Disservizi nel deposito telematico degli atti giudiziari

Segnalati disservizi nel deposito telematico degli atti giudiziari per gli utenti del processo civile telematico. Da ieri sera, numerosi avvocati segnalano anomalie nella trasmissione delle PEC ai Tribunali: dopo la ricezione della prima ricevuta di accettazione, la posta elettronica certificata inviata non viene riconosciuta come tale dal sistema destinatario, bloccando così la generazione delle successive ricevute di consegna e impedendo il completamento dell’iter telematico.

La testimonianza di un avvocato del foro di Messina, raccolta nella serata di ieri, fotografa bene il problema: “Ho tentato nel pomeriggio il deposito di un atto al Tribunale lavoro di Messina. Tuttavia, dopo la prima PEC di accettazione non vengono generate le successive, in quanto la PEC viene riconosciuta come mail ordinaria”.

Un malfunzionamento che potrebbe avere conseguenze pesanti per i professionisti, rischiando di compromettere i termini perentori di legge per il deposito di atti e memorie. Secondo quanto emerso, la problematica sembrerebbe legata alle difficoltà nel riconoscimento corretto del canale certificato presso i sistemi giudiziari.

Nessuna comunicazione ufficiale, al momento, da parte del Ministero.


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L’incontro rappresenta un ulteriore passo nel consolidamento dei rapporti bilaterali tra Italia e Moldova, con l’obiettivo di rafforzare la collaborazione istituzionale in ambito giudiziario e politico.

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Anomalie Servizi PCT – Ritardi ricezione Seconda e Terza PEC

Si comunica che a causa di anomalie da parte del sistema Ministeriale , si stanno verificando dei ritardi nella ricezione della Seconda e Terza PEC o ricezione delle stesse solo su mail ordinaria.

Non ci sono comunicazioni da parte del Ministero sulla procedura da eseguire.

Consiglio: Verificare se il deposito è andato a buon fine tramite la consultazione o contattare la cancelleria di riferimento e verificare se è arrivato il deposito telematico.


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Danno risarcibile: la prescrizione decorre dalla scoperta, non dal fatto

ROMA — Non conta quando il danno viene materialmente provocato, ma quando chi lo subisce può effettivamente accorgersene. È questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 13092 del 16 maggio 2025, intervenendo su una controversia relativa alla gestione di fondi da parte di un amministratore di un’associazione sindacale non riconosciuta.

Il caso riguarda un amministratore condannato in primo grado a restituire oltre 233mila euro, somma sottratta all’associazione attraverso movimentazioni extracontabili. L’amministratore aveva infatti gestito entrate e uscite senza registrarle ufficialmente, in violazione delle norme statutarie e delle direttive sindacali nazionali, che imponevano trasparenza nella gestione contabile.

La Corte d’appello aveva ritenuto che la prescrizione dovesse decorrere dal momento in cui i fatti illeciti erano stati commessi. Ma la Cassazione ha ribaltato l’impostazione, ricordando che in materia di risarcimento da fatto illecito, il termine di prescrizione parte dal momento in cui il danno diviene percepibile e conoscibile con ordinaria diligenza da parte del danneggiato.

La Suprema Corte ha sottolineato come nel corso degli anni la giurisprudenza abbia progressivamente spostato l’attenzione dal fatto in sé alla sua esteriorizzazione, ossia al momento in cui il pregiudizio si manifesta concretamente e può essere riconosciuto. La cessazione dell’incarico dell’amministratore, inoltre, non incide automaticamente sul decorso del termine prescrizionale, se il danno non è ancora rilevabile o evidente.

Nel caso esaminato, la scoperta delle operazioni irregolari è avvenuta solo con la ricostruzione dei movimenti extracontabili, rendendo palese la condotta distrattiva dell’amministratore. È da quel momento — ha stabilito la Cassazione — che decorre il termine per esercitare l’azione risarcitoria.


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Cedolare secca anche per gli immobili locati a fondazioni: la Cassazione smentisce il Fisco

ROMA — La cedolare secca può essere applicata anche ai contratti di locazione stipulati con fondazioni, purché l’immobile sia destinato a uso abitativo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 12076/2025, respingendo il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate contro una precedente pronuncia della Commissione tributaria regionale del Lazio.

Il caso nasce da un avviso di accertamento notificato nel 2016 a un contribuente per un contratto di locazione risalente al 2011. Secondo il Fisco, la cedolare secca non sarebbe stata applicabile, in quanto la fondazione conduttrice — attiva nel settore dell’editoria — esercitava attività professionale. Inoltre, l’amministrazione finanziaria riteneva che il regime agevolato spettasse agli enti senza scopo di lucro solo in presenza di sublocazioni a studenti o di immobili concessi ai Comuni.

Di diverso avviso i giudici tributari, che hanno confermato l’orientamento emerso da più recenti pronunce della Cassazione. La Suprema Corte ha infatti ribadito che il locatore può scegliere il regime della cedolare secca anche se il conduttore utilizza l’immobile ad uso abitativo nell’ambito della propria attività professionale. L’esclusione prevista dall’articolo 3, comma 6, del decreto legislativo n. 23/2011 — osservano i giudici — riguarda solo le locazioni effettuate dal locatore nell’esercizio di impresa o di arti e professioni, e non quelle concluse da un soggetto privato con un imprenditore o un ente, se l’immobile conserva la destinazione abitativa.

L’Agenzia delle Entrate aveva sostenuto una lettura restrittiva della norma, richiamando anche una giurisprudenza di merito non uniforme e un precedente isolato della Cassazione. Ma i giudici di legittimità hanno smentito questa impostazione, precisando che il regime agevolato resta applicabile anche quando il contratto di locazione ad uso abitativo è sottoscritto da un soggetto professionale o imprenditoriale, purché l’utilizzo dell’immobile sia conforme alla destinazione residenziale.


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Privacy violata nelle associazioni: il Garante sanziona chi diffonde dati personali senza regole chiare

ROMA — Attenzione alla gestione dei dati personali all’interno di associazioni, fondazioni e comitati: la pubblicazione o la comunicazione non autorizzata di informazioni riguardanti iscritti e soci può costare caro. È quanto emerge dalle relazioni del Garante per la protezione dei dati personali, guidato da Pasquale Stanzione, che ha sanzionato e ammonito diverse realtà per trattamenti illeciti e scorrette modalità di diffusione di dati.

Tra i casi più recenti, una sanzione da 5.000 euro è stata inflitta a una fondazione per aver pubblicato sul proprio sito web tre atti contenenti dati sulla salute di una dipendente e sulla pendenza di una procedura disciplinare a suo carico. Una violazione che il Garante ha definito gravissima per la tutela della riservatezza.

In un altro episodio, una federazione è stata richiamata per aver comunicato a tutti i soci, tramite newsletter, informazioni personali su un associato, riportando decisioni disciplinari interne e il contenuto di una lettera ritenuta offensiva. Il Garante ha contestato l’assenza, nei regolamenti associativi, di norme chiare sulle condizioni per rendere noti questi dati agli iscritti.

Anche la pubblicazione online degli esiti di esami con il nome e il giudizio finale accanto è finita sotto la lente dell’Autorità, che ne ha dichiarato l’illegittimità in assenza di misure che garantissero la conoscibilità dei dati solo ai diretti interessati.

Altre sanzioni hanno riguardato associazioni sindacali e civiche per aver inviato mail informative a iscritti di altre organizzazioni o per aver diffuso informazioni sui social senza una base giuridica adeguata. In particolare, è stato ritenuto illecito l’invio di comunicazioni di posta elettronica contenenti notizie personali, come il mancato pagamento di quote associative o provvedimenti disciplinari, senza rispettare le regole statutarie o senza autorizzazione.

In ogni caso — sottolinea il Garante — i dati personali degli associati possono essere comunicati o diffusi solo se previsto dallo statuto o da un regolamento approvato, e comunque sempre nel rispetto della finalità associativa e della riservatezza degli iscritti.

Un quadro che conferma quanto sia ancora delicato il tema della privacy nel mondo associativo, dove la diffusione di informazioni personali senza controlli adeguati rischia di violare diritti fondamentali. Da qui il richiamo dell’Autorità a una maggiore attenzione nella stesura degli statuti e nella definizione delle regole per la gestione e la circolazione dei dati.


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Mattarella ai magistrati: «Niente repliche sopra le righe, la giustizia va difesa con rigore e sobrietà»

ROMA — In un momento in cui il clima attorno alla giustizia si fa sempre più acceso, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è tornato a richiamare magistrati e politica alla responsabilità. Nel consueto incontro annuale con i giovani magistrati in tirocinio, il Capo dello Stato ha lanciato un messaggio chiaro: evitare toni esasperati e repliche sopra le righe, per non prestare il fianco a chi vorrebbe trascinare le toghe nella polemica politica.

Il presidente ha ammonito contro il rischio di indebolire il ruolo della magistratura, sottolineando come le provocazioni non manchino e come sia indispensabile che i magistrati mantengano rigore morale, professionalità elevata e imparzialità, anche nell’uso dei social media. «Chi si comporta male», ha avvertito Mattarella, «finisce per compromettere la credibilità dell’intera categoria».

Un richiamo, il suo, che arriva mentre il dibattito sulla riforma della giustizia e la separazione delle carriere è entrato nel vivo. La riforma costituzionale, già approvata alla Camera, sarà infatti discussa in Senato l’11 giugno, con le opposizioni pronte a dare battaglia.

Mattarella ha condannato le strumentalizzazioni e gli attacchi rivolti ai magistrati, definiti tentativi cinici di alimentare tensioni e screditare la giurisdizione agli occhi dell’opinione pubblica. E ha stigmatizzato le recenti dichiarazioni che hanno paragonato i magistrati critici con il governo a realtà criminali, definendole «insultanti e inaccettabili».

Il Capo dello Stato ha poi ribadito l’importanza della coerenza nell’applicazione delle leggi, per evitare disparità di trattamento tra casi simili e garantire ai cittadini una giustizia prevedibile e trasparente. Un passaggio, il suo, che sembra anche un velato riferimento ad alcune recenti sentenze finite sotto i riflettori.

Il presidente ha infine ricordato come la giurisdizione debba restare ancorata alla legalità, libera da pressioni esterne e dalle tentazioni di protagonismo. Solo così, ha concluso, si potrà preservare il rispetto e la fiducia dei cittadini verso il sistema giudiziario.


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“Ciao, ho sbagliato numero?”: la truffa via SMS che inganna migliaia di utenti

Un semplice messaggio inviato per errore, un tono cortese e una conversazione leggera: è così che ha inizio una delle truffe digitali più subdole degli ultimi tempi. Dietro un innocuo “Ciao! Ho sbagliato numero?” si nasconde un meccanismo raffinato che ha già mietuto migliaia di vittime in tutto il mondo.

La truffa, conosciuta come “Oops, numero sbagliato”, si fonda su un’abilità di manipolazione psicologica che sfrutta empatia e buona fede. Il copione è collaudato: un mittente sconosciuto scrive fingendo di aver contattato la persona sbagliata. Chi risponde viene immediatamente inserito in una lista di potenziali bersagli e da lì prende il via una conversazione apparentemente innocua. Solo dopo giorni o settimane di messaggi, quando la fiducia è stata costruita, il truffatore svela le sue vere intenzioni.

Il fine è sempre lo stesso: estorcere informazioni personali, credenziali bancarie o convincere le vittime a installare applicazioni malevole o cliccare su link fraudolenti. In alcuni casi, la relazione virtuale si trasforma addirittura in una finta storia d’amore, sfruttata come leva emotiva per ottenere denaro.

Le origini di questo inganno risalgono al 2019, quando gruppi criminali cinesi hanno iniziato a sperimentarlo, perfezionandolo poi nel sud-est asiatico attraverso call center e sistemi automatizzati che attingono numeri dal dark web. Oggi è una rete ben organizzata, classificata dall’FBI tra le truffe online più pericolose e in rapida espansione.

A rendere questo raggiro particolarmente insidioso è la sua gradualità. Non si tratta di un attacco improvviso, ma di una trappola costruita pazientemente nel tempo. I criminali sanno dosare toni e tempi, creando relazioni virtuali credibili e rassicuranti prima di passare all’azione.

Per difendersi, gli esperti raccomandano di non rispondere mai a messaggi di sconosciuti destinati ad altri, di bloccare immediatamente il numero, evitare di cliccare su link inviati da contatti non verificati e non condividere mai dati personali via chat. In caso di interazione, è fondamentale agire subito: cambiare password, contattare la propria banca e segnalare l’accaduto alla Polizia Postale.


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Femminicidio, no di 77 penaliste al nuovo reato: “Rischio norma simbolica e inefficace”

Settantasette tra professoresse universitarie, ricercatrici e studiose di diritto penale hanno sottoscritto un documento con cui esprimono la loro ferma contrarietà all’introduzione di un nuovo reato di femminicidio, così come previsto dal disegno di legge n. S. 1433, attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato.

Il testo normativo proposto dal Governo prevede l’introduzione di una fattispecie autonoma di reato, punita con l’ergastolo, per l’uccisione di una donna motivata dall’appartenenza di genere. Pur riconoscendo la centralità e l’urgenza di rafforzare la lotta alla violenza contro le donne, le firmatarie del documento sollevano riserve di fondo sull’efficacia e sull’impostazione di questa riforma.

Una legge dal valore più simbolico che concreto, spiegano le penaliste, che sottolineano come l’attuale ordinamento già consenta di punire con l’ergastolo i casi di omicidio aggravato da motivi di genere, grazie alle modifiche normative intervenute negli ultimi anni. Più che colmare una lacuna, la nuova fattispecie rischierebbe, secondo le firmatarie, di assumere una valenza prevalentemente simbolica, senza incidere realmente sul fenomeno.

Il timore, spiegano, è che l’enfasi legislativa su misure di facciata rallenti il necessario confronto sulle cause profonde della violenza maschile, che affondano le radici in una cultura e in un assetto sociale ancora fortemente improntati a discriminazioni e disparità di genere. “Non sarà la minaccia dell’ergastolo — avvertono — a dissuadere chi non riconosce la libertà e il valore della persona femminile”.

Le penaliste criticano inoltre l’assenza di strategie di prevenzione culturale e sociale strutturata, ritenendo che un intervento esclusivamente repressivo sia destinato a fallire. Lo dimostrerebbe, secondo il documento, anche l’esperienza di numerosi Paesi sudamericani, dove l’introduzione di reati di femminicidio non ha impedito il persistere di elevati tassi di omicidi di donne.

La posizione delle studiose non è un rifiuto pregiudiziale delle iniziative contro la violenza di genere, bensì un invito a evitare scorciatoie legislative dal sapore populista e ad affrontare il problema nella sua complessità. Solo così, affermano, sarà possibile scardinare quella rete di stereotipi, disuguaglianze e discriminazioni sistemiche che continuano a legittimare la sopraffazione e la violenza sulle donne.

Il documento si chiude con un appello alla politica: “Serve una riflessione seria, ampia e coraggiosa, non una norma bandiera”.


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Patteggiamento e diritto UE: la Cassazione chiude la porta al ricorso per questioni europee

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 14835/2025, ha ribadito i confini invalicabili del ricorso contro le sentenze di patteggiamento, precisando che restano esclusi anche i motivi fondati su presunte violazioni del diritto dell’Unione Europea. Una decisione che, pur rispettando la lettera della normativa processuale italiana, rischia di riaccendere la discussione sul bilanciamento tra regole interne e garanzie sovranazionali.

Il caso trae origine da un procedimento che vedeva coinvolta l’Unione Italiana Vini Servizi Società Cooperativa, accusata di illecito amministrativo in relazione a una truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche europee. Il patteggiamento davanti al GIP di Verona aveva portato all’applicazione di una sanzione pecuniaria da 100.000 euro. Tuttavia, la difesa aveva tentato la via del ricorso per Cassazione, sollevando, tra l’altro, questioni legate all’applicazione del diritto UE e alla definizione di “profitto” per un ente no-profit in materia di finanziamenti comunitari.

Particolarmente delicati i temi sollevati: la possibilità di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia UE anche in sede di patteggiamento e il rispetto del diritto di difesa nel contesto delle indagini EPPO (Procura Europea). Secondo la difesa, la normativa italiana limiterebbe illegittimamente il diritto al ricorso, in contrasto con il primato del diritto UE e con l’articolo 267 del TFUE che garantisce la possibilità di attivare il rinvio pregiudiziale.

La Suprema Corte, però, è stata netta: le censure prospettate esulano dai ristretti motivi di ricorso consentiti dalla legge per le sentenze di patteggiamento, che si limitano ai soli vizi di volontà dell’imputato, difetto di correlazione tra imputazione e sentenza, erronea qualificazione giuridica del fatto e illegalità della pena. Nemmeno la prospettazione di una possibile violazione di diritti fondamentali garantiti dal diritto UE, ha precisato la Corte, consente di superare questo limite.

Quanto alla questione del diritto di essere ascoltati nel procedimento EPPO, la Cassazione ha ricordato che il meccanismo decisionale della Procura Europea — articolato tra procuratori delegati, il Procuratore Europeo e la Camera Permanente — non lede i diritti della difesa, trattandosi di passaggi interni alla struttura dell’EPPO, privi di effetti pregiudizievoli autonomi per l’indagato.

Infine, la Corte ha negato la possibilità di sollevare davanti alla Corte di Giustizia UE la questione sulla nozione di profitto per gli enti no-profit, sottolineando che una censura sulla sussistenza del profitto richiesto per configurare la truffa aggravata si traduce in un apprezzamento di merito, precluso in sede di legittimità.


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