Croce al posto della firma: la procura alle liti non è valida

Croce al posto della firma: la procura alle liti non è valida

Cosa succede se la procura alle liti presenta una croce al posto della firma? Può essere ritenuta valida?

L’ordinanza n. 16948/20 emessa dalla Corte di Cassazione e pubblicata il 12 agosto 2020 ci offre la risposta.

ANALFABETISMO E PROCURA ALLE LITI

Un cittadino straniero desidera ottenere la protezione internazionale e umanitaria ma il Tribunale di Napoli dichiara inammissibile la richiesta per nullità della procura alle liti, che risulta priva della firma e sottoscritta solo con un semplice crocesegno a causa dell’analfabetismo del soggetto.

Il cittadino decide di ricorrere denunciando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 82 e 157 c.p.c., deducendo che “il giudice non avrebbe potuto rilevare d’ufficio, in mancanza di eccezione della controparte rimasta contumace, la nullità della procura speciale alle liti che conteneva l’esatta indicazione del suo nome e delle sue generalità, essendo irrilevante l’illeggibilità della firma”.

Al ricorso viene allegata anche la procura speciale, anch’essa però sottoscritto solo mediante una croce e non con firma autografa.

LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

Nell’ordinanza, la Cassazione spiega che “la procura alle liti sottoscritta con crocesegno non è suscettibile di autenticazione da parte del difensore, ove rilasciata in calce o a margine dell’atto giudiziale, atteso che la sottoscrizione, essendo indispensabile ai fini della individuazione dell’autore del documento e costituendo un elemento essenziale dello stesso, deve risultare da segni grafici che indichino, anche in forma abbreviata, purché decifrabile, le generalità del soggetto che conferisce la procura e non è integrata, pertanto, da un segno di croce vergato al posto della firma”.

Il Tribunale ha dunque agito correttamente rilevando d’ufficio la nullità della procura e fissando un termine perentorio per la regolarizzazione di un vizio sanabile; regolarizzazione che però non è avvenuta.

Considerato tutto ciò, la Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile.

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Nasce il PNR, il portale delle notizie di reato

Nasce il PNR, il portale delle notizie di reato

Nasce il PNR, il portale delle notizie di reato.

Nel provvedimento emesso dal Direttore Generale dei sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia sono contenute le disposizioni relative alla comunicazione telematica di atti e di documenti da parte degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria agli uffici del pubblico ministero.

La novità trova le sue fondamenta nel comma 12-quater. 2 dell’art. 83 del decreto legge n.18 del 17 marzo 2020 recante “Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare”, convertito con modificazioni nella Legge n.27 del 24 aprile 2020 recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse con l’emergenza epidemiologica da COVID-19. Proroga dei termini per l’adozione di decreti legislativi”, ed ulteriormente modificato dai decreti legge n.28 del 30 aprile 2020 e n.34 del 19 maggio 2020.

COS’È IL PNR, IL PORTALE DELLE NOTIZIE DI REATO

Il portale consente la trasmissione degli atti contenenti la comunicazione della notizia di reato e dei loro allegati dagli operatori degli uffici fonte agli uffici del pubblico ministero.

I documenti devono essere tutti in versione digitale e devono rispettare precisi requisiti indicati nel provvedimento pubblicato.

La procedura standard di comunicazione prevede l’inserimento di alcuni dati richiesti dal sistema, il caricamento dei documenti e l’invio tramite apposito comando.

Il PNR genera una ricevuta di accettazione che può essere scaricata e che rimane sempre a disposizione dell’operatore dell’ufficio fonte all’interno del PNR.

Il Portale delle Notizie di Reato si trova all’indirizzo: https://portalendr.giustizia.it/NdrWEB/home.do ed è accessibile solo:
– ai referenti interni agli uffici del pubblico ministero,
ai
referenti degli uffici fonte presso cui operano gli Ufficiali o Agenti di Polizia Giudiziaria.

Per ottenere l’autorizzazione all’accesso al portale bisogna seguire una procedura, anch’essa indicata nel provvedimento pubblicato, che varia in base al soggetto.

Per i referenti interni è necessario che:
a) il Procuratore della Repubblica individui il referente e ne comunichi le generalità alla DGSIA a mezzo protocollo;

b) il referente si accrediti tramite l’applicativo RA.FE. richiedendo il Certificato alla DGSIA;

c) DGSIA verifichi la corrispondenza tra i dati della richiesta e quelli della comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero. Se la richiesta è approvata, il referente riceve tramite mail il Certificato per l’accesso a RA.FE.;

d) a questo punto, il referente può gestire, sempre tramite RA.FE, la distribuzione dei Certificati ai referenti degli uffici fonte.

Per i referenti degli uffici fonte:
a) l’ufficio fonte individua il referenti e ne comunica le generalità all’ufficio del pubblico ministero del circondario di riferimento;

b) il referente dell’ufficio fonte, tramite RA.FE., richiede il Certificato all’ufficio del pubblico ministero;

c) sempre tramite l’applicativo, il referente dell’ufficio del pubblico ministero destinatario della richiesta verifica la corrispondenza tra i dati di questa e quelli della documentazione, approva la richiesta e invia al richiedente una mail con il Certificato di accesso a RA.FE.

Il  RA.FE., Registration Authority Front End, è il software in uso al personale autorizzato per la gestione dei certificati.

Sebbene, come già detto, il portale sia accessibile solo ai referenti degli uffici fonte e del pubblico ministero, la notizia risulta molto interessante perché rappresenta un altro passo avanti verso la digitalizzazione della Giustizia.

Qui il testo completo del Provvedimento del Direttore Generale dei sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia contenente le disposizioni relative alle comunicazioni agli uffici del pubblico ministero da parte degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria di atti e di documenti in modalità telematica.

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Nel Decreto Semplificazioni (D.L. 76/2020) sono contenute diverse novità che toccano da vicino la vita quotidiana di molti professionisti.

Tra le tante, 4 sono particolarmente interessanti

1) I DOMICILI DIGITALI

L’art. 24, comma 1-bis, del decreto è dedicato ai registri dei domicili digitali.

Spesso, questi registri non sono affatto aggiornati, causando problemi nel reperimento degli indirizzi di posta elettronica corretti.

Per tentare di risolvere la situazione, è stata prevista la cancellazione d’ufficio di tutti gli indirizzi non più funzionanti, ma le modalità con cui definire se un indirizzo è attivo o meno dovranno essere stabilite da specifiche linee guida.

2) L’ISCRIZIONE A INIPEC

L’art. 24, co. 1, lett. b), indica che l’iscrizione in INIPEC non è più limitata ai professionisti iscritti a ordini o collegi professionali, ma è estesa a «professionisti diversi da quelli di cui al primo periodo, iscritti in elenchi o registri detenuti dalle pubbliche amministrazioni e istituiti con legge dello Stato».

3) LA RITROVATA VALIDITÀ DELL’IPA AI FINI DELLE NOTIFICHE PEC

L’art. 3-bis della Legge 53/1994 aveva stabilito che le notificazioni telematiche dell’avvocato dovessero essere inviate esclusivamente a indirizzi tratti dai pubblici elenchi indicati dall’art. 16-ter d.l. 179/2012, modificato dalla legge 228/12 e convertito nella legge 221/12

Inizialmente, i pubblici elenchi di riferimento erano Reginde e IPA, ma con la legge 114/14 di conversione del d.l. 90/2014 IPA ha smesso di essere considerato un registro valido al reperimento degli indirizzi pec della P.A.

L’art. 28 del Decreto Semplificazioni ripristina la validità del registro.

4) PIATTAFORMA PER LA NOTIFICAZIONE DIGITALE DEGLI ATTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Con l’art. 8 comma 1 del Decreto Legge n. 35 del 14 dicembre 2018 nacque la società per azioni di proprietà statale che gestisce PagoPA, il sistema per i pagamenti verso la Pubblica Amministrazione.

L’art. 1, comma 492, della Legge n. 160 del 27 dicembre 2019 prevedeva l’istituzione di una piattaforma digitale per le notifiche, sempre gestita da PagoPA S.p.A., e l’art. 26, comma 3, del Decreto Semplificazioni indica le finalità e il funzionamento della piattaforma per la «notificazione di atti, provvedimenti, avvisi e comunicazioni, in alternativa alle modalità previste da altre disposizioni di legge, anche in materia tributaria».

Sulla piattaforma vengono caricati le copie informatiche dei documenti analogici o i documenti informatici originali. Questi sono disponibili tramite un codice univoco inviato via pec al destinatario. Chi non è in possesso di un domicilio digitale viene notificato via posta cartacea.

[Per approfondire: “Semplificazioni, cosa cambia per gli avvocati: domicilio digitale e pubblici elenchi per notificazioni” – Agenda Digitale]

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Cassazione: all’avvocato vanno rimborsate le spese documentate

Per la Cassazione, l’avvocato ha diritto a vedersi rimborsate le spese documentate, perché queste non rientrano nella percentuale che la legge prevedere per il rimborso delle spese forfettarie.

IL CONTESTO

Un avvocato impugna per Cassazione la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale che dichiarava inammissibile il precedente ricorso relativo alla liquidazione di spese documentate, nell’ambito di una procedura promossa ex art. 70 del dlgs n. 546/1992 per l’ottemperanza del giudicato nei confronti dell’Agenzia delle Entrate.

L’avvocato ritiene che la sentenza della CTP violi l’art. 91 c.p.c, l’art 2 D.M. 55/2014 e lo stesso art. 70, poiché le spese documentate non sarebbero da includersi nella percentuale prevista per il rimborso delle spese generali indicata nel D.M. 55/2014.

SPESE DOCUMENTATE E SPESE FORFETTARIE

La Cassazione ritiene fondato il ricorso e nell’ordinanza n. 15985 del 27 luglio 2020 spiega che:

  • l’avvocato ha diritto al compenso, al rimborso delle spese documentate legate alla propria prestazione, ma anche -sempre- al rimborso delle spese forfettarie pari al 15% del compenso totale (art 2 del D.M. 55/2014);
  • – con spese documentate si intendono quelle spese necessarie allo svolgimento del processo: pagamento del contributo unificato, delle marche da bollo e di tutte quelle uscite che producono un documento che le attesti;
  • – il rimborso forfetario delle spese generali è una componente delle spese giudiziali, il suo ammontare è predeterminato dalla legge e spetta automaticamente al difensore, anche in mancanza di un accordo in tal senso («è implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente»);
  • – il rimborso delle spese forfettarie serve a coprire quelle spese che non sono documentabili e documentate, che non sono legate alla singola pratica ma alla professione in sé: gestione dello studio, stipendi del personale, assicurazioni, utenze, materiali di uso quotidiano, ecc.

La Cassazione dunque individua una netta distinzione tra spese documentate e spese forfettarie e riconosce che le prime non rientrano nella percentuale di rimborso prevista per le seconde dal D.M. 55/2014.

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La Cassazione si è espressa sulla validità di un’ordinanza comunicata dalla cancelleria all’avvocato di una delle parti via fax e non via pec poiché la casella di quest’ultimo risultava malfunzionante.

IL RICORSO

In un caso legato a un contratto preliminare e a un contratto di comodato d’uso di un immobile, una delle parti procede secondo l’ex art. 702 bis c.p.c. e si vede riconosciuto lo scioglimento dell’accordo.

L’altra parte ricorre in Corte d’Appello e la Corte dichiara il gravame inammissibile perché  depositato dopo l’esaurimento del termine fissato dall’articolo 702 quaterc.p.c.

Il termine considerato dalla Corte coincide con il giorno e l’ora in cui l’ordinanza del Tribunale è stata comunicata all’avvocato della parte via fax, dopo che il tentativo via pec è fallito per un malfunzionamento della casella di posta del destinatario.

La sentenza della Corte d’appello si basa su tre motivi:

  1. i ricorrenti dichiarano che la sentenza non è mai stata loro notificata dato che il tentativo di notifica via PEC ha avuto l’ esito di “mancata consegna”.
    Il termine breve per l’appello fissato dall’articolo 702 quater c.p.c., con decorrenza dalla comunicazione dell’impugnata ordinanza, non sussisterebbe;
  2. della sentenza trasmessa via fax, è presente nel fascicolo di ufficio solo la copia della prima pagina dove è indicato unicamente lo”scioglimento della riserva”.
    Questo non dimostrerebbe l’avvenuta trasmissione del provvedimento, ma solo dell’avviso di scioglimento di riserva;
  3. i ricorrenti ritengono che la Corte territoriale abbia errato nel considerare il fax un mezzo idoneo ai fini della decorrenza del termine breve, poiché non assicura la trasmissione integrale del documento.

Si giunge dunque in Cassazione.

PERCHÉ LA COMUNICAZIONE DELLA CANCELLERIA ALL’AVVOCATO VIA FAX È AMMESSA

Con l’ordinanza n. 15298/2020 del 17 luglio 2020, la Cassazione ribadisce che:

1. se la notifica via pec risulta impossibile per cause non imputabili al destinatario, il cancelliere deve procedere secondo l’art. 136 c.p.c., terzo comma, e trasmettere via fax o a mezzo ufficiale giudiziario;

2. se la notifica via pec risulta impossibile per cause imputabili al destinatario, il cancelliere deve procedere alla comunicazione tramite deposito in cancelleria, ai sensi dell’art. 16, comma 6, D.L. 179/2012.

Nel caso specifico, il cancelliere ha scelto la trasmissione via fax, che è la soluzione che tutela maggiormente il destinatario, perché lo solleva dalla responsabilità di essere la causa della mancata notifica via pec, pertanto il destinatario non ha alcun motivo di lamentarsi.

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Cosa sono gli smart contract, o contratti intelligenti? Segneranno davvero la fine degli avvocati, come qualcuno insinua? Non proprio.

COSA SONO GLI SMART CONTRACT

In un articolo pubblicato da Ansa, l’Avv. Papotto di Catania spiega che «uno Smart Contract è la “traduzione” o “trasposizione” in codice di un contratto in modo da verificare in automatico l’avverarsi di determinate condizioni e di autoeseguire in automatico azioni nel momento in cui le condizioni determinate tra le parti sono raggiunte e verificate.

In altre parole, lo Smart Contract è basato su un codice che “legge” sia le clausole che sono state concordate sia la condizioni operative nelle quali devono verificarsi le condizioni concordate e si autoesegue automaticamente nel momento in cui i dati riferiti alle situazioni reali corrispondono ai dati riferiti alle condizioni e alle clausole concordate».

Semplificando al massimo, gli smart contract sono programmi informatici basati su algoritmi che verificano l’esistenza di alcuni parametri e ne garantiscono l’esecuzione.

Per fare un esempio primordiale di smart contract, pensiamo all’attivazione o disattivazione di una licenza per l’uso di un software in base al verificarsi di una condizione come il pagamento della licenza da parte dell’utente.

Un altro esempio si ha nelle assicurazioni auto. Attraverso i dispositivi di controllo nelle vetture è possibile sapere se il guidatore ha, per esempio, superato i limiti di velocità indicati nel contratto facendo scattare immediatamente clausole svantaggiose, come un aumento del premio.

VANTAGGI DEGLI SMART CONTRACT

I vantaggi degli smart contract sono due:

minori costi di transazione.
Questo dipende dal fatto che gran parte del lavoro di attivazione e verifica del contratto è automatizzato, non è necessario affidarsi a ‘umani’ per monitorarne l’adempimento;

maggiore sicurezza nell’ottemperanza.
Sempre grazie all’automazione, la verifica dell’avverarsi delle condizioni è garantita, così come lo è l’attivazione delle clausole stabilite.

PERCHÈ GLI SMART CONTRACT NON SONO UNA MINACCIA PER GLI AVVOCATI

Un articolo come questo può solo dare un’idea indicativa e superficiale del complesso mondo degli smart contract. Nonostante ciò, basta poco per credere che l’automazione in materia di contratti possa scalzare le figure più competenti in materia.

In realtà, avvocati e smart contract non si annullano a vicenda.

Come spiegato su Blockchain4innovation, lo smart contract: «è un programma che elabora in modo deterministico (con identici risultati a fronte di identiche condizioni) le informazioni che vengono raccolte. In altre parole se gli input sono gli stessi i risultati saranno identici. […] Ai contraenti spetta il compito di definire condizioni e clausole e modalità e regole di controllo e azione».

Gli smart contract sono dunque la traduzione informatica di accordi fra le parti, pertanto c’è ancora bisogno di legali che sappiano individuare tutte le ipotesi possibili e indicare tutte le clausole necessarie a rendere vitale il contratto.

Poi, citando Pierluigi Cuccurru in Blockchain e automazione contrattuale: «Nonostante il nome, gli smart contarct non sono necessariamente contratti giuridicamente intesi (sebbene possano esserlo ove ne integrino i requisiti). Siano più semplicemente degli strumenti per la negoziazione, conclusione e/o automatica applicazione di rapporti contrattuali o relazioni para-contrattuali: un canale per la conclusione e gestione degli accordi, piuttosto che accordi in sé».

In sostanza, sono dei mezzi con cui portare avanti degli accordi. E quegli accordi devono essere stabiliti tra parti.

Infine, gli smart contract si appoggiano alla blockchain, campo che offre molti vantaggi ma anche molti rischi di illeicità, e gli avocati potrebbero trovare nuovi campi di applicazione delle proprie competenze.

[Per approfondire: “Ti lascio una canzone ma con la blockchain” – Altalex]

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Molti di noi hanno conosciuto le piattaforme di videoconferenza durante la quarantena: senza Teams, Zoom e Skype non saremmo mai stati in grado di portare avanti il nostro lavoro, proseguire la nostra formazione o rimanere in contatto con amici e parenti.

Ma è proprio durante la quarantena che, oltre ai pregi, ne abbiamo scoperto anche i difetti.
Le notizie di violazioni della privacy sono fioccate rapidamente, portando le autorità in materia a osservare con più attenzione l’operato delle aziende erogatrici e a chiedere loro provvedimenti.

I SUGGERIMENTI DI SEI AUTORITÀ PER LA PRIVACY DESTINATI ALLE PIATTAFORME DI VIDEOCONFERENZA

Tra i provvedimenti più recenti e impegnativi, la lettera aperta sottoscritta dalle autorità per la privacy di Australia, Canada, Gibilterra, Hong Kong, Svizzera e Regno Unito, indirizzata a tutte le aziende che offrono servizi di videoconferenza e teleconferenza.

La lettera è stata inviata direttamente a Microsoft, Cisco, Zoom, House Party e Google, erogatrici dei principali software.

Le sei autorità chiedono una maggiore attenzione alla sicurezza, la privacy by design, la trasparenza e l’equità, ma anche di approfondire la conoscenza dei propri utenti e di cedere a questi più controllo sui propri dati.

Viene suggerito di implementare la crittografia end-to-end per tutte le comunicazioni, l’accesso con autenticazione a due fattori, di imporre la scelta di password più complesse e l’aggiornamento costante del software da parte degli utenti.

Molto importante è poi la gestione delle informazioni raccolte e l’eventuale elaborazione da parte di soggetti terzi.

Infine, alle aziende è richiesto di informare gli utenti in modo chiaro e completo su quali dati esse raccolgano, cosa se ne facciano e come vengano conservati.

Le autorità per la privacy ammettono che la lista di problemi da loro evidenziati non è affatto esaustiva e comunicano che la mancata risoluzione potrebbe comportare violazioni della legge (e quindi sanzioni?), nonché la perdita di fiducia degli utenti.
Le aziende sono chiamate a offrire risposte entro il 30 settembre 2020, a dimostrazione del loro reale impegno.

Le piattaforme di videoconferenza rimarranno parte della nostra vita quotidiana per molto tempo ancora e, anzi, in alcuni casi lo saranno per sempre. Molte sono le informazioni personali che condividiamo con e tramite questi strumenti ed è quindi importante che le aziende erogatrici mantengano una condotta attenta e rispettosa.
Come si legge nella lettera: «la facilità di rimanere in contatto non deve andare a scapito della protezione dei dati personali e del diritto alla privacy».

Qui il link al testo originale della lettera.

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Ricordarci dell’esistenza delle truffe telefoniche può essere difficile oggi, considerando la grande attenzione che si dà a quelle perpetrate attraverso i canali digitali. Ma il phishing, la truffa via mail, può essere declinato anche in vishing, o voice phishing, il cui obiettivo è sempre carpire le nostre informazioni personali, ma via telefono.

COME FUNZIONA IL VISHING

Esistono varie tipologie di vishing:

  • forzare l’utente alla sottoscrizione di un contratto apparentemente economico senza comunicare l’esistenza di clausole onerose,
  • registrare le risposte affermative o negative dell’utente e usarle a sua insaputa (“Parlo con Mario Rossi?” “Sì”. Ecco, questo “sì” viene utilizzato come conferma per altre richieste non esplicitate),
  • comunicare falsi tentativi di accesso alle carte di credito o al conto corrente dell’utente, chiedere a questo dati sensibili (il CVV o codici di accesso) per bloccare i tentativi e utilizzare poi questi dati per effettuare prelievi.
  • – raccogliere informazioni personali dell’utente che, incrociate con quelle presenti sui social o altri canali digitali, consentono di rubarne l’identità e svolgere attività illegali a suo nome.

Se il phishing viene frequentemente bloccato dai sistemi di sicurezza del gestore di posta elettronica, altrettanto non si può dire per il vishing che fa leva sull’emotività delle persone. L’operatore, spacciandosi per un finto operatore bancario o una qualsiasi figura che sembra autorizzata a porre certe richieste, è in grado di ingenerare senso di urgenza e di pericolo nel malcapitato. Inoltre, spesso è già a conoscenza di alcune informazioni personali del truffato ed è proprio comunicando tali informazioni che riesce ad abbattere la diffidenza del suo interlocutore.

Privato della sua unica difesa, questo ultimo fornisce volentieri tutti i dati richiesti, accorgendosi solo molto tempo dopo di addebiti ingiustificati o denaro mancante.

In alcuni casi, le chiamate di vishing non sono fatte da un operatore in carne e ossa ma sono preregistrate.

COME PROTEGGERSI DALLE TRUFFE TELEFONICHE

Riuscire a individuare in fretta se si sta cadendo vittima di un tentativo di vishing non è affatto facile. L’unica arma è la consapevolezza: diffidare dalle chiamate da parte di numeri di telefono sconosciuti e ricordarsi che nessuna azienda seria, tanto meno la nostra banca, ci chiederebbe mai dati personali, bancari o codici di sblocco via telefono.

Attenzione dunque a non comunicare mai le proprie credenziali d’accesso e in caso ci si accorgesse di essere caduti nella trappola avvisare le Forze dell’Ordine indicando quali informazioni personali sono state condivise con i truffatori.

[Per approfondire: La nuova cybertruffa in auge è il vishing, Il Sole 24 Ore; Il vishing e la truffa del “consenso rubato”: cos’è e come difendersi dal phishing vocale, Cybersecurity360]

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Modello 5/2020: calcolo, scadenze e modalità di invio

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Cassa Forense ha pubblicato le linee guida sulla procedura d’invio del Modello 5/2020.

MODELLO 5/2020: CALCOLO DELLE SOMME

Le somme dovute sono calcolate in modo automatico a partire dai dati inseriti nel Modello:

  • – il reddito netto professionale (2019),
  • – il volume d’affari (2019),
  • – lo status di chi compila (praticante, avvocato iscritto, avvocato con agevolazioni nei primi 8 anni, pensionato).

La contribuzione ordinaria è pari a:

  • – il 14,5% per il calcolo del contributo soggettivo sul reddito netto professionale fino al tetto oltre il quale è dovuta la contribuzione del 3%;
  • – il 4% per il calcolo del contributo integrativo sul volume d’affari dichiarato ai fini dell’IVA.

Anche chi avesse un reddito pari a zero dovrà inviare il Modello.

SCADENZE DI INVIO E PAGAMENTO

A causa dei disagi generati da COVID-19, la data entro la quale inviare il Modello è stata posticipata dal 30 settembre al 31 dicembre 2020.

Il pagamento può avvenire:

  • – in due rate con scadenza 31 luglio e 31 dicembre. La data della prima rata può essere variata a patto che il pagamento delle due rate venga effettuato entro il 31.12.2020;
  • – in unica soluzione entro il 31.12.2020, senza interessi e sanzioni;
  • in due rate annuali di pari importo con scadenza 31 marzo 2021 e 31 marzo 2022, con un interesse dell’1,50%, su base annua, senza sanzioni;
  • mediante iscrizione nel ruolo 2021 (ruolo che sarà formato a ottobre 2021), maggiorati degli interessi dell’1,50%, senza sanzioni, con possibilità di ottenere rateazioni.

Vige il principio di tolleranza nel ritardo dell’invio del modulo e anche del versamento: se questo rientra negli 8 giorni successivi alla scadenza (8 gennaio 2021) non sono previste sanzioni.

MODALITÀ DI INVIO E PAGAMENTO

In fase di compilazione del modulo 5/2020 si deve scegliere obbligatoriamente un metodo di pagamento fra quelli disponibili.

Le alternative sono:

  • MAV bancari personalizzati;
  • – il servizio di pagamento tramite carta di credito “Forense Card”;
  • bonifico e c/c postale personalizzati.

La compilazione del Modello va eseguita in via telematica tramite il sito di Cassa Forense, seguendo questo percorso: accesso riservato – posizione personale – inserimento del proprio codice meccanografico e pin.

Per informazioni più approfondite vi invitiamo a leggere il comunicato di Cassa Forense.

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Nella nota informativa 83 del 14 luglio 2020, il CNDCEC rivolge, insieme al CNF e CNN, la richiesta all’ABI e alla Banca d’Italia di abbandonare la prassi di identificare il professionista delegato come titolare effettivo dei conti bancari aperti per le procedure esecutive immobiliari.

Il professionista può essere un notaio, un avvocato o un commercialista.

La prassi è una novità degli ultimi mesi e le tre istituzioni «ritengono tale impostazione adottata dalle banche errata, sia dal punto di vista concettuale, per i precisi poteri affidati al giudice della procedura, sia per quanto concerne i rischi connessi alla normativa in materia di antiriciclaggio».

PROFESSIONISTA DELEGATO TITOLARE EFFETTIVO DEI CONTI BANCARI. COSA NON FUNZIONA

Il professionista delegato è colui che gestisce le somme ricavate dalle vendite degli immobili esecutati, che forma il progetto di distribuzione e che gira ai creditori quanto incassato.

Per fare tutto ciò, deve aprire un conto corrente bancario relativo alla singola procedura, pertanto deve compilare la modulistica richiesta dalla banca, compresa quella indicata dal Decreto Antiriciclaggio D.L. 231/2007.

La decisione delle banche di imporre che il delegato non sia più il Presidente del Tribunale ma il professionista incaricato della procedura è, secondo le tre associazioni, in contrasto con quanto indicato dal Decreto Antiriciclaggio.

Un primo motivo è che il professionista delegato alla vendita si muove sotto la direzione del Giudice dell’Esecuzione.
È un soggetto esecutivo che segue solo gli aspetti operativi della gestione della vendita, mentre è il giudice delegato ad avere il potere di direzione e rappresentanza. Si potrebbe dire che il giudice è la testa che comanda e il professionista il braccio che esegue.
Poiché la figura del Giudice è soggetta a cambi di sezione e di tribunale, ecco che per comodità si è sempre indicato il Presidente del Tribunale come titolare effettivo dei conti bancari aperti per le procedure esecutive immobiliari.

Un secondo motivo è che la gestione da parte del professionista abbassa il rating bancario di questo. L’apparente possesso di diversi conti e somme che a volte possono essere elevate, ma da cui il professionista non ricava alcun beneficio, ha dunque un impatto che va oltre la dimensione giuridica della sua figura fino alla sua sfera privata.

La richiesta avanzata da CNDCEC, CNF e CNN alle banche è quella di fare un passo indietro e tornare a indicare come titolare effettivo dei conti bancari aperti per le procedure esecutive immobiliari il Presidente del Tribunale presso cui è pendente la procedura esecutiva.

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