Avvocati soli: il 64% lavora in studio da sé. Le aggregazioni? Ancora un miraggio

Avvocati soli e invecchiati, con studi unipersonali che resistono al tempo e alle trasformazioni del mercato legale. È l’immagine che emerge dal Rapporto 2025 curato da Cassa Forense in collaborazione con il Censis, che ha analizzato dati reddituali e demografici integrati con le risposte di oltre 28mila professionisti. Una fotografia che restituisce un’avvocatura poco incline all’aggregazione, segnata da diseguaglianze profonde e da un’età media in continua crescita: 48,9 anni nel 2024, quasi cinque in più rispetto a un decennio fa.

Il modello dominante resta quello monopersonale, adottato dal 64% degli avvocati – con un picco del 71% nella fascia tra i 50 e i 64 anni. Solo uno su dieci guida uno studio con collaboratori, e appena il 9,8% lavora in forma associata o all’interno di una Sta (società tra avvocati). Una solitudine che non è solo gestionale ma anche logistica: il 30% non condivide neanche le spese e i locali con altri colleghi.

I nodi delle aggregazioni

Perché, nonostante il contesto sempre più competitivo e le richieste del mercato, l’avvocatura italiana continua a restare così frammentata? Il Censis individua le cause principali nella difficoltà di concordare una ripartizione equa dei profitti (35,7%), nei costi di gestione (29,2%) e solo in minima parte nella fiscalità (17,8%), già mitigata dalla recente neutralità fiscale prevista per le aggregazioni professionali.

I giovani tra collaborazioni e apertura al mercato

Il quadro si modifica leggermente tra gli under 40, che sperimentano modelli organizzativi più flessibili e meno “solitari”: tra loro gli studi unipersonali scendono al 38,8%. Ma non si traduce in un’impennata delle forme associate, che restano ferme al 10,1%. A fare la differenza è piuttosto la condizione di collaborazione subordinata: quasi la metà dei giovani avvocati lavora per altri legali, con il 28,7% in regime di collaborazione prevalente e il 18,3% in monocommittenza.

Non mancano però segnali di evoluzione: tra gli under 40 cala la centralità dell’attività giudiziale (50,7%) a favore di quella stragiudiziale (49,3%), e cresce l’interesse per i mercati nazionali e internazionali. Il 4,6% del fatturato giovanile arriva dall’estero, contro una media generale del 2,4%.

Il divario economico e il Pil dell’avvocatura

Se il reddito medio annuo dell’avvocato italiano si attesta a 47.678 euro, per i più giovani la realtà è ben diversa: sotto i 30 anni si scende a 15.981 euro, tra i 30 e i 34 anni si arriva a 22.364 euro, mentre tra i 35 e i 39 si toccano i 31.555 euro. Nonostante ciò, il 2023 ha segnato per loro un aumento del reddito superiore al 10%, più marcato rispetto alle fasce d’età superiori.

Una forbice che si allarga se si osserva il Pil dell’avvocatura, che nel 2023 ha raggiunto 15,5 miliardi di euro (+5,2% rispetto al 2022). Ma un terzo di questo volume è prodotto da appena 3.596 professionisti con fatturati superiori ai 500mila euro. Al contrario, il 34% degli avvocati fattura meno di 17mila euro, contribuendo per meno del 3% al Pil complessivo.

«È vero che sono i grandi studi a trainare – ha commentato Valter Militi, presidente di Cassa Forense – ma oggi tutta la categoria sa che deve cambiare pelle», concludendo con un invito al rinnovamento che, per il momento, appare ancora più una necessità che una realtà.


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Anno Giudiziario CNF 2025: un rilancio all’insegna della collaborazione istituzionale e del ricordo di Guido Alpa

Roma – Si è svolta questa mattina, presso l’Auditorium Antonianum di Roma, la solenne cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 del Consiglio Nazionale Forense. Un evento che ha visto la partecipazione delle più alte cariche istituzionali della giustizia e una nutrita rappresentanza del mondo forense.

La mattinata si è aperta con la dettagliata e incisiva relazione inaugurale del Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, che ha toccato temi cruciali per l’avvocatura e per il sistema giustizia nel suo complesso. Sono seguiti gli interventi del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano, in rappresentanza del Presidente del Consiglio, del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, del Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Fabio Pinelli, e della Prima Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Margherita Cassano. I loro interventi hanno posto l’accento sulla necessità di una sinergia sempre maggiore tra le diverse componenti istituzionali per garantire una giustizia più rapida, efficace e rispondente alle esigenze dei cittadini e delle imprese. Hanno inoltre preso la parola il Presidente della Corte dei conti, Guido Carlino, e la Presidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, Carolina Lussana, ampliando lo sguardo alle specificità dei rispettivi ambiti giurisdizionali.

Al termine della cerimonia inaugurale, i partecipanti si sono trasferiti presso la Basilica di Sant’Antonio in Laterano per la celebrazione di una Santa Messa in suffragio del Presidente Emerito del CNF, Guido Alpa, nel trigesimo dalla sua scomparsa. Un momento di commosso ricordo per una figura che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’avvocatura italiana. La funzione è stata officiata dal Magnifico Rettore della Pontificia Università Antonianum, Reverendo Padre Agustín Hernández Vidales.


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Greco (CNF): “Stiamo lavorando per dotare gli avvocati di una IA gratuita basata su server dell’avvocatura”

L’intelligenza artificiale sta entrando con passo ancora incerto ma deciso nella quotidianità della professione forense. A raccontarlo è il Rapporto sull’Avvocatura 2025, realizzato da Cassa Forense in collaborazione con il Censis, che dedica uno dei suoi capitoli centrali proprio all’impatto delle nuove tecnologie sulla professione legale.

Dalla fotografia scattata emerge una realtà in evoluzione, caratterizzata da un’adozione selettiva dell’IA, frenata da timori legati alla sicurezza dei dati, disparità generazionali e livelli diversi di alfabetizzazione digitale. Se già nel 2024 il 58,7% degli avvocati vedeva l’IA come un’opportunità e solo il 32% come una minaccia, il nuovo rapporto approfondisce due aspetti: le modalità d’uso quotidiane e gli impatti previsti nei prossimi cinque anni.

Oggi, solo il 27,5% degli avvocati dichiara di utilizzare strumenti di IA nel lavoro quotidiano. Di questi, il 19,9% lo fa per la ricerca giurisprudenziale e documentale, il 5% per la stesura o revisione di contratti, l’1% per l’automazione delle attività amministrative e l’1,2% per l’analisi predittiva e la strategia legale.

Ma anche tra chi non ne fa uso – il 72,3% – oltre il 31% sta valutando di iniziare a farlo, segnale di una propensione al cambiamento che cresce, soprattutto tra i più giovani: il 37,4% degli avvocati under 40 già integra strumenti di IA nel lavoro, contro il 24,6%–26,1% dei colleghi più anziani. Le aree professionali più tradizionali, invece, restano tendenzialmente più restie.

Il tema della sicurezza e riservatezza resta uno dei nodi più critici. I sistemi oggi più diffusi operano su server proprietari esterni, ai quali vengono inviati anche dati sensibili. A tal proposito, Francesco Greco, presidente del Consiglio Nazionale Forense, ha rassicurato la categoria: “Stiamo lavorando per dotare gli avvocati di una IA gratuita basata su server dell’avvocatura”. Intanto, Valter Militi, presidente di Cassa Forense, invita a utilizzare la piattaforma Pdua come soluzione intermedia.

Guardando al futuro, il 27,3% degli avvocati ritiene che l’IA servirà ad automatizzare le attività ripetitive, il 25,8% prevede che modificherà profondamente la professione, e il 23,7% la vede come un supporto complementare al lavoro umano. Solo il 9,8% ne prevede un impatto marginale, mentre il 9,6% ritiene che potrà ridurre il bisogno di avvocati in alcuni settori, aprendo però nuove opportunità in altri.

Lo studio mette anche in relazione l’adozione dell’IA con il peso del contenzioso nelle attività dello studio legale: tra chi la utilizza, il fatturato si distribuisce quasi equamente tra attività giudiziale (54,6%) e stragiudiziale (45,6%). Tra chi non la usa, invece, il giudiziale domina (60%).

Infine, gli avvocati esprimono le loro opinioni in sei ambiti chiave: qualità del lavoro, impatto sulla professione, rischi di diseguaglianza, utilità percepita, divario generazionale e atteggiamento critico. In molti temono che l’IA possa abbassare il livello della preparazione richiesta, favorendo chi ha meno competenze tecniche, mentre altri vedono nella tecnologia un alleato per modernizzare e rendere più efficiente il lavoro legale.

In sintesi, l’intelligenza artificiale non è più un’ipotesi lontana ma una realtà già presente, seppure ancora timida. La sfida per l’avvocatura sarà comprenderne le potenzialità senza sottovalutarne i rischi, garantendo etica, sicurezza e qualità nell’esercizio della professione.


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La Corte UE smonta il vincolo territoriale: praticantato forense valido anche all’estero

Il praticantato forense svolto all’estero non può essere automaticamente escluso dal percorso di accesso alla professione legale. È questo il principio cardine affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 3 aprile 2025 (causa C-807/23), che segna un importante passo in avanti sul fronte del riconoscimento dei percorsi professionali e della libera circolazione dei lavoratori.

I giudici di Lussemburgo hanno bocciato la normativa austriaca che imponeva ai futuri avvocati l’obbligo di svolgere almeno tre anni di praticantato presso un legale stabilito in Austria, dichiarandola contraria all’articolo 45 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

Il caso: il no dell’Ordine di Vienna a una praticante “transfrontaliera”
La vicenda nasce dal rigetto, da parte dell’Ordine degli avvocati di Vienna, della domanda di iscrizione al registro dei praticanti presentata da una cittadina austriaca. La giovane aveva svolto parte della sua formazione presso uno studio legale con sede a Francoforte, sotto la supervisione di un avvocato iscritto all’Ordine austriaco, ma professionalmente stabilito in Germania. La norma nazionale, però, impone che il tirocinio si svolga in loco, rendendo irrilevante – ai fini del riconoscimento – il fatto che il supervisore fosse comunque iscritto all’albo austriaco.

La Corte UE: “Norma sproporzionata e lesiva della libertà di circolazione”
Chiamata a pronunciarsi dalla Corte suprema austriaca, la Corte di giustizia ha ritenuto la normativa in contrasto con il diritto europeo. Secondo i giudici, il requisito territoriale costituisce una restrizione ingiustificata alla libertà di circolazione dei lavoratori, che non può essere ammessa in assenza di una valutazione individuale dell’equivalenza formativa.

Pur riconoscendo la legittimità degli obiettivi perseguiti dal legislatore nazionale – come la tutela dei destinatari dei servizi legali e la garanzia di standard qualitativi nella formazione – la Corte ha ribadito che tali finalità devono essere perseguite nel rispetto del principio di proporzionalità.

I principi affermati: lavoratori sono anche i praticanti
Nel suo ragionamento, la Corte ha posto alcuni punti fermi destinati a incidere sul futuro della formazione legale in Europa:

  • Il praticantato forense, se retribuito e inquadrato in un rapporto di subordinazione, rientra a pieno titolo nell’ambito applicativo dell’articolo 45 TFUE.
  • Impedire in modo assoluto il riconoscimento del tirocinio svolto in un altro Stato membro, anche quando riguarda il diritto nazionale e sotto la guida di un avvocato iscritto in patria, rappresenta una limitazione sproporzionata alla libertà di circolazione.
  • Gli Stati membri, prima di rigettare l’esperienza formativa all’estero, devono valutare caso per caso l’equivalenza del percorso svolto, adottando eventualmente misure meno restrittive.

Alternative al vincolo territoriale
La Corte suggerisce infatti diverse opzioni per garantire standard formativi senza compromettere la mobilità: la richiesta di documentazione dettagliata sulla formazione svolta, l’audizione del praticante e del supervisore, o, in caso di false dichiarazioni, l’attivazione dei procedimenti disciplinari previsti dall’ordinamento.

La conclusione: apertura alla mobilità nel mercato legale europeo
Nella parte conclusiva della sentenza, la Corte stabilisce che il diritto UE impedisce agli Stati membri di escludere automaticamente il tirocinio svolto all’estero, purché venga dimostrata la sua idoneità a garantire una formazione equivalente.

Una decisione destinata a incidere non solo sulla normativa austriaca, ma potenzialmente su tutti quei sistemi giuridici nazionali che ancora subordinano l’accesso alla professione forense a vincoli territoriali rigidi. La mobilità nel mercato legale europeo, oggi, ha un nuovo alleato.


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Giudici contabili contro la riforma: “Così si rischia illegalità diffusa e deresponsabilizzazione”

ROMA – I giudici contabili alzano la voce. Con una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’Associazione Nazionale Magistrati della Corte dei Conti lancia un allarme senza precedenti: la riforma in arrivo rischia di smantellare il sistema dei controlli sulla spesa pubblica, riducendo drasticamente la responsabilità per danno erariale e aprendo la strada a “scenari di illegalità diffusa e di inefficienza”.

Il testo, che approderà in Aula entro Pasqua, prevede un vero e proprio “scudo erariale” per politici, amministratori e anche soggetti privati che gestiscono fondi pubblici. Il risarcimento del danno sarà infatti ridotto fino al 70%, con un tetto massimo fissato al 20% nei casi migliori. “Un regalo per tanti”, commentano i magistrati.

La norma, fortemente voluta dalla maggioranza, si presenta con l’intento dichiarato di “superare la paura della firma” che spesso blocca l’azione amministrativa. Ma per la magistratura contabile si tratta di un passo indietro pericoloso. “La ragionevole e indistinta limitazione della responsabilità svilisce la funzione giurisdizionale”, scrivono nella missiva.

Due le modifiche più contestate:

  1. Il maxi taglio del risarcimento per danno erariale, che disincentiverebbe l’etica pubblica e favorirebbe comportamenti negligenti;
  2. Il potenziamento retroattivo della “buona fede”, introdotto da un emendamento notturno firmato da Augusta Montaruli (FdI), che rende inefficaci le contestazioni nei confronti di amministratori e politici se si dimostra la “buona fede” nell’azione compiuta.

Per i magistrati, queste misure non solo indeboliscono i controlli ma mettono anche a rischio la compatibilità con i principi europei sulla gestione trasparente delle risorse pubbliche. “Si prefigurano possibili forme di cogestione che sono incompatibili con l’indipendenza dei giudici”, si legge nella lettera.

Appello al dialogo
La lettera si conclude con un appello diretto al presidente Meloni: “Ci rivolgiamo a Lei con la convinzione che sia nostro dovere fare ogni tentativo per evitare che scelte poco meditate possano danneggiare le istituzioni. Chiediamo con urgenza un incontro chiarificatore. Nel superiore interesse del Paese”.

Una riforma che, secondo l’Associazione dei magistrati contabili, rischia non solo di cancellare il giudice del danno erariale ma anche di compromettere “gli standard di buona amministrazione”. E mentre l’opposizione annuncia battaglia in Parlamento, il silenzio dell’esecutivo preoccupa. “Finora nessuna risposta – concludono i giudici – ma restiamo fiduciosi nella possibilità di un dialogo aperto”.


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Post, selfie e “stories” che costano il posto: quando i social mettono a rischio il lavoro

La reputazione è un capitale intangibile, ma sempre più concreto, sia per le aziende pubbliche che per quelle private. E oggi i tribunali lo riconoscono apertamente, soprattutto quando a minacciarla sono comportamenti “virali” sui social network. Scatti pubblicati durante la pausa pranzo, stories ironiche, video goliardici e persino like su commenti offensivi possono costare caro: il licenziamento è spesso ritenuto legittimo.

A Roma, una commessa è stata licenziata per aver pubblicato su TikTok un video in cui si lamentava – con tanto di emoji buffa – del fatto che fosse solo mercoledì. Era in pausa, ma per il Tribunale (sentenza n. 6854/2023) il tono usato danneggiava l’immagine dell’azienda. A Messina, invece, un lavoratore ha perso il posto per aver pubblicato su Facebook un video in cui accusava il datore di lavoro di soprusi, apprezzando pubblicamente commenti denigratori altrui (sentenza n. 2275/2024).

I giudici ricordano che i social network, per quanto personali, sono da considerare “luoghi aperti al pubblico”, anche se l’account ha pochi contatti. La dimensione pubblica dei contenuti condivisi è determinante: il tono ironico o scherzoso non giustifica il danno alla reputazione del datore di lavoro. Per contro, le conversazioni su chat private restano tutelate dal diritto alla riservatezza. La Cassazione (sentenza n. 5334/2025) ha stabilito che non si può licenziare un dipendente solo perché ha condiviso su WhatsApp commenti critici, a meno che non li abbia resi pubblici.

Ma non si tratta solo di parole. Anche i contenuti visivi possono diventare un boomerang. A Napoli, una lavoratrice è stata licenziata per aver fotografato – e condiviso – un’auto industriale ancora non in commercio, immortalata durante l’orario di lavoro. La Corte d’Appello (sentenza n. 3470/2024) ha annullato il licenziamento solo per carenza di prova del danno e per la mancata comunicazione del divieto di uso del cellulare.

Ancora più gravi sono gli episodi legati a offese razziste, comportamenti contrari all’etica o immagini inappropriate. A Sassari, un infermiere ha perso il lavoro per essersi travestito da personaggio horror durante l’orario di servizio, scattandosi foto con le colleghe e postandole online (sentenza n. 387/2021). Il Tribunale ha sottolineato il messaggio diseducativo e l’incompatibilità con il ruolo ricoperto.

Nemmeno la vita privata è al riparo: il dipendente che pratica sport contrari alle prescrizioni mediche aziendali e pubblica i video sui social viola il dovere di diligenza e può essere licenziato. È il caso esaminato dalla Corte d’Appello di Roma (sentenza n. 4047/2025), in cui un lavoratore inidoneo a sollevare pesi è stato immortalato in intensi allenamenti in palestra.

Le investigazioni aziendali, sempre più frequenti, fanno leva sulle pubblicazioni online per dimostrare l’infedeltà del dipendente. A Benevento (sentenza n. 1053/2024), il giudice ha confermato che i video pubblici – anche se condivisi per vanità o leggerezza – possono legittimare sanzioni, specie se rivelano comportamenti contrari alle indicazioni mediche.

La giurisprudenza chiarisce anche i confini del diritto di critica: è garantito dalla Costituzione, ma deve rimanere nei limiti della “continenza espressiva”. Commenti e post offensivi, anche se fondati, non possono ledere la dignità e l’immagine dell’azienda. Un lavoratore che pubblica stories su Instagram insultando colleghi o superiori può dunque essere licenziato per giusta causa. E ciò vale anche per i dipendenti pubblici: offese rivolte all’ente di appartenenza, anche se mascherate da “sfoghi” personali, ledono il rapporto fiduciario e giustificano l’allontanamento.

Infine, attenzione anche ai permessi e alle malattie. Il dipendente che posta foto di vacanze o concerti mentre usufruisce di congedi o permessi studio rischia il licenziamento per violazione del vincolo fiduciario. È il caso deciso a Napoli (sentenza n. 658/2025), dove un lavoratore ha provato – invano – a giustificare con fotografie “datate” la propria presenza in Thailandia.

In un mondo sempre più interconnesso, i social sono diventati lo specchio non solo della vita privata, ma anche dell’affidabilità professionale. E la leggerezza, sui social, può costare molto più di un like.


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Ministeri al collasso, un dipendente su tre manca all’appello: in arrivo 4mila assunzioni per tamponare l’emergenza

ROMA – La fotografia scattata all’interno dei ministeri italiani è impietosa: manca un dipendente su tre. Una voragine negli organici che sta mettendo a dura prova il funzionamento della macchina statale e la qualità dei servizi offerti ai cittadini. Per tentare di arginare questa emorragia di risorse umane, il governo ha dato il via libera a un piano di assunzioni che prevede l’ingresso di oltre 4mila nuove unità di personale nelle amministrazioni centrali dello Stato nel corso di quest’anno.

A guidare la lista dei dicasteri con maggiore necessità di rinforzi è il Ministero della Giustizia. Via Arenula si prepara ad accogliere ben 1.734 nuovi dipendenti, tra cui 369 funzionari destinati al Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Un investimento significativo, con una spesa complessiva che supera i 55 milioni di euro, volto a colmare le gravi lacune che affliggono uffici giudiziari e tribunali in tutta la penisola.

Se la maggior parte delle nuove leve arriverà tramite l’espletamento di concorsi pubblici, il piano prevede anche misure di stabilizzazione per il personale precario e progressioni tra le aree professionali. Un piccolo spiraglio anche per l’Ufficio centrale archivi notarili, dove si prevede di coprire 17 posti attraverso lo scorrimento delle graduatorie. Tuttavia, la situazione rimane critica, con una pianta organica sottodimensionata rispetto alle reali esigenze operative dell’amministrazione, come si evince dal Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) del ministero. A settembre 2024, il personale in servizio contava solo 387 unità (424 includendo comandati e distaccati), un numero ancora lontano dalle necessità.

L’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha da tempo lanciato l’allarme sulla carenza di personale amministrativo, definendolo “essenziale per il funzionamento degli uffici giudiziari”. Tra le proposte avanzate al governo per una giustizia più efficiente spicca un piano straordinario di assunzioni mirato proprio a colmare le scoperture di organico e a stabilizzare il personale precario dell’Ufficio per il Processo. Richieste che, secondo l’Anm, rappresentano un’urgenza ben più impellente rispetto alla riforma Nordio.

Tuttavia, sull’annunciato piano di assunzioni non mancano le voci critiche. Claudia Ratti, segretario generale di Confintesa Funzione Pubblica, pur riconoscendo la necessità di stabilizzare il personale precario, spiega: “Nessuno deve dimenticare che i dipendenti del Ministero della Giustizia hanno un Contratto Collettivo Integrativo fermo al 2010, dunque ben 15 anni nei quali i problemi si sono aggravati a causa di una politica del personale miope. Nuove assunzioni sì, ma solo dopo aver sanato tutti i problemi del personale in servizio. La sfida per il governo sarà quella di trovare un equilibrio tra la necessità di rimpinguare gli organici e la gestione delle dinamiche interne alla Pubblica Amministrazione, per evitare che le nuove assunzioni si traducano in ulteriori disagi per chi lavora già da tempo nel settore”


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Violenza familiare, se il pregiudizio di genere entra nelle aule di giustizia

Una riflessione si impone a seguito della pubblicazione delle Linee guida sull’applicazione del delitto di cui all’art. 572 c.p. e su questioni procedimentali e processuali relative ai reati di violenza di genere, domestica e contro le donne, redatte dalla Procura della Repubblica di Tivoli, a firma del Procuratore Francesco Menditto e del Sostituto Procuratore Andrea Calì (vedi “Femminicidio, i proclami giustizialisti spesso nascondono un mondo di interessi”, di Rita Ronchi, pubblicato in “Dentro la notizia, La newsletter del giornale La Voce”, 20 marzo 2025, pag. 13).

Il documento, che si propone di orientare l’azione giudiziaria nei procedimenti familiari, civili e penali, sembra però introdurre una visione fortemente sbilanciata: l’uomo viene rappresentato come colpevole in quanto tale, mentre alla donna è attribuito un ruolo di vittima “per statuto”. Le linee guida suggeriscono una lettura ideologica della violenza familiare, ricondotta a una presunta “natura strutturale” del maschio volta al dominio e all’oppressione del genere femminile. Una concezione che, secondo gli estensori del documento, dovrebbe influenzare la valutazione delle condotte, le strategie investigative e persino l’interpretazione dei rapporti interpersonali.

Il rischio evidenziato da diversi osservatori è che, sulla base di tali presupposti, venga costruito un identikit precostituito della vittima e dell’autore del reato, rendendo superflua l’analisi oggettiva del caso concreto. Ne risente così il principio di terzietà e imparzialità che dovrebbe regolare ogni processo. Anche nei rari passaggi in cui si fa riferimento a donne come potenziali autrici di maltrattamenti, queste vengono comunque inquadrate come figure fragili, mosse da reazioni emotive legate a contesti di sopraffazione. La narrazione dominante resta quella di una “violenza maschile sistemica” che annulla la possibilità di valutare caso per caso, relegando l’uomo a un ruolo intrinsecamente colpevole.

La Procura arriva perfino a contestualizzare il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) come espressione di un progetto relazionale violento e discriminatorio dell’uomo verso l’ex partner, anche in presenza di fasi di concordia o assenza di aggressività documentata.

Il pericolo di una giustizia ideologizzata è evidente: l’equilibrio tra i sessi, invece di essere garantito, rischia di essere compromesso proprio nei luoghi deputati alla tutela dei diritti. La verità processuale potrebbe così lasciare il passo a una verità precostituita, fondata su stereotipi e visioni precarie della realtà. Una tale impostazione, infine, solleva dubbi anche di legittimità costituzionale, per la violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge e per l’inversione dell’onere della prova, che pare colpire selettivamente in base al genere.

Serve forse una nuova riflessione, lontana dalle semplificazioni e più vicina alla complessità delle relazioni familiari e dei conflitti che in esse possono maturare — senza pregiudizi, e con uno sguardo autenticamente giuridico. È cruciale riconoscere che la violenza domestica (ma tutta la violenza in genere) può manifestarsi in diverse forme e coinvolgere chiunque, e che un approccio giudiziario equo deve concentrarsi sui comportamenti individuali e sulle prove concrete, condannando fermamente ogni atto di violenza, a prescindere dal genere di chi lo perpetra.


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Competenze digitali, la chiave per trovare lavoro: valgono più di una laurea

Le competenze digitali avanzate sono il nuovo lasciapassare per il mondo del lavoro.

Secondo uno studio condotto dalla Fondazione Bruno Kessler e dall’Università di Trento, conoscere algoritmi, programmare, saper utilizzare software statistici o piattaforme di cloud computing può fare la differenza più di una laurea nel processo di assunzione. I ricercatori hanno analizzato il comportamento di oltre 700 recruiter in Italia, Germania e Regno Unito, scoprendo che il possesso di competenze digitali avanzate aumenta sensibilmente la probabilità di essere assunti: +7,6% per i ruoli manageriali e +6,7% per quelli tecnici.

L’analisi si basa su un esperimento fattoriale che ha messo alla prova la valutazione di quattro profili professionali per ciascuno dei tre Paesi, distinguendoli in base a tre livelli di padronanza digitale: avanzato, intermedio e base.
Non si tratta di semplici abilità informatiche come l’uso di Office o dei social network, ma di skill tecniche specifiche: programmazione, gestione dei Big Data, utilizzo di software analitici, conoscenza di algoritmi e strutture dati, oltre a familiarità con sistemi distribuiti.

Lo studio evidenzia differenze significative tra i mercati del lavoro europei. Il Regno Unito, con il suo modello flessibile e meritocratico, premia maggiormente le abilità digitali (+10,21%). Al contrario, in Italia e Germania il titolo di studio continua ad avere un certo peso: in Italia, ad esempio, la laurea incide ancora per un +4,58% sulle possibilità di essere assunti. Tuttavia, anche in questi contesti più tradizionali, le competenze digitali avanzate si rivelano decisive per emergere.

Un altro dato interessante riguarda il “mismatch” tra formazione e lavoro: le competenze digitali funzionano da “paracadute” nei casi in cui il percorso di studi non sia perfettamente allineato con la posizione ricercata. In altre parole, possono compensare eventuali lacune educative, aumentando le chance occupazionali.

«Lungi dal creare disoccupazione tecnologica – commenta Paolo Barbieri, professore di Sociologia economica all’Università di Trento e promotore della ricerca – l’innovazione e le competenze digitali aiutano a creare lavoro qualificato e a favorire il matching fra domanda e offerta. Questo ci dice quanto sia cruciale formare i nostri studenti con strumenti adeguati a un mercato sempre più globale e selettivo».

In un mondo del lavoro in continua evoluzione, non basta più il titolo: servono conoscenze pratiche, specifiche e aggiornate. E la rivoluzione digitale, ancora una volta, cambia le regole del gioco.


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Rischio povertà, molto più alto tra gli autonomi che tra i dipendenti

Tra tutti i nuclei che hanno come capofamiglia un lavoratore autonomo, il rischio povertà o esclusione sociale è al 22,7 per cento, mentre la quota riferita a tutte le famiglie con alla guida un lavoratore dipendente è decisamente inferiore e pari al 14,8 per cento. In altre parole, se negli ultimi decenni abbiamo assistito a una progressiva riduzione del potere d’acquisto dei salari che ha spinto verso l’area dell’indigenza molti operai/impiegati con bassi livelli di inquadramento contrattuale, ai lavoratori autonomi le cose sono andate molto peggio. I fatturati hanno subito delle forti contrazioni e, conseguentemente, la qualità della vita delle partite Iva ha subito un deciso aggravamento. La denuncia è sollevata dall’Ufficio studi CGIA che ha elaborato i dati dell’Istat[1].

Qualcuno potrebbe obbiettare che i dati riferiti alla povertà dei lavoratori autonomi sarebbero condizionati da importi reddituali  dichiarati non corrispondenti al vero. In realtà, il rischio povertà o esclusione sociale è un indicatore molto complesso che è dato dalla somma delle persone che si trovano in almeno una delle seguenti

condizioni: vivono in famiglie a rischio povertà; vivono in famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale; vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro. Ovviamente, tra le categorie monitorate dall’Istat la più disagiata economicamente e socialmente è quella dei pensionati, dove il rischio povertà delle famiglie è addirittura al 33,1 per cento.

  • Oltre 5 milioni di partite Iva, metà sono forfettari

In Italia il numero dei lavoratori indipendenti[2] è stimato in 5.170.000 unità[3]. Di questi, poco meno della metà opera in regime dei minimi. Stiamo parlando di attività economiche senza dipendenti e senza alcuna organizzazione d’impresa con un fatturato annuo al di sotto degli 85 mila euro. Insomma, una pura e semplice partita Iva che fa dell’autoimprenditorialità la sua ragione lavorativa.  E’ il caso di tanti giovani, di altrettante donne e di molte persone in età avanzata soprattutto del Mezzogiorno che sbarcano il lunario con piccoli lavori/consulenze senza disporre di alcun ammortizzatore sociale e/o sostegno pubblico. Soggetti che faticano a incassare le proprie spettanze e che, nella stragrande maggioranza dei casi, si trovano in condizioni economiche molto fragili e, quindi, a forte rischio di povertà o esclusione sociale.

  • Rispetto al 2003, reddito autonomi – 30%

Negli ultimi 20 anni il reddito degli autonomi è sceso del 30 per cento, mentre quello dei lavoratori dipendenti è diminuito di “solo” l’8 per cento. Per i pensionati, invece, il dato è rimasto pressoché stabile. La debolezza economica di molte partite Iva, il crollo dei consumi interni – causato dalle crisi economiche che si sono succedute in questi due decenni – e alla concorrenza praticata dapprima dalla grande distribuzione e negli ultimi anni dal commercio elettronico,  hanno fiaccato la tenuta reddituale di tantissime micro attività.

  • Dazi: danni anche a molti lavoratori autonomi

Dal momento che non lavorano direttamente con i mercati stranieri e che sono pochissimi coloro che operano nelle filiere produttive coinvolte nelle esportazioni, i lavoratori autonomi non dovrebbero subire effetti negativi dall’introduzione dei dazi annunciati nei giorni scorsi dal Presidente Trump. Ma le cose potrebbero andare anche diversamente. Se le misure protezionistiche introdotte dall’Amministrazione statunitense dovessero provocare una flessione della crescita economica e un incremento dell’inflazione anche in Italia, gli autonomi più fragili potrebbero essere tra i lavoratori più danneggiati. Ecco perché è necessario, dove possibile, diversificare i mercati di vendita all’estero dei nostri prodotti e rilanciare la domanda interna, attraverso la messa a terra del PNRR e una ripresa dei consumi che potrebbe essere agevolata proseguendo nella riduzione delle imposte a famiglie e imprese.

  • In Italia in difficoltà 13,5 milioni di persone

In termini assoluti tutta la popolazione a rischio povertà o esclusione sociale presente in Italia è a pari a 13,5 milioni di persone (23,1 per cento del totale abitanti). Di questi, 7,7 milioni (pari al 57 per cento del totale) sono residenti nel Mezzogiorno. La regione che ne conta di più è la Campania con 2,4 milioni. Seguono la Sicilia con 1,9, il Lazio con quasi 1,5 e la Puglia con 1,46. Se, invece, prendiamo come riferimento la percentuale a rischio povertà sul totale abitanti, la regione con la quota più elevata è la Calabria (48,8 per cento). Seguono la Campania (43,5), la Sicilia (40,9) e la Puglia (37,7).

[1] Condizioni di vita e reddito delle famiglie anni 2023-2024, Roma 26 marzo 2025

[2] Artigiani, commercianti, esercenti, liberi professionisti, collaboratori familiari, etc.

[3] Istat, Occupati e disoccupati (dati provvisori), febbraio 2025, Roma 1 aprile 2025.


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