«Ora buon senso»: Meloni invita Nordio a limitare le esternazioni

Attualmente non esiste ancora il testo della riforma della giustizia. Il premier Meloni, che fatica a gestire i suoi ministri, invita ad una maggior coordinazione con Palazzo Chigi. Il ministro Nordio smentisce ogni dissenso rivendicando «piena sintonia».

Meloni vuole sedare le agitazioni che stanno scuotendo la maggioranza e mostrare che la linea di Palazzo Chigi non va contro quella del Guardasigilli. Nelle prossime ore Meloni vedrà il ministro Nordio per chiarire la situazione che si è creata negli ultimi giorni.

Le opposizioni si stanno scatenando. Per Renzi, Nordio è «l’unico che può cambiare le cose», e secondo lui il ministro «non mollerà». Se mai decidesse di farlo, «il problema non sarà per Nordio, ma per la Meloni».

Nordio smentisce ogni dissenso. L’idea di abbandonare le stanze di via Arenula non gli è mai passata per la testa, e ha rivendicato «piena sintonia» con il premier. Quest’ultima ha infatti confermato tutta la sua stima e il suo sostegno: «Leggo interpretazioni forzate e surreali, ma io lavoro benissimo con lui, siamo sulla stessa linea. Non è vero che lo freno e non ha bisogno di essere blindato, perché è naturalmente blindato dal rapporto che ha con me».

A chi fa notare la divergenza sui temi sensibili come, per esempio, le intercettazioni, Meloni risponde: «Carlo è una persona serissima, qualora avessimo punti di vista diversi non avremmo alcuna difficoltà a trovare una sintesi».

È evidente lo sforzo fatto per ammorbidire i toni. Per il premier, infatti, la priorità è scongiurare che si riaccenda uno scontro tra magistratura e politica, e per questo, dopo aver rinnovato la fiducia e l’apprezzamento nei confronti di Nordio, condividerà con lui la fatica di dover governare insieme ad una squadra di ministri troppo loquaci.

Alfredo Mantovano, sottosegretario del Presidente del Consiglio e magistrato ha detto che «sarebbe meglio non fare troppe dichiarazioni, tanto più che non c’è ancora un testo».

Infatti, in via Arenula non circola ancora alcuna bozza della riforma. Per questo, Meloni, dopo aver concordato i punti chiave del cronoprogramma, chiederà a Carlo Nordio di contenere le esternazioni, rafforzando invece il coordinamento con la presidenza del Consiglio.

Le pressioni, comunque, sono fortissime. Alessandro Cattaneo, capogruppo di Forza Italia, assicura che il partito di Berlusconi non ha intenzione di aprire uno scontro, anche se vorrebbe cambiare l’abuso d’ufficio, la legge Severino e procedere verso la separazione delle carriere.

Ma anche all’opposizione Nordio trova degli alleati. Carlo Calenda, durante la trasmissione l’Aria che tira avverte Meloni: «Nordio non c’entra niente con la cultura di FdI, ha idee coincidenti con le nostre. Se lo bloccano avranno problemi».

Ma il premier non ci pensa proprio a bloccare il Guardasigilli. L’unica cosa che ha intenzione di fare è contenerlo, dato che il governo non è interessato a dichiarare guerra aperta alle toghe.

«Il ministro della Giustizia Nordio attacca i pm antimafia. Firmiamo per cacciarlo»

Nel frattempo, il Fatto Quotidiano ha avviato una petizione su Change.org per cacciare il ministro della Giustizia Nordio. Riportiamo il testo della petizione di seguito:

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dichiarato ripetutamente il falso davanti al Parlamento sulle intercettazioni nelle indagini di mafia e corruzione. Ha calunniato i magistrati e le forze dell’ordine sostenendo che usano manipolarne e strumentalizzarne politicamente le trascrizioni. Non contento, ha apertamente polemizzato alla Camera con la Procura di Palermo, “rea” di aver catturato Matteo Messina Denaro e spiegato di averlo fatto proprio grazie alle intercettazioni. Infine ha addirittura invitato i parlamentari a non rendersi “supini dei pm”, che “vedono la mafia dappertutto”.

Le sue dichiarazioni, contraddizioni, giravolte e bugie, per non parlare delle controriforme giudiziarie e (in)costituzionali in parte minacciate e in parte già avviate, fanno di Nordio un personaggio imbarazzante per una parte della sua stessa maggioranza e soprattutto per ogni cittadino onesto: un soggetto che non può restare un minuto di più al vertice del Ministero della Giustizia.

Ci appelliamo ai presidenti della Repubblica e del Consiglio perché lo inducano immediatamente alle dimissioni e alle opposizioni perché presentino nei suoi confronti una mozione di sfiducia individuale.

Il Fatto Quotidiano e i suoi lettori si impegnano fin da ora a raccogliere le firme per un referendum abrogativo, nel caso in cui le controriforme minacciate e avviate da Nordio contro la Giustizia, contrarie alla Costituzione, alle convenzioni internazionali e alla giurisprudenza delle Corti europee, diventassero sciaguratamente leggi dello Stato Italiano.

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Non dare il massimo per dare il massimo: la regola dell’85%

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Avvocato, hai mai sentito parlare della regola dell’85%?

La regola è nata da Carl Lewis, il cosiddetto Figlio del Vento. Lewis, detentore di record di velocità su pista, fino a metà gara era in netto svantaggio.

In molti potrebbero pensare che Lewis fosse uno che partiva lento e recuperava successivamente, dando un grande sprint nella seconda metà della gara. Osservando bene le gare, invece, si è notato che Lewis non modificava stile e parametri, ed era sempre rilassato.

Mentre gli altri deceleravano perché avevano bruciato ed esaurito tutte le forze, Lewis li sovrastava, dominando la corsa in maniera rilassata. Non dava, quindi, il suo 100%, ma soltanto l’85% delle sue energie. Ma lo faceva dall’inizio alla fine, senza mai calare.

Non dare il massimo potrebbe essere una paradossale regola di vita, che ci consente di dare… il massimo! Il ragionamento potrebbe sembrare irrazionale, è vero, ma c’è una motivazione dietro tutto questo.

Nel mondo del lavoro, dare sempre il 100% predispone al burnout. Oltre a non essere umanamente possibile dare costantemente il 100%, nel momento in cui non ci riusciremo cadremo nell’insoddisfazione. E se anche riuscissimo a dare sempre il massimo, rischieremmo di diventare come uno degli avversari di Lewis, che arrivavano ad un punto in cui dovevano per forza decelerare.

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Con il metodo dell’85% non otterremo il massimo dei risultati; ma è sicuramente il metodo più saggio per salvaguardare e conservare le energie. In questo modo, quando sarà il momento di dare il 100%, saremo prontissimi.

Non è un semplice cambio di prospettiva, ma un trucco mentale altamente determinante. Con la regola dell’85% si lavora sulla continuità, e non sui picchi prestazionali.

Questo metodo non si adatta soltanto al mondo sportivo ma è perfetto anche per il mondo del lavoro. Se pretendiamo sempre il massimo da noi stessi, finiremo inevitabilmente per bruciare tutte le nostre risorse: abbiamo tutti un limite!

Qualsiasi motore si fonde se va al massimo. Ma soltanto i motori che non girano sempre al massimo conservano le loro energie per andare al massimo nel momento in cui serve.

Se non se ne ha l’abitudine, non è semplice andare al massimo. Ma fare qualcosina in meno rispetto a ciò che la tua mente ti dice di fare non è un tradimento verso se stessi, ma un buon metodo per tagliare il traguardo dei 100 metri.

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L’anno scorso, una startup tedesca ha lanciato il primo “social network positivo per gli adolescenti”. Si chiama Slay e ha raggiunto il primo posto nell’App Store tedesco soltanto 4 giorni dopo il lancio.

Ad oggi, Slay vanta 250mila utenti registrati, e comincia a spopolare anche in altri paesi europei, come il Regno Unito. Ma cosa rende questo social tanto unico e diverso da tutti gli altri? La felicità!

Dopo aver aperto l’applicazione verranno visualizzate 12 domande a cui si potrà rispondere soltanto se si sceglie un altro utente al quale fare un complimento in maniera anonima. Se l’app chiede «Chi mi ispira a fare del mio meglio?» noi potremmo rispondere scegliendo una persona a cui fare questo complimento. In anonimo.

Oltre a fare complimenti, riceveremo anche complimenti che rispondono sempre alle 12 domande che propone l’app. Slay, in questo modo, alimenta un circuito di contenuti positivi.

L’obiettivo di Slay è proprio quello di migliorare le relazioni tra gli adolescenti attraverso il mezzo che utilizzano di più, ovvero i social, evitando di inceppare in commenti e meccanismi negativi.

Slay viene definita come “l’app dei complimenti”. La piattaforma afferma di essere completamente sicura, che «non venderà né condividerà mai dati personali con terze parti». Slay, inoltre, è completamente priva della funzione di messaggistica diretta, anche se ogni utente può aggiungere collegamenti ai profili social, in modo tale che ci si possa scambiare messaggi al di fuori dell’app.

C’è da considerare, inoltre, che le stesse domande a cui dovranno rispondere gli utenti vengono proposte dall’app e non da altre persone. Questo limita tantissimo eventuali rischi e meccanismi dannosi a cui vanno incontro gli adolescenti.

Ci sono tutti i presupposti per un social felice, quindi, Ora bisogna semplicemente restare a vedere se Slay riuscirà a conquistare un pubblico su scala mondiale.

I fondatori dell’app sono tre 23enni, Fabian Kamberi, Jannis Ringwald e Stefan Quernhorst. L’idea proviene da Kamberi, che ha dichiarato di aver tratto ispirazione dalle esperienze dei fratelli che hanno vissuto le negatività dei social durante la pandemia.

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Lidia Poët il 9 agosto 1883 divenne la prima donna italiana ad essere ammessa all’esercizio dell’avvocatura, vincendo le numerose resistenze dei suoi colleghi maschi, incapaci di accettare una donna all’interno dell’Ordine degli avvocati.

Dopo 140 anni, Netflix ha deciso di celebrare la lotta della prima avvocata con una serie dal titolo La legge di Lidia Poët. La serie arriverà il 15 febbraio e vedrà come attrice protagonista Matilda De Angelis.

Il più grande ostacolo che Lidia Poët incontrò sulla sua strada fu il Regno d’Italia, ovvero il primo a volersi opporre alla sua volontà di diventare avvocata.

Le donne sono cittadini come gli uomini

Nata a Perrero, in provincia di Torino, nel 1855 da una famiglia benestante, Lidia Poët diventò prima maestra, e poi si diplomò al Liceo Beccaria di Mondovì nel 1877.

Decise di iscriversi alla facoltà di legge nel 1878 all’Università di Torino. Con una tesi sulla condizione femminile all’interno della società e sul diritto di voto per tutte le donne, superò l’esame di abilitazione alla professione forense con 45 punti su 50. Chiese, dunque, l’ammissione all’Ordine degli avvocati.

L’iscrizione venne accolta, ma soltanto dopo innumerevoli polemiche. Si dimisero indignati Desiderato Chiaves e Federico Spantigati, due membri importanti dell’ordine. Per la commissione giudicatrice, «a norma delle leggi civili italiane, le donne sono cittadini come gli uomini, e pertanto possono entrare nell’ordine degli avvocati».

«La donna non può esercitare l’avvocatura»

Ma l’iscrizione di Poët venne successivamente annullata dalla Corte d’Appello di Torino, a causa di un ricorso presentato dal procuratore generale del regno, che ordinò di cancellarla dall’albo. Poët non si arrese, e portò il caso alla Corte di Cassazione che confermò la sentenza in quanto «la donna non può esercitare l’avvocatura».

La decisione era figlia di due ragioni. La prima riguardava l’esclusione delle donne dagli uffici pubblici, cancellata nel 1919 grazie alla legge Sacchi. La seconda derivava dalle superstizioni dell’epoca, secondo la quale «nella razza umana, esistono diversità e disuguaglianze naturali tali per cui non si può chiedere al legislatore di rimuovere anche le differenze naturali insite nel genere umano».

Tali credenze sono state tradotte dalla Corte di Cassazione in giurisprudenza. Dunque, l’uso del genere maschile nelle leggi che andavano a regolare la professione forense era da intendersi riferito soltanto ai maschi, mai alle donne. Avvocata o avvocatessa erano termini che non venivano mai utilizzati.

Le «disuguaglianze naturali», secondo gli avvocati, avrebbero reso le donne non idonee all’esercizio della professione. Una motivazione non giuridica, dunque, ma frutto degli stereotipi di genere per i quali non era opportuno che le donne si ritrovassero «nello strepitio dei pubblici giudizi».

Le «fanciulle oneste» non avrebbero potuto discutere argomenti imbarazzanti. Se una donna voleva diventare avvocata, non avrebbe potuto per le sue caratteristiche “naturali” ma anche perché sarebbe diventata una “fanciulla disonesta“.

L’avvocata Poët, per gran parte della sua vita, non riuscì a vedere riconosciuto il suo diritto a far parte dell’Ordine degli avvocati. Tuttavia, ciò non le impedì di continuare ad agire per inseguire l’emancipazione e la libertà delle donne.

L’avvocata lavorò come componente della segreteria nei Congressi penitenziari internazionali, occupandosi dei diritti dei minori e dei detenuti. Affrontò il tema della riabilitazione e diventò delegata italiana di Congressi esteri.

Nel 1903 entrò nel Consiglio nazionale delle donne italiane, producendo dei documenti che richiedevano l’estensione dei diritti civili e del diritto di voto alle donne, ma anche di norme civili e giuridiche considerate troppo progressiste per l’epoca. Infatti, molte di queste sono entrate nell’ordinamento italiano nei decenni successivi (assistenza sociale per minori con genitori in carcere, abrogazione del lavoro minorile e divieto di alcolici ai minori).

Soltanto nel 1919, a 65 anni, Lidia Poët fu riconosciuta come avvocata, diventando la prima donna in Italia a far parte dell’Ordine degli avvocati.

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Avere in mente un progetto preciso significa anche avere in mente come raggiungerlo. Non ci sono obiettivi senza pianificazioni di base che consentono di realizzare un progetto nel più breve tempo possibile.

Obiettivi e pianificazione sono due concetti collegati tra loro. Quando manca uno, l’altro è insufficiente, e non ci sarebbe modo di raggiungere alcun traguardo.

Per far crescere uno studio legale, dunque, sono necessari focus e obiettivi. Ma quali step dobbiamo seguire per realizzare un’attività di successo?

Le difficoltà dell’avvocato

Tra gli studenti di giurisprudenza, la professione più ambita è quella dell’avvocato. Ma il giovane laureato che intraprende la strada dell’avvocatura ignora le difficoltà che incontrerà nel suo percorso.

Ne verrà a conoscenza durante il praticantato, quando capirà di essere uno tra i tanti tirocinanti che hanno il sogno di diventare un avvocato di successo. Inoltre, una volta acquisita l’abilitazione, l’avvocato incontrerà altri ostacoli, questa volta dovuti alla burocrazia eccessiva del mondo legale.

I costi per la gestione di uno studio in proprio sono alti, e per affermarsi nel mondo degli avvocati non serve soltanto avere ottime conoscenze e un curriculum da paura. Le difficoltà che di solito incontra un avvocato sono una concorrenza eccessiva, limitazioni alla professione e una deontologia che non si lascia sfuggire la possibilità di trasformare l’avvocatura in una professione manageriale.

L’avvocato finisce a dover reinterpretare la propria professione. Tutto parte dal focus, dall’individuazione di un interesse su cui riporre la massima attenzione. Ma per trasformare un focus in realtà bisogna avere in mente il piano da seguire: ecco che entra in gioco la visualizzazione.

Come funziona la visualizzazione

Immaginiamo, per esempio, di dover partire per un viaggio di piacere: il focus sarà la pianificazione della vacanza. Visualizzeremo come fare la vacanza, quale mezzo di trasporto utilizzare, quanti soldi spendere, dove andare a dormire e quali tappe seguire.

Dunque, avremo puntato la nostra attenzione all’obiettivo vacanza, dove avremo individuato il vero focus del progetto. Tutta l’organizzazione rappresenta la visualizzazione che abbiamo avuto del nostro viaggio, dove ogni cosa viene definita attentamente senza lasciare nulla al caso.

Focus e organizzazione vanno a braccetto: l’assenza di uno o l’inadeguatezza dell’altro potrebbe portarci lontano dal raggiungimento dei nostri obiettivi.

Come definire il focus?

Se hai un’attività in proprio e non sei associato con altri professionisti, l’obiettivo è sicuramente far crescere il tuo studio legale. Magari ti vedi in un ufficio più grande, in un loft al centro della città, con postazioni destinate ai tuoi futuri collaboratori.

Ci sarà molto lavoro da svolgere, e la maggior parte di esso verrà delegato ad un team fidato. Il tuo compito sarà fare quello che hai sempre sognato, ovvero l’avvocato con la A maiuscola: assistere i clienti, riceverli in ufficio, gestire l’attività ma senza occuparti necessariamente di tutte le incombenze.

Il tempo a tua disposizione, in altri termini, non sarà dedicato al controllo delle fatture, a mettere in ordine l’archivio, a prendere appuntamenti e a inoltrare email. Il tempo che avrai a tua disposizione sarà dedicato alla tua passione vera e propria, e lo gestirai in modo tale da dimostrare tutta la tua competenza e professionalità.

Il focus di un avvocato che vuole far crescere il suo studio legale è l’attenzione particolare riposta nella creazione di un’attività professionale efficiente ed efficace.

Tutto è al suo posto, tutti hanno il proprio compito e si lavora in gruppo se lo richiedono le circostanze. Anche se tutti hanno il proprio ruolo, nel complesso sarete una società legale, magari con una particolare specializzazione giuridica.

Non è un traguardo particolarmente difficile da raggiungere. Alcuni dei tuoi colleghi, infatti, hanno già fatto il grande passo. Quello che manca è la visualizzazione della strada da percorrere per raggiungere questo obiettivo.

Bisogna cercare di capire che cosa effettivamente si desidera fare della propria attività. Pensa al tuo lavoro tra qualche anno, e focalizzati su dove vorresti essere e cosa vorresti fare.

Magari stai assistendo un cliente molto importante, oppure stai collaborando con un’azienda che ha richiesto aiuto proprio al tuo studio al fine di trattare una data situazione. Significa che stai pensando alla tua crescita e a quella dello studio legale.

Magari vorresti specializzarti in qualcosa che non possono offrire i tuoi colleghi, perché solo tu la sai proporre. Quindi, i tuoi servizi saranno impeccabili, e il mercato ti conoscerà come una vera e propria identità di marchio.

Chi parlerà di te si riferirà al tuo studio legale come se stesse parlando con una grande azienda. L’idea ti rende felice soltanto al pensiero, ma come realizzarla?

Visualizzare un obiettivo

Una cosa è sognare, un’altra è far sì che i sogni diventino realtà. Per far sì che questo accada è necessario visualizzare come fare per raggiungere gli obiettivi.

Una volta stabilito il focus e incentrato tutto l’interesse e le attenzioni a riguardo bisognerà essere orientati agli step da seguire per tagliare il traguardo. Ci si dovrà organizzare, trovare le giuste risorse e scegliere la strada più adatta per evitare perdite inutili.

Nulla potrà essere realizzato senza soldi ed energie. Tranne nel caso in cui non arrivi un colpo di fortuna: in quel caso le uniche risorse da impiegare saranno la produttività e un ottimo investimento in denaro.

La produttività è tale se lavorando otteniamo un profitto che aumenta, oppure aumentando il carico di lavoro complessivo. Pensa, inoltre, alla gestione del tuo tempo e considera le volte in cui riesci a concludere un lavoro entro i tempi prestabiliti. Nel caso in cui tu abbia dei ritardi, cerca di capire dove sprechi tempo prezioso e cerca di trovare il modo di riparare questa falla.

Una volta risparmiato tempo, comprenderai come procedere all’aumento del carico di lavoro. Come fare a conquistare la fiducia di un cliente importante senza competenze per rispondere alle sue esigenze? Lavorare di più significa migliorarsi, crescere, fare esperienza e distinguersi.

Studio legale: focus e visualizzazione

Focus e visualizzazione per uno studio legale significano molto. Permettono di creare il proprio spazio nella concorrenza: quando un avvocato si prefissa l’obiettivo di far crescere il proprio lavoro, non soltanto sta migliorando la qualità della propria vita, ma fornisce un’utilità sociale non indifferente.

Sono elementi che in uno studio legale significano molto, non soltanto per quanto riguarda il profitto. Un ufficio che mira a far crescere la propria attività misurerà il proprio rendiconto in termini di reputazione e di brand identity.

Se uno studio legale offre servizi mirati, avrà più possibilità di determinare la propria attività con un certo spessore. Non crescerà soltanto l’ufficio come portafogli clienti e come immobile, ma anche il know-how di chi fa parte dello studio.

La crescita di uno studio è collegata alla crescita professionale e personale dell’avvocato, che si ritroverà un domani a dare un senso alla propria attività. Se è un lavoro che si fa con passione e con l’intenzione di un’evoluzione professionale, tutta la società ne trarrà guadagno.

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Di recente, la Regione Veneto con una delibera ha annunciato l’arrivo di un algoritmo, RAO (Raggruppamenti di Attesa Omogenea), finalizzato alla gestione delle liste d’attesa negli ambulatori.

E’ un sistema che ha l’obiettivo di differenziare i tempi d’attesa per le persone che accedono ai servizi ambulatoriali, con criteri clinici che determinano la priorità.

Tuttavia, il sistema è stato ampiamente criticato dall’Ordine dei medici e in particolare da Fimmg. Il sindacato ha infatti invitato i medici a non applicare in alcun modo l’algoritmo e la società che fornisce i software agli ambulatori a non rendere operativo il provvedimento della Regione.

In questo contesto, vista anche la sensibilità dei dati che verranno gestiti dall’algoritmo, il Garante ha annunciato di aver avviato un’istruttoria sul sistema RAO, inviando una richiesta di informazioni alla Regione Veneto per consentire all’Autorità l’acquisizione di tutti i dati necessari per verificare la conformità di questo sistema, e per deliberare l’adozione dello stesso alla normativa vigente in materia di privacy.

L’istruttoria del Garante

Il Garante per la protezione dei dati, quindi, ha annunciato di aver intrapreso un’istruttoria sul sistema RAO.

Nel dettaglio, il Garante ha annunciato di aver inviato alla Regione Veneto una richiesta di informazioni «per verificare la conformità alla normativa privacy di una delibera, in base alla quale non sarebbero più i medici di medicina generale a scegliere la classe di priorità della prestazione richiesta per il paziente, ma un sistema basato sull’intelligenza artificiale. Sarebbe in sostanza un algoritmo a stabilire i tempi di attesa per le prestazioni prescritte».

Il sistema di IA pone in essere un trattamento su larga scala dei dati c.d. particolari, come quelli sulla salute, che sono necessari per assegnare la classe di priorità, che necessita di maggiori verifiche.

Entro 20 giorni è previsto, inoltre, che «la Regione Veneto dovrà comunicare all’Autorità ogni elemento utile alla valutazione del caso, precisando in particolare se l’attribuzione della classe di priorità delle prestazioni sanitarie (urgente, breve, differita, programmata) sia realmente effettuata in forma automatizzata, attraverso algoritmi. L’indicazione della classe di priorità non sarebbe, peraltro, modificabile dal medico».

La Regione, inoltre, dovrà:

  • indicare anche la norma giuridica che sta alla base del trattamento, il tipo di algoritmo utilizzato, i data base e le varie tipologie di documenti e informazioni che vengono trattati dal sistema;
  • specificare le modalità utilizzare per rendere completa e corretta l’informativa, ai sensi di quanto disposti dagli articoli 12 e 14 del GDPR;
  • fornire elementi necessari alla valutazione d’impatto effettuata, indicando il numero dei pazienti che è stato coinvolto nel trattamento.

Se non vengono soddisfatte le richieste del Garante, vista anche la sensibilità dei dati oggetto di trattamento e il contesto delicato, potrebbe venire bloccato completamente il trattamento, con tutte le conseguenze del caso come una sanzione pecuniaria per trattamento illecito dei dati o per la violazione degli obblighi di valutazione del rischio previsti normalmente dalla normativa privacy e dalle norme di settore.

Ricordiamo, infatti, che nel settore sanitario si richiede agli operatori di agire con criteri di tutela dei dati personali più stringenti rispetto a quelli che vengono generalmente richiesti ai responsabili e ai titolari di trattamento che operano in settori con rischio minore.

Il metodo RAO ha l’obiettivo di differenziare i tempi d’attesa dei pazienti che «accedono alle prestazioni specialistiche ambulatoriali erogate direttamente dal SSN o per conto del SSN» secondo criteri clinici che sono stati indicati nelle tabelle allegate al Manuale.

Dopo la pandemia, infatti, le lunghe liste d’attesa si sono intasate proprio a causa delle sanificazioni che richiedono gli ospedali e dal cadenzamento degli appuntamenti con tempistiche più lunghe.

Si legge: «Il percorso di coinvolgimento progressivo dei principali attori (medici di famiglia, medici specialisti, rappresentanti dei cittadini) che prendono parte al processo di prescrizione ed erogazione delle prestazioni specialistiche, porta all’identificazione condivisa della indicazioni cliniche per ciascun gruppo di priorità clinica, alle quali sono associate a priori, cioè al momento stesso della prescrizione della prestazione, i tempi di attesa ritenuti adeguati».

Le informazioni cliniche «con i relativi tempi di attesa sono indicazioni di aiuto alla decisione per il medico che prescrive la prestazione, coerenti con l’appropriatezza clinica».

I criteri che sono stati utilizzati come riferimento sono stati periodicamente aggiornati con il coinvolgimento diretto dei medici prescrittori, i soggetti che erogano le prestazioni specialistiche e i cittadini stessi.

Il sistema ad oggi prevede 77 tabelle, che riguardano 109 prestazioni specialistiche. Nel manuale si precisa che le indicazioni cliniche che sono state indicate nelle tabelle si riferiscono alle condizioni che non riguardano direttamente l’emergenza.

In alcuni casi, tuttavia, «i Gruppi Tematici hanno ritenuto opportuno elencare indicazioni cliniche riferite a situazioni non differibili, che presuppongono un sospetto di patologia tale da richiedere una più rapida presa in carico del paziente».

Per alcuni tipi di visite e prestazioni, inoltre, non è stata indicata alcuna indicazione clinica. «In tutte le classi di priorità», inoltre, «in presenza di indicazioni cliniche, è stata mantenuta anche la voce “Altro”, che fa riferimento a condizioni cliniche non esplicitate dai Gruppi Tematici che, tuttavia, il medico prescrittore potrebbe decidere di attribuire a quella classe di priorità».

Basandoci su queste considerazioni, il tempo massimo d’attesa viene classificato fino a 90 giorni, indicando anche le sintomatologie cliniche che portano all’assegnazione del livello di priorità. Il fine è favorire situazioni d’emergenza, anche se sussistono ancora dubbi in relazione a queste classificazioni.

Sostanzialmente, i medici, mentre compilano le impegnative, dovranno attribuire una classe di priorità, riferendosi soltanto alle tabelle che sono state rese note con la delibera della regione.

I medici non sono d’accordo

Il sistema non è stato accolto benissimo tra i medici.

Domenico Crisarà, vicesegretario di Fimmg e presidente provinciale dell’Ordine dei medici di Padova ha contestato la delibera dichiarando che i medici non possono essere accostati ad un algoritmo.

Secondo Crisarà la delibera «vuole condizionare i prescrittori, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e specialisti, nell’attribuzione delle classi di priorità legandole a generiche situazioni patologiche che prescindono dall’oggettivazione del medico».

«L’attribuzione della priorità a tutti gli effetti, anche medico legali, un atto medico di cui solo il medico è responsabile e quindi non può essere sostituito da un semplice algoritmo che non tenga conto delle condizioni oggettivabili in quel momento e in quel contesto preciso di quel paziente».

I medici padovani sono intenzionati, dunque, a non applicare alcun protocollo, e hanno deciso di diffidare della software house che fornisce gestionali negli ambulatori dei medici dell’Usl 6 senza autorizzazione di medici.

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Il ministro della Salute ha dichiarato di voler estendere il divieto di fumo «in altri luoghi all’aperto in presenza di minori e donne in gravidanza; eliminare la possibilità di attrezzare sale fumatori in locali chiusi; estendere il divieto anche alle emissioni dei nuovi prodotti come sigarette elettroniche e prodotti del tabacco riscaldato».

Ad oggi, in Italia le e-cig vengono utilizzate da 1 milione e mezzo di persone.

Secondo l’Istat, è un trend in crescita «lenta e costante». Per questo il ministro della Salute Schillaci sta programmando una nuova stretta, dopo 20 anni dall’entrata in vigore della Legge Sirchia, per vietare il fumo ed e-cig in generale.

Schillaci, in Commissione Affari sociali della Camera, ha annunciato di «proporre l’aggiornamento e l’ampliamento della legge 3/2003 per estendere il divieto di fumo in altri luoghi all’aperto in presenza di minori e donne in gravidanza; eliminare la possibilità di attrezzare sale fumatori in locali chiusi; estendere il divieto anche alle emissioni dei nuovi prodotti come sigarette elettroniche e prodotti del tabacco riscaldato; estendere il divieto di pubblicità ai nuovi prodotti contenenti nicotina».

L’ipotesi è stata recentemente auspicata dall’ex ministro della Salute Sirchia, colui che ha dato il nome alla famosa legge 20 anni fa, introducendo il divieto di fumare nei luoghi al chiuso e cambiando radicalmente le abitudini dei cittadini italiani.

Il provvedimento piace anche agli esperti, che sottolineano da tempo i rischi per la salute causati da prodotti come tabacco riscaldato e sigarette elettroniche.

«Nel 2014», secondo i dati Istat, «gli utilizzatori delle e-cig over 14 erano circa 800mila. Poi, soprattutto a partire dal 2017, si è visto un progressivo aumento, fino ad arrivare nel 2021 a quasi un milione e mezzo di persone, soprattutto tra i giovani».

Per Roberta Pacifici, direttrice del Centro Nazionale Dipendenze e Doping, «non abbiamo dimostrazione scientifica che aiutino a smettere di fumare e di utilizzare nicotina, anzi. I nostri dati dimostrano che questi nuovi prodotti», come tabacco riscaldato e sigarette elettroniche, «contribuiscono alla recidiva di chi aveva smesso».

Continua: «Ostacolano anche la cessazione, cioè il percorso di condivisione che le persone intraprendono proprio per liberarsi da questa dipendenza. Questo è un dato ormai acclarato. Inoltre, l’87% di chi consuma sigarette elettroniche è un consumatore duale, cioè consuma sia quella elettronica sia quella tradizionale».

Ogni anno, in Italia, ci sono «93mila morti a causa del tabacco, il 20,6% di tutti i decessi». Questo è quando denuncia Sima, Società Italiana di Medicina Ambientale, che promuove a pieni voti i provvedimenti annunciati da Schillaci.

Lo scorso ottobre, inoltre, l’OMS aveva anche messo in guardia dai danni agli occhi che provoca il fumo passivo.

Negli altri Paesi ci sono tassazioni e divieti, con posizioni molto diverse anche all’interno dell’Ue.

Spiega Barbara Mennitti, giornalista ed esperta in politiche sulla riduzione del danno da fumo: «Alcuni paesi nella UE puntano sullo svaping come strumento della lotta al fumo, come Francia, o Olanda che, dopo un lungo dibattito, è in procinto di vietare aromi in liquidi per e-Cig, per renderle meno attrattive».

«Inoltre, in 36 Paesi al mondo è vietata tout court la vendita di sigarette elettroniche, come India Brasile Thailandia Singapore». In alcuni Paesi, invece, «come il Regno Unito, la nuova Zelanda e le Filippine, ne hanno fatto un cardine sulle politiche sanitarie per la lotta al tabagismo».

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Dopo la proposta di legge di Maurizio Gasparri spunta al Senato una nuovissima proposta di legge pro-life.

Gasparri, infatti, aveva depositato un disegno di legge per la modifica dell’articolo 1 del Codice Civile per introdurre il riconoscimento della capacità giuridica del feto.

Nella relazione di Gasparri si spiegava come «nella legge 194 che disciplina l’aborto non vi è una negazione dei diritti del concepito, ma nemmeno vi è un loro riconoscimento. Per questo, si ritiene opportuna la modifica dell’articolo 1 del Codice Civile» per prevenire «l’aborto volontario, in qualsiasi forma, legale o clandestino che sia».

Ora, invece, ecco una nuova proposta di legge depositata dal senatore Roberto Mania che ricalca quella di Gasparri. Anche la nuova proposta mira al riconoscimento della «capacità giuridica ad ogni essere umano». Per farlo, è necessario modificare l’articolo 1 del Codice Civile.

L’obiettivo è quello di «dichiarare che ogni uomo ha la capacità giuridica in quanto uomo, cioè che la soggettività giuridica ha origine dal concepimento, non dalla nascita».

Le opposizioni hanno il timore che tutto questo possa portare ad una mancata applicazione della 194, quindi sull’interruzione volontaria di gravidanza.

Leggiamo ancora nel testo: «Si tratta di riconoscere, anche nell’ambito giuridico, che embrione, feto, neonato, bambino, ragazzo, adolescente, giovane, adulto, anziano, vecchio sono diversi nomi con cui si indica una identica realtà, un identico soggetto, lo stesso essere personale, lo stesso uomo».

Per il senatore è «indispensabile individuare con chiarezza il significato giuridico dell’essere umano nella fase più giovane della sua esistenza».

Secondo Alessandra Maiorino del M5S: «Il partito di Meloni vuole derubare le donne della proprietà sul proprio corpo e attribuire soggettività giuridica superiore a un ovocita fecondato rispetto alla femmina».

Per Simona Malpezzi del PD, «riconoscere la capacità giuridica del concepito, come propone FdI significa soltanto una cosa: cancellare il diritto della donna di autodeterminarsi nella scelta di diventare madre o meno».

Questa non è la prima volta che il partito di Meloni viene accusato di voler limitare la legge 194. Ma il premier ha sempre ribadito che il suo obiettivo non è l’abolizione della legge, ma il suo rafforzamento per garantire alle donne «il diritto a non abortire».

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La PEC ha ormai raggiunto alti livelli di diffusione. Il numero di caselle attive a giugno 2022, stando ai dati AgID, era pari a 14 milioni e mezzo.

Grazie alla pubblicazione delle Regole tecniche dei servizi di recapito certificato con regolamento Eidas 910/2014, è cominciata la migrazione da PEC a REM (la PEC europea).

Tale migrazione, anche se non è di grande complessità, impatta comunque su imprese e utenti.

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Le regole tecniche in materia di REM sono state redatte con molta attenzione per minimizzare eventuali modifiche alla struttura della PEC.

Tutto questo semplifica e aiuta il processo di migrazione, favorendo l’interoperabilità tra i gestori. La REM Baseline, ovvero la base tecnica, è strutturata per indicare che cosa è incluso e cosa escluso all’interno dei modelli funzionali.

In fase di migrazione, i gestori PEC dovranno aggiornare i propri meccanismi per accedere al servizio, la struttura delle ricevute previste nella PEC e ulteriori aspetti di architettura fondamentali per l’adeguamento allo standard ETSI di interoperabilità (EN 319 532-4 versione 1.2.1).

Questo standard è stato aggiornato tenendo conto delle regole normative del Regolamento eIDAS 910/2014.

Le modifiche sono, in maggior parte, trasparenti all’utente. Le dichiarazioni dei gestori maggiori confermano che le modalità d’uso e operative saranno identiche a quelle del sistema PEC.

Il mittente dovrà essere riconosciuto con certezza. L’accesso al sistema, quindi, utilizzerà l’autenticazione a due fattori: alcuni gestori stanno già informando i propri utenti dei nuovi meccanismi.

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La migrazione dei messaggi dalla PEC alla REM è indolore, viste le molte analogie nell’architettura dei due sistemi.

Accedere con l’autenticazione a due fattori ad un sistema di posta elettronica in realtà non è ancora un sistema molto utilizzato a livello mondiale. Tuttavia, le esigenze molto stringenti in materia di sicurezza rendono questo strumento indispensabile.

Certo, una maggior sicurezza impatta sull’esperienza complessiva dell’utente, ma, per come stanno le cose al giorno d’oggi, tale strumento è inevitabile.

Gli integratori di sistema dovranno aggiornare il proprio software per la conservazione e la gestione delle ricevute ma anche per l’invio massivo di messaggi. Il problema è relativo, poiché la ricevuta è rappresentata da un file e continuerà ad esser così anche nel sistema REM.

Da questa migrazione, tuttavia, non derivano soltanto oneri, ma nascono anche interessanti opportunità. La standardizzazione europea della PEC e la relativa interoperabilità permettono di scambiare messaggi tra gestori differenti, stabiliti in paesi che applicano il Regolamento eIDAS. Tutto questo consente, inoltre, di offrire l’accesso al sistema REM da parte di un gestore a un utente che opera in uno Stato diverso rispetto a quello in cui è stabilito il gestore.

Attualmente, i prestatori di servizi fiduciari qualificati eIDAS sono 31 in 10 Paesi, e nessuno di questi si trova in Italia).

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Il carcere delle Costarelle è quello con il più alto numero di detenuti al 41 bis. Penitenziario che, come tutti ben sappiamo, è stato assegnato anche a Matteo Messina Denaro.

La casa circondariale dell’Aquila è una struttura che si trova in mezzo al nulla, in un’isola detentiva ben lontana rispetto al resto della città.

Nel corso degli anni sono passati alle Costarelle personaggi come il capo della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo, O’Prufessore, ma anche boss sanguinari di Cosa Nostra come Giuseppe Madonia (Piddu) e appartenenti al clan dei Corleonesi come Leoluca Bagarella (don Luchino).

Il carcere è stato ultimato nel 1986 ed è entrato in funzione nel 1993. Già nel 1996 fu adibito quasi del tutto alla custodia dei detenuti che erano sottoposti a regimi di altissima sicurezza, che dovevano alloggiare in celle singole.

La capienza iniziale era di 150 detenuti, ma nel giro di poco tempo si è passati ad un massimo di 300, inclusi i carcerati comuni.

Inizialmente, l’apertura dell’istituto non fu un evento particolarmente amato dagli abitanti de l’Aquila. L’istituto è considerato una delle opere del Pentapartito. Alla fine degli anni ’80, infatti, la città, grazie al contributo di Domenico Susi, sottosegretario alle Finanze del Psi, si dotò di nuove strutture, come, per esempio, la scuola della Guardia di Finanza e il noto carcere.

Di particolare rilevanza il fatto che entrambe le strutture non soltanto hanno resistito al terremoto del 2009, ma sono divenute proverbiali per quanto riguarda la loro sicurezza. Il carcere fu concepito principalmente per favorire il passaggio dell’art. 90 degli anni ’70 all’attuale 41 bis.

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Il carcere è l’unico con una sezione femminile per il 41 bis. Oggi ospita 12 donne e 160 uomini.

Non ci sono stati particolari episodi rilevanti, proprio a causa della sua ferrea e rigidissima gestione.

All’inizio degli anni 2000 gli agenti penitenziari cominciarono a scioperare poiché la vita interna non era esattamente delle migliori. In quegli anni, infatti, la struttura si riempì di pericolosi detenuti dopo la chiusura delle carceri di Pianosa e Asinara.

Messina Denaro e le cure contro il tumore

Matteo Messina Denaro si trova alle Costarelle non soltanto per ragioni di sicurezza, ma anche perché dovrà proseguire le cure contro il tumore al colon, con il quale convive da più di un anno.

All’interno del carcere è in allestimento una stanza ad hoc per effettuare le cure, viste le difficoltà logistiche del trasporto in ospedale per due volte a settimana per un detenuto in regime di massima sicurezza.

Secondo alcune fonti di Ansa, Messina Denaro è tranquillo nella sua cella di 10 metri quadri. Nella struttura è presente un buon reparto di medicina oncologica, grazie al quale il detenuto potrà continuare le terapie.

A differenza delle altre strutture che hanno l’area per il 41 bis (Nuoro, Sassari e Tolmezzo), la struttura permette di spostarsi più facilmente a Roma, dove i pm riusciranno ad interrogarlo con frequenza.

La confusione degli ultimi giorni

Negli ultimi giorni si sta confondendo l’ergastolo ostativo con il 41 bis.

Il 41 bis fu introdotto grazie alla Legge Gozzini del 1986. Mario Gozzini, senatore comunista, voleva riformare il sistema carcerario al fine di migliorarne l’aspetto rieducativo.

Inizialmente era previsto soltanto per «casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza». Tuttavia, dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, venne approvato anche un Decreto Legge che consentiva di assegnare il 41 bis anche per reati particolarmente violenti, come nel caso dei detenuti per reati di mafia.

L’articolo 4 bis, invece, è una cosa completamente diversa. Introdotto nel 1991, l’articolo impedisce ad alcuni ergastolani di accedere alla libertà condizionale ma anche ai benefici penitenziari, come permessi premio, lavoro esterno e semilibertà.

I reati, in questo caso, ostano all’accesso di tali benefici, come nel caso di associazione di stampo mafioso, associazione finalizzata al traffico di droga e terrorismo – tranne nel caso in cui un condannato per mafia diventi un pentito e collabori con la giustizia.

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In Italia, i detenuti per reati ostativi sono 1.259, ovvero il 70% degli ergastolani. Le persone con ergastolo normale, quindi, sono in minoranza.

Nel 2021 la Corte Costituzionale si è espressa sull’ergastolo ostativo in quanto contrario ai nostri principi costituzionali, e ha invitato il parlamento a modificarlo.

Il governo Meloni è quindi intervenuto con un decreto legge che mantiene il 4 bis, modificando però le modalità di accesso ai benefici penitenziari: non si dovrà più soltanto collaborare con la giustizia, ma dimostrare di non avere più legami con la criminalità organizzata e di avere una condotta carceraria corretta.

Tale modifica non si applica ai detenuti in regime di 41 bis.

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