Fuga dal lavoro: entro il 2029 dovremo sostituire 3 milioni di addetti che andranno in pensione

Tra il 2025 e il 2029, si stima che poco più di 3 milioni di lavoratori italiani (pari al 12,5 per cento circa del totale nazionale) lasceranno definitivamente gli uffici e le fabbriche per andare in pensione. La quasi totalità lo farà per questo motivo; tuttavia, una piccola minoranza non timbrerà più il cartellino anche per altri motivi, quali il ritiro volontario, la perdita dell’impiego, l’emigrazione all’estero o il passaggio dal lavoro dipendente a quello autonomo e viceversa.

Di questi 3 milioni, 1.608.300 sono attualmente dipendenti del settore privato (pari al 52,8 per cento del totale da sostituire), 768.200 lavorano nell’Amministrazione pubblica (25,2 per cento) e 665.500 sono lavoratori autonomi (21,9 per cento).

Questi dati non lasciano alcun dubbio: nel giro di qualche anno assisteremo a una vera e propria “fuga” da scrivanie e catene di montaggio. Un “esodo” mai visto fino a ora, con milioni di persone che passeranno dal mondo del lavoro all’inattività in pochissimo tempo con conseguenze sociali, economiche ed occupazionali di portata storica per il nostro Paese.

Lo sanno bene gli imprenditori che già adesso faticano a trovare personale disponibile a recarsi in fabbrica o in cantiere. Figuriamoci fra qualche anno, quando una parte importante della platea dei lavoratori attivi lascerà l’occupazione, in particolare per raggiunti limiti di età.

A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha estrapolato i dati emersi dalla periodica elaborazione realizzata dal Sistema Informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.[1]

  • Le uscite più numerose in Lombardia, Lazio e Veneto

In valore assoluto, le regioni più coinvolte dalla domanda di sostituzione saranno quelle, ovviamente, dove la popolazione lavorativa è più numerosa e tendenzialmente ha una età media più elevata. Al primo posto scorgiamo la Lombardia che sarà chiamata a rimpiazzare 567.700 lavoratori. Seguono il Lazio con 305.000 e il Veneto con 291.200. In coda alla graduatoria notiamo l’Umbria con 44.800, la Basilicata con 25.700 e, infine, il Molise con 13.800 unità. Come abbiamo riportato più sopra, in termini percentuali questo fenomeno interesserà, in particolare, il lavoro dipendente privato. Tra le maestranze private quelle lombarde saranno le più interessate d’Italia: sul totale regionale da rimpiazzare incideranno per il 64,6 per cento. Seguono quelle dell’Emilia Romagna (58,6 del totale regionale) e quelle del Veneto (56,5). I meno coinvolti, invece, saranno i lavoratori dipendenti privati sardi (il 38,5 per cento del totale regionale), i molisani (38,4) e, infine, i calabresi (36,6). In queste ultime regioni, evidentemente, la maggioranza degli addetti da sostituire sarà riconducibile alle categorie dei dipendenti pubblici e dei lavoratori autonomi.

  • Sette rimpiazzi su 10 interesseranno i servizi

Di questi 3 milioni di addetti che entro i prossimi 5 anni lasceranno il posto di lavoro, quasi 2.205.000 (il 72,5 per cento del totale da sostituire) sono occupati nei servizi.  Altri 725.900 nell’industria (23,8 per cento) a cui vanno sommati 111.200 (3,6 per cento) occupati nell’agricoltura. In altre parole, a livello nazionale oltre 7 sostituzioni su 10 interesseranno il settore di servizi, con uscite particolarmente importanti nel commercio (379.600 unità), nella sanità pubblica/privata (360.800) e nella Pubblica Amministrazione (331.700). Nell’industria, infine, spicca il numero di rimpiazzi a cui dovrà essere sottoposto il comparto delle costruzioni (179.300).

  • Un paese sempre più vecchio: le aziende si ruberanno i dipendenti migliori

In stretta relazione alle uscite dal lavoro per raggiunti limiti di età c’è, ovviamente, il progressivo invecchiamento dei dipendenti privati presenti nel nostro Paese. A tal proposito è interessante analizzare l’andamento dell’indice di anzianità. Se nel 2021 il tasso era del 61,2, nel 2022 è aumentato al 62,7 per attestarsi nel 2023 al 65,2 (+ 4 punti in soli due anni). Questo vuol dire che, rispetto all’ultima rilevazione, in Italia ogni 100 dipendenti sotto i 35 anni ce ne sono 65 che hanno oltre 55 anni. Le cause di questa tendenza sono numerose – pochi ingressi nel mercato del lavoro dei giovani rispetto alle fasce anagrafiche che superano la soglia dei 55 anni e una più prolungata permanenza nei luoghi di lavoro degli addetti in età avanzata – e tutte contribuiscono a innalzare questo indicatore verso valori di criticità. Senza contare che nel nostro Paese da sempre la domanda e l’offerta faticano a incrociarsi. Spesso i giovani che sono alla ricerca di un’occupazione presentano un deficit educativo ed esperienziale notevole rispetto alle abilità professionali richieste dalle attività economiche. Tra qualche anno, quando milioni di lavoratori con elevata esperienza e professionalità dovranno essere sostituiti, gli imprenditori, non trovandoli sul mercato, non avranno alternativa.  Dovranno contendersi i migliori dipendenti dei concorrenti, offrendo a questi ultimi incrementi salariali significativi. Dando luogo a forme più o meno simili al ricatto, dove i titolari d’azienda e i dipendenti più ricercati cercheranno di prevalere per ottenere il massimo vantaggio personale, spesso in modo poco onorevole.

  • L’anzianità delle maestranze è un problema soprattutto per gli imprenditori delle regioni più piccole

Ad oggi, la regione che presenta l’indice di anzianità dei dipendenti privati più elevato è la Basilicata (82,7). Seguono la Sardegna (82,2), il Molise (81,2), l’Abruzzo (77,5) e la Liguria (77,3). Il dato medio nazionale, come ricordavamo più sopra, è pari al 65,2. Le regioni meno “colpite” da questo fenomeno – anche se già da alcuni anni sono costrette comunque a fare i conti con questa grave criticità – sono l’Emilia Romagna (63,5), la Campania (63,3), il Veneto (62,7), la Lombardia (58,6) e il Trentino Alto Adige (50,2).

[1] Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2025-2029). Scenari per l’orientamento e la programmazione della formazione.


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Decreto giustizia, l’UNCC avverte: “Efficienza sì, ma non a scapito di diritti e garanzie”

ROMA – Dopo l’analisi dello schema preliminare, l’Unione Nazionale delle Camere Civili ha esaminato nel dettaglio il decreto-legge 8 agosto 2025 n. 117, approvato dal Governo per centrare gli obiettivi del PNRR entro il 30 giugno 2026. Il presidente Alberto Del Noce accoglie con favore la proroga dell’aumento delle competenze dei giudici di pace, definendola “una scelta saggia che evita applicazioni affrettate e insostenibili”.

L’UNCC esprime anche serie preoccupazioni per il metodo legislativo adottato, l’ampio ricorso al decreto-legge e le possibili ricadute su principi costituzionali come il giudice naturale e l’autonomia del CSM. “La rapidità non può essere perseguita sacrificando qualità, garanzie e diritti” avverte Del Noce.

Pur apprezzando l’intento di accelerare la definizione dei procedimenti e di sostenere gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà, -commenta il Presidente- occorre evidenziare alcune criticità che richiedono un’attenta e approfondita riflessione“.

  • Profili di incostituzionalità legati alle deroghe sui requisiti di professionalità e anzianità dei magistrati, ai poteri straordinari dei capi degli uffici e alle udienze da remoto con limitata possibilità di opposizione.

“L’uso dello strumento del decreto-legge per interventi incisivi sull’organizzazione giudiziaria e sul processo civile rischia di comprimere il necessario confronto con gli operatori del diritto, compresa l’Avvocatura. Le misure emergenziali devono restare tali, evitando che si consolidino prassi permanenti senza un dibattito parlamentare approfondito. Alcune misure (es. proroghe per sedi giudiziarie, estensione funzioni magistrati ausiliari, modifiche al codice di procedura civile) hanno effetti di medio-lungo periodo o strutturali, difficilmente qualificabili come “urgenti” nel senso dell’art. 77 Cost.

Ma si sono altri profili critici sotto il profilo costituzionale. Come, ad es. l’applicazione di magistrati del massimario alle sezioni civili in deroga ai requisiti di professionalità e anzianità e con possibile compressione delle prerogative di valutazione del CSM; poteri straordinari ai capi degli uffici con deroga ai criteri di assegnazione e riassegnazione fascicoli, in deroga alle procedure tabellari (ciò potrebbe incidere sul principio del giudice naturale precostituito per legge e sull’autonomia organizzativa assicurata dal CSM; la possibilità di derogare ai criteri di assegnazione e riassegnazione delle cause potrebbe comportare una designazione del giudice successiva all’insorgenza della controversia, in potenziale contrasto con il principio del giudice naturale; gli incentivi economici e punteggi aggiuntivi per i magistrati che accettano trasferimenti o applicazioni a distanza potrebbero essere contestati come disparitari rispetto ai colleghi che svolgono analoghe funzioni in sede ordinaria, senza che la differenza di trattamento sia pienamente giustificata; le udienze da remoto obbligatorie o con limitata possibilità di opposizione possono essere viste come limitative del diritto delle parti ad una discussione orale e in presenza, specie nei casi in cui la valutazione sulla “fondatezza” della richiesta di udienza fisica è rimessa al giudice applicato a distanza”.

  • Applicazioni e trasferimenti di magistrati a distanza, percepiti come misure orientate agli obiettivi statistici più che alla giustizia sostanziale, con il rischio di stabilizzare soluzioni emergenziali nate in contesti eccezionali come la pandemia.

“L’ampliamento delle possibilità di applicazione, anche a distanza, e la deroga ai criteri di professionalità e anzianità, pur finalizzati allo smaltimento dell’arretrato, suscitano forte preoccupazione. L’Avvocatura osserva con allarme un’organizzazione giudiziaria sempre più orientata al raggiungimento di obiettivi meramente statistici e sempre meno alla realizzazione della giustizia sostanziale. Pur consapevole che, con lo strumento del decreto-legge e la presumibile pacifica conversione, tali misure diverranno definitive, l’UNCC ribadisce la propria ferma contrarietà a qualsiasi stabilizzazione di interventi eccezionali, come già avvenuto con la trattazione a distanza, introdotta in via emergenziale durante il Covid e poi resa strutturale. In questo scenario, gli avvocati – consapevoli dell’elevata incertezza che può derivare da decisioni assunte da chi non ha mai interloquito con le parti né conosciuto direttamente i fatti – dovranno intensificare l’impegno nella promozione di strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Sempre più ci rendiamo conto che il processo deve essere l’extrema ratio: ogni volta che è possibile, è preferibile negoziare, nel rispetto del diritto, con l’assistenza di avvocati”.

  • Deroghe ai criteri tabellari di assegnazione fascicoli, che – senza adeguati controlli – potrebbero minare imparzialità ed equilibrio del sistema.

“Le deroghe ai carichi esigibili e ai criteri tabellari di assegnazione dei fascicoli, se non accompagnate da trasparenza e garanzie di controllo, possono incidere sull’equilibrio del sistema e sull’imparzialità percepita. L’Avvocatura chiede di essere coinvolta nella fase di predisposizione dei piani straordinari”.

  • Rinvii di riforme attese, come il Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie.

“Lo slittamento dell’entrata in vigore del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie e di altre riforme ordinarie, pur motivato dall’urgenza PNRR, rischia di rinviare ancora una volta interventi strutturali attesi da anni”.

  • Impatto sulle tutele dei diritti, in particolare per le modifiche agli accertamenti tecnici preventivi in materia previdenziale e alle procedure di pagamento ex legge Pinto.

“Le modifiche agli accertamenti tecnici preventivi in materia previdenziale meritano un monitoraggio attento per verificarne l’impatto sul diritto di difesa. Parimenti, le nuove regole sui pagamenti degli indennizzi ex legge Pinto, pur tese a ridurre tempi e contenzioso, devono essere accompagnate da forme di informazione capillare per evitare che i cittadini incorrano in decadenze non consapevoli”.

L’UNCC ribadisce infine la disponibilità a collaborare con le istituzioni per soluzioni “strutturali e durature” che uniscano efficienza e rispetto dei diritti fondamentali, difesa e indipendenza della magistratura.


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Nel 2024 la PA non ha pagato 8 miliardi ai nostri fornitori

Al netto degli importi sospesi e non liquidabili, l’anno scorso la nostra Pubblica Amministrazione (PA) ha ricevuto dai propri fornitori privati 198 miliardi di euro di richieste di pagamento. Di questo importo, entro marzo 2025 sono stati liquidati 189,85 miliardi.  Pertanto, nelle transazioni commerciali tra pubblico e privati, questi ultimi non hanno incassato ben 8,15 miliardi. A denunciarlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato questi dati dopo aver letto la nota pubblicata lo scorso 1° luglio sul proprio sito internet dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF)[1].

È evidente che a destare preoccupazione tra gli imprenditori italiani non siano soltanto i dazi imposti dall’Amministrazione Trump, ma anche quelli di natura interna presenti nel nostro Paese che rallentano l’economia e ostacolano lo sviluppo. Alcuni esempi? Quando, ad libitum, il committente pubblico decide di non onorare le scadenze di pagamento previste nel contratto o di liquidare i fornitori con ritardi del tutto ingiustificati. E sebbene negli ultimi anni la nostra PA abbia ridotto notevolmente i tempi con cui salda le fatture ricevute[2], i mancati pagamenti, però, continuano a essere un malcostume ancora molto diffuso nel nostro Paese.

  • Siamo maglia nera in Europa

La conferma giunge anche dalla lettura delle statistiche che periodicamente pubblica l’Eurostat. Negli ultimi dati presentati ad aprile di quest’anno, l’Italia continua a essere maglia nera in Europa. Lo stock complessivo dei debiti commerciali di parte corrente è pari a 58,7 miliardi di euro. Sebbene l’importo sia leggermente in calo rispetto ai 59 miliardi riferiti al 2023, dal confronto con gli altri 27 paesi presenti in UE, il nostro score è il peggiore.  In rapporto al Pil, nel 2024 i nostri debiti commerciali ammontano al 2,7 per cento[3]. Nessun altro paese può contare su un dato più negativo. Tra i principali competitor segnaliamo che in Germania l’incidenza è dell’1,8 per cento, in Francia dell’1,5 e in Spagna solo dello 0,7. La media UE27 è dell’1,6 per cento.

  • Quando paga, però, i ritardi sono diminuiti

Se i mancati pagamenti sono ancora un grosso problema, quando paga, invece, adesso la PA lo fa con tempi molto più rapidi di un tempo. Nel 2024, per la prima volta dall’entrata in vigore della Direttiva UE contro i ritardi nei pagamenti avvenuta nel 2013, la media ponderata è scesa al di sotto dei 30 giorni. Certo, i vincoli imposti dall’UE per ottenere i finanziamenti del PNRR e l’introduzione della Piattaforma dei Crediti Commerciali (PCC) – vale a dire lo strumento digitale che ha messo in chiaro le abitudini di pagamento della PA, consentendo di verificare puntualmente dinamiche e sanzioni da comminare agli enti ritardatari – hanno dato un contributo importante a rendere i Ministeri, le società pubbliche, le Regioni, le Aziende ospedaliere e i Comuni tutti più virtuosi.

  • Molti fanno i “furbi” e risultano virtuosi anche se non lo sono

Tuttavia, la CGIA segnala almeno due “anomalie” che ormai sono diventate un modus operandi a cui ricorrono sia le piccole società pubbliche e le amministrazioni comunali minori, sia la nostra PA a livello regionale e centrale. Questo comportamento sta consentendo a tutte le amministrazioni che fanno ricorso a questi due “escamotage” di ottenere un Indice di Tempestività dei Pagamenti (ITP)[4] annuo anticipato dal segno meno e quindi rispettoso dei limiti previsti dalla legge.

  • La prima anomalia. Saldano le fatture di importo maggiore, ritardano intenzionalmente quelle minori

Come ha sottolineato anche la Corte dei Conti in una delle sue ultime relazioni[5], nelle transazioni commerciali la nostra PA sta adottando una prassi che definire “diabolica” è forse riduttivo; salda le fatture di importo maggiore entro i termini di legge, mantenendo così l’ITP entro i limiti previsti dalla norma, ma ritarda intenzionalmente il saldo di quelle con importi minori, penalizzando, così, le imprese fornitrici di prestazioni di beni e servizi con volumi bassi; cioè le piccole imprese.

  • La seconda anomalia. Decidono i funzionari della PA quando le imprese devono emettere la fattura

Da qualche tempo molti dirigenti pubblici, anche di società collegate alle regioni e agli enti locali, decidono unilateralmente quando i fornitori devono emettere la fattura. Se questi ultimi non si “attengono” a questa disposizione, lavorare in futuro per questo ente/società pubblica sarà molto difficile. Dando l’autorizzazione all’emissione della fattura solo quando l’Amministrazione dispone dei soldi per liquidarla, queste realtà pubbliche riescono a “rispettare” i tempi di pagamento, “aggirando” così le disposizioni previste dalla legge. Una forma di abuso della posizione dominante che risulta essere decisamente “ripugnante”.

  •  Soluzione? Consentire la compensazione tra i debiti fiscali e i crediti commerciali

Per risolvere questa annosa questione che sta mettendo a dura prova tantissime Pmi, per la CGIA c’è solo una cosa da fare: prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i crediti certi liquidi ed esigibili maturati da una impresa nei confronti della PA e i debiti fiscali e contributivi che la stessa deve onorare all’erario. Grazie a questo automatismo risolveremmo un problema che ci trasciniamo da decenni che continua a minare la tenuta finanziaria di moltissime piccole e medie imprese.

  • Alcune situazioni critiche: RAP Palermo, ASP Crotone, Comune di Cosenza, ATAC e, in particolare, ANAS e GSE

Nonostante i miglioramenti e il ricorso agli “escamotage” richiamati più sopra, molte PA continuano a pagare in grave ritardo. La CGIA ha l’impressione che la situazione peggiore interessi il Mezzogiorno e, in particolare, le società controllate dagli enti locali (aziende di trasporto pubblico, società di asporto rifiuti e di servizi idrici, etc.). I dati riportati più sotto sono impietosi (vedi Tab. 1). La Risorse Ambiente Palermo (RAP), è una Spa del Comune capoluogo di regione che si occupa della raccolta di rifiuti e di igiene ambientale. Ebbene, nel 2024 ha saldato i propri fornitori con un ritardo di quasi 88 giorni rispetto ai termini previsti dalla legge. Anche l’Azienda Sanitaria di Crotone – che “colpevolmente” non ha ancora aggiornato il dato sul proprio sito internet e riporta come ultimo ITP quello relativo al 2023 – ha onorato le scadenze di pagamento sempre con 88 giorni oltre i limiti di legge. Male anche il Comune di Cosenza, l’anno scorso ha registrato un ritardo medio di 57 giorni. In grossa difficoltà anche l’ATAC di Roma, con un saldo fattura che avviene dopo 48 giorni dalla data di scadenza e l’AMAT di Palermo (società di trasporto pubblico locale) con un ritardo di 45. Da segnalare anche la performance negativa dell’ANAS. Sebbene costituisca una delle stazioni appaltanti pubbliche più importante del Paese, l’anno scorso ha onorato i propri impegni con i fornitori con 15 giorni di ritardo. Il trend, purtroppo, sta proseguendo anche nei primi due trimestri del 2025. Preoccupante anche lo score relativo all’anno in corso di un’altra grande stazione appaltante nazionale, ovvero il Gestore dei Servizi Energetici GSE SpA che nel I trimestre ha liquidato con 16 giorni di ritardo e nel II trimestre con 14. Da disapprovare anche il comportamento di alcuni ministeri (in particolare Lavoro e Salute) che nel 2024 hanno liquidato le fatture ricevute mediamente con 13 giorni di ritardo.

[1] https://www.mef.gov.it/focus/Pagamenti-PA-piu-veloci-fatture-saldate-sotto-i-30-giorni/

[2] Ricordiamo che dal 2013, a seguito del recepimento nel nostro ordinamento della normativa europea contro i ritardi di pagamento (Direttiva UE/2011/7), i tempi di pagamento nelle transazioni commerciali tra enti pubblici italiani e aziende private non possono superare di norma i 30 giorni (60 per alcune tipologie di forniture, in particolare quelle sanitarie).

[3] Dato riportato anche dalla Banca d’Italia nella “Relazione annuale 2025, pag. 143

[4] Stabilisce il ritardo/anticipo medio di pagamento ponderato tenuto dalla PA nelle transazioni commerciali con le imprese private. L’ITP è calcolato come la somma, per ciascuna fattura emessa a titolo corrispettivo di una transazione commerciale, dei giorni effettivi intercorrenti tra la data di scadenza della fattura o richiesta equivalente di pagamento e la data di pagamento ai fornitori moltiplicata per l’importo dovuto, rapportata alla somma degli importi pagati nel periodo di riferimento. Pertanto, se il dato medio annuale è anticipato dal segno meno, l’Amministrazione è virtuosa. Se, invece, l’indice è anticipato dal segno più, la stessa non lo è, rischiando così di subire dagli enti preposti delle sanzioni economiche.

[5] Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2022, Volume I, I conti dello Stato e delle politiche di bilancio 2022, Tomo I, 28 giugno 2023.


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In tredici anni di passaggi da tribunali a consigli comunali, l’Italia ha visto sfumare un patrimonio industriale ed economico stimato fra i 40 e i 50 miliardi di euro. Nel frattempo, la classe dirigente locale ha giocato su due tavoli: paladini dell’ambiente davanti alle telecamere, negoziatori di aiuti e garanzie di reddito dietro le quinte.

Il risultato è una città che, complice una narrazione di emergenza permanente, sembra aver istituzionalizzato il diritto al salario indipendentemente dalla produzione. La Regione Puglia, pur denunciando l’impatto ambientale dell’impianto, ha firmato progetti di “riconversione” industriale che suscitano più di una perplessità.

Se davvero l’acciaieria è incompatibile con la salute pubblica — ipotesi sostenuta da studi e dati, ma non priva di autorevoli contestazioni — la scelta dovrebbe essere netta: chiudere e costruire, con risorse e competenze proprie, un nuovo modello di sviluppo.

Ma fino a quando prevarrà la logica del compromesso, Taranto resterà sospesa in un limbo in cui salute, lavoro e futuro si neutralizzano a vicenda, mentre il conto lo pagano sempre gli stessi: i contribuenti.


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Quando il Nord perde voce e mercati: l’effetto combinato di dazi e scelte di governo

I dazi americani colpiscono duro e a pagare il prezzo più alto rischia di essere il Nord produttivo. Persino il Fondo monetario internazionale avverte: l’inasprimento delle tariffe commerciali USA penalizzerà soprattutto le aree settentrionali, cuore dell’export made in Italy. Province come Vicenza, un tempo campioni di vendite all’estero, oggi vedono erodersi il loro primato.

Eppure, mentre la questione economica è evidente, la “questione settentrionale” politica sembra scomparsa dai radar. I movimenti e i leader che in passato l’avevano alimentata hanno cambiato rotta o perso peso nell’arena nazionale.

Emblematico il percorso della Lega: Matteo Salvini ha messo in archivio simboli e parole d’ordine del nordismo storico, privilegiando altre battaglie. L’alleanza con figure come il generale Vannacci ha segnato una svolta identitaria, ma è la decisione di puntare sul Ponte sullo Stretto a rappresentare la frattura più netta con la tradizionale base leghista del Nord.

Sul fronte governativo, le risposte alla crisi dell’export appaiono deboli. Il ministro Adolfo Urso ha portato in Parlamento una legge sul made in Italy che, secondo i critici, si limita a promuovere eventi celebrativi e a distribuire riconoscimenti, senza incidere sulla competitività internazionale delle imprese.

Così, mentre i dazi mordono e il Nord industriale perde terreno, manca una strategia capace di coniugare difesa economica e identità territoriale. Il rischio è che, oltre alle quote di mercato, si dissolva anche la spinta politica che per anni ha tenuto alta la bandiera del settentrione produttivo.

Nord Italia nel mirino dei dazi USA

  • Potenziali perdite fino a 37,5 miliardi €: secondo Confindustria, ogni punto percentuale di dazio imposto dagli Stati Uniti potrebbe tradursi in circa 874 milioni € di esportazioni italiane in meno; con un dazio al 30 %, il calo stimato è di circa 37,5 miliardi €.

  • Fino a 140 mila posti di lavoro a rischio: stime parlano di una perdita occupazionale compresa tra 115 000 e 145 000 in settori chiave come moda, farmaceutica, meccanica, agroalimentare. Il 75 % di questo impatto si concentrerebbe nelle regioni del Nord, in aree come Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte.

  • Strategie lombarde per contrastare i dazi: oltre la metà delle imprese esportatrici della Lombardia stanno mettendo in campo contromisure, che includono la ricerca di nuovi mercati o l’apertura di filiali e sedi negli Stati Uniti.

  • Agroalimentare settentrionale sotto attacco: in Toscana, i dazi del 30 % minacciano tra le 15 000 e le 18 000 imprese agricole e artigianali, settore vitale per l’economia locale.


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Questa possibilità deve essere esercitata entro i dieci anni successivi alla prescrizione ordinaria, quindi entro 15 anni dal momento in cui i contributi avrebbero dovuto essere versati. Se il datore non si attiva, la stessa facoltà può essere esercitata dal lavoratore, versando in proprio la rendita vitalizia e mantenendo il diritto a chiedere il risarcimento danni al datore.

Con la sentenza n. 22802/2025 a Sezioni Unite, la Cassazione ha chiarito i tempi:

  • 5 anni per la prescrizione definitiva dei contributi dovuti;

  • 10 anni dalla prescrizione per il datore di lavoro per chiedere la costituzione della rendita vitalizia;

  • 10 anni ulteriori per il lavoratore per far valere il proprio diritto al risarcimento del danno.

In totale, il termine massimo per agire è di 25 anni dal mancato versamento dei contributi. Oltre questo limite, resta comunque salva la facoltà del lavoratore di chiedere la costituzione della rendita vitalizia, a proprie spese, per salvaguardare l’anzianità contributiva e il diritto alla pensione.


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Il costo del vuoto di competenze: 44 miliardi l’anno e milioni di posti scoperti

Il mercato del lavoro italiano è segnato da un divario crescente tra ciò che le aziende cercano e ciò che i lavoratori sanno fare. Un fenomeno noto come skill mismatch, che ha un costo stimato di 44 miliardi di euro l’anno – pari al 2,5% del PIL – in termini di produttività e competitività.

Le cause principali? Una formazione non sempre adeguata alle esigenze del tessuto produttivo e la rapida evoluzione delle competenze richieste, spinta dall’avanzamento tecnologico e dalla trasformazione digitale.

Secondo un’indagine di Confindustria sul mercato del lavoro nel 2024, il 69,2% delle imprese fatica a reperire profili tecnici, mentre il 47,2% incontra difficoltà persino per mansioni manuali. Le criticità si concentrano soprattutto nei settori della transizione digitale e dell’internazionalizzazione, ritenuti strategici da un numero crescente di aziende.

I dati di Unioncamere confermano la tendenza: nel 2024, il 48% delle assunzioni programmate ha registrato difficoltà di reperimento. Inoltre, circa il 40% degli occupati lavora in settori non coerenti con la propria formazione. In totale, 10 milioni di italiani non possiedono le competenze oggi richieste dal mercato.

L’arrivo e la diffusione dell’intelligenza artificiale generativa promettono di ridefinire ulteriormente lo scenario occupazionale. Il World Economic Forum stima che, entro il 2030, quasi il 40% delle competenze oggi richieste sarà destinato a cambiare o diventare obsoleta.


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Parità di genere, i punteggi premiali valgono per tutti gli appalti: via libera anche alle forniture

La spinta verso la parità di genere entra a pieno titolo in tutte le procedure di gara basate sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Lo ha ribadito il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con il parere n. 3636 del 23 giugno 2025, chiarendo che i criteri premiali previsti dall’articolo 108, comma 7, del d.lgs. 36/2023 si applicano anche agli appalti di forniture, oltre che a lavori e servizi.

La norma, inserita nel nuovo Codice dei contratti pubblici, impone alle stazioni appaltanti di attribuire un punteggio aggiuntivo alle imprese che abbiano adottato politiche concrete per raggiungere la parità di genere, certificate ai sensi dell’articolo 46-bis del Codice delle pari opportunità. L’obiettivo, come sottolineato anche dalla giurisprudenza amministrativa, è incentivare modelli organizzativi e produttivi inclusivi, premiando chi ha già intrapreso un percorso strutturato in questa direzione.

Il dubbio interpretativo era nato da un apparente contrasto con l’articolo 57, comma 2-bis, introdotto dal “correttivo” al Codice appalti (d.lgs. 209/2024), che menziona meccanismi premiali per pari opportunità e inclusione ma non chiarisce l’ambito oggettivo di applicazione. Alcune stazioni appaltanti avevano quindi ipotizzato che tali criteri si limitassero ai soli appalti di lavori e servizi con posa in opera.

Il parere ministeriale fuga l’incertezza: l’articolo 108, comma 7, è una disposizione di carattere generale e non restringe l’applicazione a specifiche tipologie di contratto. Pertanto, ogni gara in cui si utilizzi un criterio di aggiudicazione diverso dal solo prezzo – sia essa relativa a lavori, servizi o forniture – deve prevedere punteggi premiali per le imprese certificate in parità di genere.


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Decontribuzione Sud valida anche in smart working: conta la sede aziendale, non dove lavori

La decontribuzione Sud si applica anche ai lavoratori in smart working. È questo uno dei chiarimenti forniti dall’Inps nel corso del tavolo tecnico del 22 luglio con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili.

La questione nasce dal fatto che, nel lavoro agile, il luogo della prestazione non coincide necessariamente con la sede fisica dell’azienda: il dipendente può operare da casa, in un’altra regione o persino dall’estero. L’Inps ha precisato che, in questi casi, il datore di lavoro può continuare a beneficiare dell’incentivo se il dipendente è formalmente in forza a un’unità operativa situata in una delle regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna).

Introdotto dal 1° gennaio 2025, lo sgravio prevede una riduzione dei contributi previdenziali pari al 25%, fino a un massimo di 145 euro mensili per lavoratore, e riguarda micro, piccole e medie imprese con non più di 250 dipendenti.

Oltre al tema smart working, l’Inps ha fornito altri chiarimenti:

  • Sportivi in regime forfettario: la franchigia di esenzione contributiva di 5.000 euro annui va calcolata sui compensi percepiti nell’anno d’imposta per attività sportive dilettantistiche, includendo anche eventuali incarichi come collaboratore coordinato e continuativo o lavoratore autonomo occasionale.

  • Trattamento di fine mandato (Tfm): nella Gestione separata vale il principio di cassa, quindi la contribuzione è dovuta nel momento in cui l’importo viene effettivamente corrisposto, non quando matura.

  • Bonus Giovani Zes: in caso di contratto a termine trasformato in tempo indeterminato, la domanda di esonero va presentata prima della trasformazione e dell’invio della comunicazione obbligatoria (CO).


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Giovani autonomi, sconto Inps del 50% sui contributi per tre anni: domande al via

Dal 7 agosto 2025 è ufficialmente aperta la finestra per richiedere lo sconto contributivo dedicato ai giovani artigiani e commercianti che, per la prima volta, si iscrivono all’Inps quest’anno. La misura, introdotta dalla legge n. 207/2025 nell’ambito della manovra economica, consente di ridurre del 50% i contributi previdenziali dovuti per 36 mesi consecutivi.

L’Inps, con il messaggio n. 2449, ha attivato la procedura sul Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo), rendendo disponibile il modulo “Riduzione 50% ART-COM 2025”. Possono accedere al beneficio i titolari di ditte individuali, anche in regime forfettario, i soci di società di persone o di capitali, e i collaboratori familiari. La condizione è che l’avvio dell’attività e l’iscrizione al Registro imprese e all’Inps avvengano nei termini di legge: chi inizia il 20 dicembre 2025, ad esempio, dovrà completare entrambe le registrazioni entro il 19 gennaio 2026.

Lo sconto riguarda esclusivamente l’aliquota IVS, cioè la quota destinata alla pensione (invalidità, vecchiaia e superstiti). Restano dovuti per intero il contributo di maternità (7,44 euro annui) e, per i commercianti, quello per l’indennizzo da cessazione attività.

C’è però un aspetto cruciale da considerare: l’accredito dei contributi ai fini pensionistici avviene in proporzione a quanto versato. Con metà contributi si accumula metà dell’anzianità contributiva. Per coprire un intero anno occorre avere un reddito almeno pari al minimale di 18.555 euro; in caso contrario, il 2025 varrà solo sei mesi ai fini del diritto alla pensione. Con un reddito di 37.110 euro, invece, pur versando il 50% dei contributi si raggiunge la soglia minima necessaria per “coprire” tutti i 12 mesi.

Per presentare la domanda, è necessario autenticarsi con SPID, CNS o CIE 3.0, selezionando il percorso “Imprese e Liberi Professionisti” > “Strumenti” > “Portale delle Agevolazioni” > “Utilizza lo strumento”. In questa fase, l’accesso è consentito ai profili “cittadino” e “consulente/commercialista”, mentre ulteriori modalità saranno comunicate in seguito. Il richiedente deve autocertificare il possesso dei requisiti e dichiarare di non superare i limiti previsti dalla regola del de minimis sugli aiuti di Stato.

La riduzione resta valida anche in caso di trasferimento dell’attività in un’altra provincia o di cambio di gestione previdenziale, senza necessità di presentare una nuova istanza.


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