allegati illeggibili

Cosa succede al ricorso in caso di notifica PEC con allegati illeggibili?

Quale valore ha una notifica di un atto via PEC corredata da allegati che risultano illeggibili o vuoti?

Una risposta ce la offre la Cassazione con la sentenza n. 15001/2021, pubblicata a maggio 2021.

IL CASO

Una sentenza della Corte di Appello viene notificata via PEC al difensore di una delle parti che decide di impugnarla.

Il controcorrente ritiene che il ricorso sia però tardivo, perché notificato oltre il termine breve di 60 giorni dalla notifica della sentenza.

Il ricorrente replica che gli allegati alla sentenza impugnata contenessero solo pagine bianche e che il file della relata di notifica non contenessero che puntini neri. Pertanto, la notifica non poteva essere considerata idonea a far decorrere il termine breve previsto per la proposta di ricorso in Cassazione.

Messa davanti alla questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile.

NOTIFICA PEC E ALLEGATI ILLEGGIBILI. LE RESPONSABILITÀ DEL RICORRENTE

La Cassazione ha spiegato che, nel caso della notifica via PEC, quando si genera la prova dell’avvenuta accettazione da parte del sistema dell’invio e della ricezione del messaggio di consegna, sta alla parte che ne contesta la regolarità provare che il sistema non ha funzionato:

“Una volta acquisita al processo (in questo caso attraverso l’asseverazione) la prova della sussistenza della ricevuta telematica di avvenuta consegna, solo la concreta allegazione, da parte del destinatario, di una qualche disfunzionalità dei sistemi telematici potrebbe giustificare migliori verifiche sul piano informatico, con onere probatorio a carico del medesimo destinatario (Cass. 31 ottobre 2017 n. 15819; v. anche Cass. 22 dicembre 2016, n. 26773 e, per la precisazione che, in tale ambito, non vi è comunque necessità di querela di falso, Cass. 21 luglio 2016, n. 15035) e ciò in coerenza con i principi già operanti in tema di notificazioni secondo i sistemi tradizionali, ove a fronte di un’apparenza di regolarità della dinamica comunicatoria, spetta al destinatario promuovere le contestazioni necessarie ed eventualmente fornire la prova di esse (ex plurimis, v. Cass. 20 ottobre 2002, n. 18141; Cass. 20 luglio 1999, n. 7763)”.

Qualora i messaggio PEC fossero corredati da allegati in tutto o in parte illeggibili, sta al destinatario informare il “mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all’utilizzo dello strumento telematico” (Cass. 31/10/2017, n. 25819).

Nel caso in questione il ricorrente non ha provveduto a informare o fornire prove riguardo le disfunzioni, di conseguenza il ricorso va considerato tardivo e inammissibile.

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Parcella avvocato ok procedimento ingiunzione

Parcelle avvocati: ok al procedimento di ingiunzione

Il D.L. n. 1/2012 non abroga il procedimento ingiuntivo di cui agli artt. 633 e 636 c.p.c.

Nell’ambito della liquidazione del loro compenso, gli avvocati possono ancora avvalersi del procedimento monitorio, in sostituzione del giudizio ordinario o del rito sommario di cognizione. Così, per veder riconosciuto il proprio diritto, basta porre a base del ricorso la propria parcella di spese e prestazioni, validata dalla competente associazione professionale. Questa è la linea della Corte di Cassazione che -a Sezioni Unite- (sentenza n.19427/2021) conferma quella del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della Capitale.

Liquidazione compensi avvocati: nessuna abrogazione tout court delle norme sul sistema tariffario

Succede che un avvocato faccia segnalazione al Procuratore per informare l’ufficio della Procura dell’esistenza di un preciso orientamento del Tribunale di Roma. Infatti, proprio in virtù di tale orientamento, in quell’ufficio, i ricorsi per decreto ingiuntivo presentati dal 2012 a fini liquidativi vengono rigettati. Ciò, nonostante essi abbiano annessa prova documentale dell’attività svolta, e del parere di congruità da parte del competente COA.

Perciò, il Procuratore Generale chiede alla Cassazione l’enunciazione di un principio di diritto nell’interesse di legge. Lo scopo è: superare i contrasti interpretativi attualmente esistenti ed uniformare l’applicazione di questa legge sull’intero territorio nazionale. Ora, gli Ermellini ricordano che la L. 247/2012, all’art.13 (“nuova disciplina per l’orientamento della professione forense”), dispone l’abolizione tout court delle tariffe professionali, ma in piena continuità con la L. n. 27/2012 (art. 9).

Infatti, per la Cassazione appare evidente “come tra le tariffe abrogate e i nuovi parametri corra una forte analogia se non una sostanziale omogeneità”. Dunque, “in tema di liquidazione del compenso all’avvocato, l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012, non [determina], in base all’art. 9 D.L. cit., l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c.”.

Pertanto, anche successivamente all’entrata in vigore di tale provvedimento, “l’avvocato che intende agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può avvalersi del procedimento per ingiunzione regolato dagli artt. 633 e 636 c.p.c., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente associazione professionale”.

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Sicurezza informatica PMI: le raccomandazioni dell’ENISA

L’ENISA, l’Agenzia Europea per la Cybersecurity, ha condiviso nuove raccomandazioni per aiutare le PMI a gestire meglio la propria sicurezza informatica.

Difendersi dai cybercriminali è diventato ancor più importante alla luce dei cambiamenti imposti dalla pandemia, che ha costretto le aziende ad affidarsi maggiormente all’uso delle tecnologie da remoto e ai servizi cloud. Cambiamenti di cui molti criminali informatici si sono avvantaggiati.

PERCHÈ LE PMI DEVONO STARE ATTENTE

Le PMI risultano essere particolarmente attraenti per i cybercriminali. I motivi principali sono due.

Per prima cosa, molte di loro forniscono beni e servizi ad aziende più grandi e rappresentano quindi delle porte di accesso a queste.

A ciò si aggiunge la l’impreparazione. La velocità con cui le PMI hanno dovuto adattarsi alla nuova situazione imposta dalla pandemia non ha permesso loro di dare la dovuta attenzione alla sicurezza informatica, né di formare i dipendenti rispetto ai rischi legati allo smart working.

SICUREZZA INFORMATICA, LE SFIDE DELLE PMI

Ecco quali sono le criticità che le PMI devono imparare ad affrontare:

  • Scarsa conoscenza in materia da parte del personale
  • Scarsa e inadeguata protezione di informazioni delicate
  • Scarso budget da devolvere alla sicurezza informatica
  • Mancanza di specialisti in cybersicurezza
  • Assenza di linee guida specifiche per le PMI, precise, aggiornate e concretamente realizzabili
  • Uso di dispositivi e reti non aziendali per accedere ai dati aziendali
  • Scarso interesse per la sicurezza informatica da parte del management

LE RACCOMANDAZIONI DELL’ENISA

Le linee guida dell’ENISA sono rivolte prima di tutto alle imprese ma riguardano anche i governi, poiché alcune delle misure di sicurezza informatica possono essere affrontate solo con uno sguardo più generale e, quindi, con il sostegno statale.
Eccone alcune.

Per le persone

  1. Definire chiaramente chi siano i responsabili della sicurezza informatica in azienda.
  2. Maggiore interesse da parte del management verso la materia.
  3. Comunicare meglio le minacce e i protocolli di sicurezza ai dipendenti e formarli in materia
  4. Avere una policy di sicurezza informatica
  5. Saper gestire eventuali terze parti

Sui processi

  1. Svolgere audit periodici
  2. Pianificare le risposte agli incidenti
  3. Utilizzare accessi centralizzati e gestire correttamente le password
  4. Procedere all’aggiornamento regolare, meglio se automatico, di software e dispositivi
  5. Curare la protezione dei dati personali

Sugli aspetti tecnici

  1. Curare la sicurezza delle reti (installando, per esempio, firewall)
  2. Assicurare l’installazione di antivirus in tutti i dispositivi ed endpoint
  3. Scegliere sistemi di protezione della posta elettronica e della navigazione web
  4. Applicare la crittografia il più possibile
  5. Monitorare lo stato della sicurezza informatica, registrando le attività e segnalando eventuali anomalie
  6. Valutare anche la sicurezza fisica degli ambienti e dei dispositivi utilizzati
  7. Effettuare backup regolari, automatizzati e in più copie conservate su archivi diversi.

LA SITUAZIONE DELLA SICUREZZA INFORMATICA NEL MONDO

Per renderci conto di quanto sia importante la cybersicurezza, basti pensare ai risultati del Rapporto Clusit 2021.

Il rapporto ha registrato nel mondo ben 1.871 attacchi informatici talmente gravi da giungere al dominio pubblico, con una crescita del 12% rispetto al 2019.
Dal 2017 ad oggi, il trend è cresciuto del 66%.
I danni economici globali causati da questa tendenza superano i 3.400 miliardi di euro.

Qui le raccomandazioni dell’ENISA per la sicurezza informatica delle PMI.

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Nell’ambito del processo tributario, i messaggi di WhatsApp sono privi di fondatezza probatoria

A differenza degli sms, i messaggi WhatsApp non sono archiviati tramite memorizzazione dalle società telefoniche. In effetti, essi vengono archiviati sul singolo dispositivo: di loro non rimane traccia su alcun supporto informatico, né figurativo. Da qui, la sentenza n.105/2021, in cui viene sancita l’inutilizzabilità della messaggistica WhatsApp nel giudizio tributario.

La Commissione Tributaria dichiara che in giudizio, i messaggi WhatsApp sono inutilizzabili

Reggio Emilia. Succede che un cittadino ricorra contro l’Agenzia delle Entrate per un avviso di accertamento a fini Iva relativo al 2016. Nello specifico, l’Agenzia sostiene che il ricorrente sia l’amministratore di fatto e non di diritto di una società poi dichiarata fallita. Infatti, tale qualifica si manifesterebbe nella messaggistica scambiata con gli uffici amministrativi di detta società in merito alle modalità di consegna e pagamenti di forniture.

Quindi, il cittadino ricorre sostenendo illegittimo l’utilizzo dei messaggi WhatsApp: a suo dire, privi di concreta fondatezza probatoria. Dunque, alla sua richiesta d’annullamento dell’atto impugnato, segue la costituzione in giudizio dell’Agenzia, che contesta le doglianze della controparte. Quindi, la Commissione si pronuncia accogliendo il ricorso per fondata inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp: essendo archiviati esclusivamente sul dispositivo telefonico, essi non lasciano traccia.

Infine, la Commissione considera infondata anche la tesi che vede il ricorrente amministratore di fatto della società. Infatti, anche considerando la messaggistica WhatsApp e la qualifica di amministratore di fatto, sul ricorrente non graverebbero responsabilità solidali per le sanzioni societarie. Concetto confermato anche da disposizioni di legge e pronunce della Cassazione, applicabile a tutte le società non costituite a fini illeciti.

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IL CASO

L’Inail ha riconosciuto un indennizzo per infortunio a una donna caduta dalle scale di casa mentre era al telefono, per lavoro, durante l’orario di smart working.

Inizialmente l’INAIL ne aveva respinto la richiesta di indennizzo ma a seguito del ricorso della donna, l’istituto ha rivisto la propria posizione e ha concesso un risarcimento di 20.000 euro più le spese mediche.

LA BASE GIURIDICA PER IL RICONOSCIMENTO DELL’INFORTUNIO IN SAMRT WORKING

L’infortunio in smart working è coperto dall’art. 23 della legge n. 51 del 2017 sul lavoro agile.
Tale legge estende anche ai lavoratori in smart working le tutele previste in caso di infortunio sul lavoro e di malattie professionali, collegati a prestazioni lavorative effettuate fuori dai locali aziendali.
La legge tratta anche l’infortunio in itinere, ovvero l’infortunio che avviene nel percorso di andata e ritorno dall’abitazione al luogo in cui verrà svolto il proprio lavoro.

Anche la circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017 tratta l’infortunio in caso di smart working, precisando che il lavoratore viene tutelato non solo durante l’attività lavorativa vera e propria, ma anche durante le attività connesse e propedeutiche allo svolgimento delle prime.

IL “RISCHIO ELETTIVO

La circolare specifica anche che la copertura assicurativa non ricade sui rischi che il lavoratore in smart working si assume di sua spontanea volontà contravvenendo alle misure indicate dal datore di lavoro.
Nel caso dovesse infortunarsi, il lavoratore potrebbe tentare di ottenere un indennizzo dimostrando che è stato il datore di lavoro a non valutare correttamente i rischi della prestazione lavorativa o a non aver fornito adeguata formazione per contenerli.

GLI ITALIANI E LO SMART WORKING

La tematica dell’infortunio in smart working è destinata a diventare col tempo una questione di ordinaria amministrazione, data la crescita del lavoro agile nel nostro paese dovuta al perdurare della pandemia.

Secondo l’osservatorio Smart Working, gli italiani che nel 2020 hanno lavorato da casa sono stati infatti ben 6,58 milioni, contro i 570 mila del 2019.
Anche qualora la crisi sanitaria dovesse risolversi, è però plausibile che non si torni più alla situazione pre-covid e che molte aziende e molti lavoratori continuino a scegliere di lavorare da remoto.

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C.N.F.: il processo con preclusioni e decadenze renderebbe la giustizia meno equa e veloce

L’Organismo congressuale forense, l’Unione nazionale delle Camere civili e il Consiglio nazionale forense hanno le idee chiare. Il processo con decadenze e preclusioni sarà «meno equo e celere»; questo è il messaggio della loro lettera congiunta inviata al Senato. Infine, si specifica che tutta l’Avvocatura e l’Associazione italiana fra gli Studiosi del processo civile sono della medesima opinione.

Per U.N.C.C. e C.N.F. il processo con preclusioni e decadenze è un errore

Arriva alla Commissione giustizia al Senato una lettera congiunta da parte dell’Organismo congressuale forense, l’Unione nazionale delle Camere civili e il Consiglio nazionale forense. In essa, dopo i ringraziamenti alla Ministra per gli interventi riguardo la giustizia civile, le critiche circa la disciplina del processo. Infatti: «alcuni emendamenti […] non soltanto lo renderanno meno giusto ma […] finiranno col rallentarlo […]»; il riferimento esplicito è soprattutto all’introduzione di preclusioni e decadenze.

In effetti, secondo i mittenti, la giustizia sarebbe sicuramente meno equa e celere se, sin dagli atti introduttivi, s’inasprissero preclusioni e decadenze. Dunque, si sostiene che, al fine di una giustizia giusta e veloce, sia necessario tutelare innanzitutto chi la giustizia la chiede. Perché «La certezza del diritto e l’effettività della giurisdizione civile, non si possono dissolvere in ragione di una paventata ma inefficace accelerazione dei tempi processuali».

Infine, si legge che questo processo appare sbagliato anche ammettendo di scendere a patti con il compromesso tra dovere di giustizia -dello Stato- e richiesta di produrre ricchezza -dell’Europa-. E, in effetti, Cnf, Ocf, Uncc sottolineano che non si tratta di modificare una valutazione politica, «ma di porre rimedio a una scelta [tecnica] sbagliata». In questo quadro e allo stesso scopo, nella lettera viene sottolineata la presenza di medesimi appelli anche da parte di Accademia e Avvocatura.

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Secondo Morten Lehn, General Manager di Kaspersky per l’Italia, ben la metà dei dipendenti italiani non esegue gli aggiornamenti di software e dispositivi.

E in Europa non va meglio.

L’IT Security Economics 2020, sempre di Kaspersky, ha evidenziato che in Europa il 44% delle aziende utilizza le tecnologie superate, compromettendo la propria reputazione e generando danni economici maggiori rispetto a quelle più disciplinate.

PERCHÈ NON VENGONO INSTALLATI GLI AGGIORNAMENTI?

Lo studio “Pain in the neck”, ha indagato su quali siano le motivazioni per cui così tanti dipendenti italiani non eseguano gli aggiornamenti di software e dispositivi nel momento in cui ricevono la notifica. Eccone alcune:

– la notifica arriva in orario di lavoro (35%),
– la notifica arriva mentre stanno svolgendo un’attività che non vogliono interrompere (26%),
– non vogliono chiudere le applicazioni aperte (23%).

In sostanza, la richiesta di aggiornamento viene percepita come un disturbo.

E infatti, lo studio conferma che più della metà degli intervistati si sente interrotto durante il lavoro da questo tipo di richieste.

Altri ostacoli si incontrano però anche dopo l’installazione: per il 29% degli intervistati imparare a utilizzare le nuove versioni aggiornate è faticoso ed è tempo tolto al lavoro.

Infine, il problema principale: per molti la mancata installazione degli aggiornamenti non rappresenta una minaccia alla sicurezza dell’azienda.

L’IMPORTANZA DI AGGIORNARE SISTEMI E SOFTWARE

Aggiornare programmi, applicazioni e dispositivi permette non solo di accedere a nuove funzionalità ma anche di salvaguardare la sicurezza informatica.

Il motivo è semplice.

Gli sviluppatori mettono sempre alla prova i loro prodotti per cercare tutte quelle debolezze che i cybercriminali potrebbero sfruttare per sferrare attacchi informatici, rubare dati aziendali e anche informazioni personali.

Il rischio è ancor più concreto in questo periodo in cui lo smart working ha imposto a molti dipendenti di lavorare da casa con i propri computer personali, molto meno protetti dalle minacce informatiche. I computer personali rappresentano infatti una miniera di informazioni sui singoli individui ma anche una porta d’accesso ai sistemi aziendali di cui i cybercriminali sono ben consapevoli.

Ecco che, allora, eseguire gli aggiornamenti di dispositivi e software, privati e aziendali, permette di installare tutte le correzioni alle vulnerabilità individuate dagli sviluppatori e, quindi, proteggere meglio la propria privacy e il proprio lavoro dagli attacchi informatici.

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Lo scorso 31 maggio, il Ministero della Giustizia elabora il provvedimento prot.n. 0042043. La volontà è di fornire importanti chiarimenti sui requisiti di validità dei titoli professionali stranieri di Avvocato. In particolare, nel provvedimento si dedica specifica attenzione alla qualifica di Avokat -rumeno- e di Abogado -spagnolo.

Il titolo di Avokat (rumeno) e Abogado (spagnolo) è valido in Italia?

Si tende a fare spesso confusione in merito alla validità che, in territorio italiano, possono avere i titoli di Avvocato acquisiti all’estero. Dunque, proprio al fine di fornire chiarimenti sui requisiti considerati necessari, nasce il recentissimo provvedimento (prot.n. 0042043) ad opera del Ministero della Giustizia. In particolare, in esso si fa riferimento e si fa luce sul titolo di avvocato rumeno (Avokat) e spagnolo (Abogado).

Innanzitutto, sul titolo rumeno di avokat, il provvedimento del 31 maggio precisa che esiste un’unica autorità che può verificarne la validità. Stiamo parlando della Unionea Nationala a Barouilor din Romania (U.N.B.R.): condizione sine qua non per la pratica nel territorio italiano. Dunque, senza questa abilitazione regolare nel proprio paese, nemmeno l’eventuale pratica triennale condotta in Italia conta alcunché.

Invece, in merito al titolo di Abogado spagnolo, non basta il riconoscimento da parte dell’autorità dello Stato. Infatti, per chi si è laureato e ha richiesto l’omologa del titolo entro il 31/10/2011 sono necessarie le attestazioni ufficiali dello stato. Invece, chi si è laureato dopo questa data deve fornire la documentazione dettagliata dell’intero percorso di ottenimento del titolo (università+ master+ esame).

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Fino a che punto le attività dei lavoratori possono essere sorvegliate dal datore? Una risposta ce la offre il caso del Comune di Bolzano, reo di controllare la navigazione internet dei propri dipendenti in modo eccessivo e per questo sanzionato dal Garante della Privacy.

NAVIGAZIONE INTERNET AL DI FUORI DELLE ATTIVITÀ LAVORATIVE: IL CASO

Il Comune di Bolzano avvia un procedimento disciplinare contro un lavoratore al quale viene contestato di aver visualizzato Facebook e YouTube durante l’orario di lavoro. Il lavoratore scopre allora di essere stato controllato e presenta un reclamo al Garante della Privacy che procede con le indagini.

Si svela allora un sistema di monitoraggio e filtraggio delle attività su internet dei dipendenti da parte del Comune, corredato dalla conservazione dei dati raccolti per un mese e la creazione di report.

Il Garante decide quindi di procedere contro il Comune, nonostante questo avesse stipulato con i sindacati un accordo in materia e nonostante il procedimento venisse archiviato per l’inattendibilità dei dati raccolti a proposito della navigazione internet del lavoratore.

IL TRATTAMENTO DEI DATI DEVE AVVENIRE SEMPRE NEL RISPETTO DEL GDPR

Il Garante ha spiegato che qualsiasi trattamento di dati personali deve avvenire in accordo alle regole previste dal Gdpr. Il sistema architettato dal Comune di Bolzano invece

«consentiva operazioni di trattamento non necessarie e sproporzionate rispetto alla finalità di protezione e sicurezza della rete interna, effettuando una raccolta preventiva e generalizzata di dati relativi alle connessioni ai siti web visitati dai singoli dipendenti. Il sistema raccoglieva inoltre anche informazioni estranee all’attività professionale e comunque riconducibili alla vita privata dell’interessato».

Inoltre:

«l’esigenza di ridurre il rischio di usi impropri della navigazione in Internet non può portare al completo annullamento di ogni aspettativa di riservatezza dell’interessato sul luogo di lavoro, anche nei casi in cui il dipendente utilizzi i servizi di rete messi a disposizione del datore di lavoro».

Il caso si è concluso con una sanzione di 84.000€ e la revisione di tutti gli aspetti tecnici necessari ad «anonimizzare il dato relativo alla postazione di lavoro dei dipendenti, cancellare i dati personali presenti nei log di navigazione web registrati, nonché aggiornare le procedure interne individuate e inserite nell’accordo sindacale».

La raccolta, il trattamento e l’uso dei dati personali è importante. Per adeguare la tua azienda o il tuo studio legale, scopri i servizi privacy di Servicematica.

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Sanzione disciplinare all’avvocato che offende la collega

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Durante una riunione, dà della “ragazzina” alla giovane collega: sanzionato avvocato anziano

Per risolvere in via bonaria una controversia, un Avvocato anziano offende la giovane collega dandole della ragazzina. Dunque, il Cnf lo sanziona con l’avvertimento perché, proprio in ragione della sua esperienza ed età, avrebbe potuto evitare. Infatti, chi riveste il ruolo di Avvocato, per mantenere decoro e dignità, deve “astenersi da […] espressioni sconvenienti od offensive” (art. 52 ncdf, già 20 c.d.f.).

L’Avvocato anziano che sminuisce la giovane collega va sanzionato per disvalore

Firenze. Succede che, nel corso di una riunione tenuta -anche in presenza di terzi- per risolvere in via bonaria una controversia, un Avvocato offenda una collega. In particolare, si tratta di un avvocato anziano che, rivolgendosi nei confronti di una giovane collega, avrebbe utilizzato l’epiteto di “ragazzina”. A questo punto, succede che la giovane ricorra al C.O.A. presentando un esposto.

Quindi, il C.O.A. avvia procedimento disciplinare nei confronti dell’Avvocato che, dovendo difendersi, nega i fatti contestati, sminuendone la gravità. Allora, il fascicolo viene trasferito al Consiglio distrettuale di disciplina, ove l’Avvocato deve rispondere della violazione degli artt. 9, 19, 52 comma 1 Codice deontologico. Infatti, l’attività istruttoria del C.D.D. accerta la responsabilità dell’Avvocato in relazione ai suddetti capi d’imputazione, irrogandogli la sanzione dell’avvertimento.

[newsletteravvocati]

Dunque, l’Avvocato ricorre al C.N.F. chiedendo il proscioglimento dalle accuse: la sua condotta aggressiva non è provata e -comunque- la responsabilità sarebbe della Collega. Tuttavia, il C.N.F. rigetta il ricorso: le valutazioni del C.D.D. sono corrette e le espressioni utilizzate offensive. In effetti, chi riveste il ruolo di Avvocato “deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive” (art. 52 ncdf, già 20 c.d.f.).

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