertire la perdita di biodiversità, aprendo la strada a un’economia rigenerativa.

Imprese e rischi concreti: dalla produzione al credito

Il legame tra ecosistemi e sistema economico è ormai evidente: agricoltura, turismo, manifattura ed energia dipendono dalla disponibilità di acqua, suolo fertile, impollinazione, pesca e stabilità climatica. Secondo la Banca Mondiale, il declino di questi servizi può ridurre il PIL globale di 2,7 trilioni di dollari entro il 2030.

Non solo produzione: anche il credito è in gioco. Le banche, infatti, stanno già integrando i Nature-Related Financial Risks (NRFR) nelle proprie valutazioni, così come avviene per i rischi climatici. L’accesso ai finanziamenti dipenderà sempre di più dalla capacità delle imprese di gestire i propri impatti e le proprie dipendenze dalla natura.

Opportunità economiche: rapporto costi/benefici 1:9

Il rapporto evidenzia come la riqualificazione ecologica possa generare enormi benefici. In Italia, 2,4 miliardi di euro di vantaggi a fronte di soli 261 milioni di costi: un rapporto costi/benefici di 1:9, tra i più favorevoli in Europa.
Le Nature Based Solutions (NBS) – infrastrutture verdi, rigenerazione urbana, turismo sostenibile, agricoltura intelligente – offrono co-benefici economici, sociali e culturali. Dalla riduzione dei rischi sanitari al benessere urbano, fino al rafforzamento del legame comunità-territorio.

Fisco e finanza verde: il ruolo delle politiche pubbliche

Il documento dedica ampio spazio alla riforma fiscale ambientale, con l’obiettivo di eliminare i sussidi dannosi (SAD) entro il 2025 e rivedere l’IVA su combustibili fossili, fertilizzanti e pesticidi entro il 2030-2032. Crescono strumenti finanziari come green bond e pagamenti per servizi ecosistemici, che orientano i capitali privati verso la natura.
La Tassonomia UE è ormai la bussola per fondi pubblici e credito bancario: chi non si adegua rischia di restare fuori dai canali di finanziamento.

Raccomandazioni del Comitato per il Capitale Naturale

Il rapporto conclude con un pacchetto di indicazioni:

  • garantire coerenza normativa con gli articoli 9 e 41 della Costituzione;
  • armonizzare strumenti di monitoraggio;
  • rafforzare la contabilità ambientale e i dati sugli ecosistemi;
  • valutare benefici a lungo termine degli investimenti;
  • estendere il principio del Do No Significant Harm (DNSH), con deroghe temporanee per i settori in transizione;
  • istituire una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio per coordinare le politiche sul capitale naturale.

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Data Act: dal 12 settembre scatta la rivoluzione dei dati

Dal 12 settembre 2025 cambia il modo di intendere e gestire i dati generati dai dispositivi connessi a Internet. Con l’entrata in vigore del Data Act (regolamento UE 2023/2854), le imprese – produttori e fornitori di servizi – sono obbligate a mettere a disposizione degli utenti i dati raccolti da macchinari, dispositivi e sensori IoT, anche se acquistati prima di tale data.

La misura, destinata a incidere profondamente sulle prassi aziendali, si applica a una vasta gamma di prodotti: dagli smartwatch ai fitness tracker, dai dispositivi di telemedicina ai sensori agricoli e industriali, fino ai sistemi di logistica e trasporto merci.

Il cuore della riforma: diritto di accesso e portabilità

Il principio cardine del Data Act è semplice: i dati appartengono all’utente, persona fisica o giuridica che utilizza il prodotto, e non possono più essere trattenuti esclusivamente dal fornitore. L’utente ha diritto ad accedere, utilizzare e condividere i dati, purché non per fini di concorrenza sleale.

La portata della norma è retroattiva: anche i dispositivi già venduti o ceduti prima del 12 settembre 2025 rientrano nel perimetro, purché continuino a generare informazioni.

Nuove regole per imprese e PA

Le imprese devono:

  • garantire l’accesso diretto, sicuro e gratuito ai dati generati;

  • rispettare i limiti posti da privacy, segreti commerciali e sicurezza;

  • predisporre contratti e informative conformi al nuovo regime;

  • favorire l’interoperabilità tra sistemi, evitando blocchi tecnologici e costi nascosti di trasferimento dati.

Dal 12 settembre 2026 i prodotti connessi e i servizi digitali correlati dovranno essere progettati e forniti già con l’accesso ai dati abilitato by default.

Tutela dei consumatori e stop alle pratiche abusive

Il regolamento vieta condotte scorrette dei fornitori, come il vendor lock-in, che ostacola il passaggio da un servizio cloud a un altro imponendo costi eccessivi. Allo stesso tempo, prevede clausole di salvaguardia per i segreti industriali e limita l’uso dei dati da parte degli utenti: non sarà consentito sfruttarli per sviluppare prodotti concorrenti.

Privacy e GDPR: due regimi che convivono

Il Data Act integra e non sostituisce il GDPR: i dati personali rimangono soggetti ai principi di liceità, proporzionalità e sicurezza. Le imprese dovranno dunque contemperare i diritti di accesso con le tutele della privacy e la protezione dei dati sensibili.

Una rivoluzione per il mercato europeo

Secondo la Commissione UE, il nuovo quadro normativo sbloccherà opportunità enormi per l’economia dei dati, agevolando innovazione, riparazioni più convenienti e maggiore efficienza nelle filiere produttive. Agricoltura di precisione, telemedicina, logistica e industria 4.0 saranno i settori più interessati dalla riforma.

Il cronoprogramma è chiaro:

  • 12 settembre 2025: entrata in vigore generale del Data Act.

  • 12 settembre 2026: obbligo di progettare prodotti e servizi già predisposti per l’accesso ai dati.

  • 12 settembre 2027: applicazione delle norme anti-clausole abusive anche ai contratti di lunga durata stipulati prima dell’entrata in vigore.


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Pseudonimi sotto la lente della Corte UE: sono dati personali a tutti gli effetti

Gli alias e i dati pseudonimizzati non sono un modo per sfuggire agli obblighi del Regolamento europeo sulla privacy. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) con la sentenza del 4 settembre 2025 (causa C-413/23), chiarendo che tali informazioni devono essere considerate a tutti gli effetti dati personali qualora sia possibile, anche indirettamente, risalire all’identità delle persone cui si riferiscono.

Una pronuncia che mette fine a prassi elusive riscontrate negli ultimi anni, in cui imprese e organizzazioni hanno tentato di sottrarsi agli obblighi previsti dal GDPR (Regolamento UE 2016/679) sostenendo che, una volta “mascherati” i dati, questi uscissero dall’ambito di applicazione della normativa.

Tre scenari e regole diverse

La Corte ha individuato tre tipologie di flussi di dati pseudonimizzati:

  1. Circolazione interna: quando i dati rimangono all’interno della stessa organizzazione (impresa o pubblica amministrazione) e vengono messi a disposizione dei dipendenti.
  2. Fornitore esterno (outsourcing): quando i dati sono affidati a un soggetto esterno che li tratta per conto dell’organizzazione, in qualità di responsabile del trattamento, vincolato da contratto ex art. 28 GDPR.
  3. Comunicazione a terzi autonomi: quando i dati sono trasferiti a un’altra entità giuridica che li utilizza per finalità proprie, assumendo il ruolo di titolare autonomo.

Se nei primi due casi l’impresa rimane pienamente responsabile del flusso dei dati, nel terzo scenario la questione si complica: il destinatario deve verificare se i dati pseudonimizzati possano condurre, con mezzi ragionevolmente disponibili (incluse fonti pubbliche o strumenti di intelligenza artificiale), all’identificazione dell’interessato.

Pseudonimizzazione ≠ anonimizzazione

La CGUE ha ribadito che la pseudonimizzazione non equivale all’anonimizzazione. La differenza è sostanziale:

  • Dati pseudonimizzati: continuano a rientrare nel GDPR se esiste un rischio di reidentificazione.

  • Dati anonimizzati: escono dal campo di applicazione del regolamento solo se l’identificazione risulta impossibile in modo definitivo e irreversibile.

Obblighi per imprese e PA

Le conseguenze pratiche della sentenza sono rilevanti: sia l’organizzazione che pseudonimizza i dati sia quella che li riceve devono adempiere a precisi obblighi. In particolare:

  • fornire un’informativa completa agli interessati;

  • verificare la base giuridica del trattamento;

  • applicare misure di sicurezza adeguate;

  • consentire l’esercizio dei diritti previsti dal GDPR.

Il titolare del trattamento, inoltre, deve valutare con attenzione se i dati pseudonimizzati possano ancora permettere, direttamente o indirettamente, l’identificazione degli interessati.

Un monito contro gli abusi

Secondo gli esperti, la pronuncia chiude ogni margine interpretativo a favore di chi pensava di “aggirare” il GDPR tramite la pseudonimizzazione. Le imprese e le pubbliche amministrazioni, quindi, non potranno più sostenere che il trasferimento di tali dati a terzi non comporti oneri di compliance.


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