Casa dei suoceri e separazione: quando l’ex può restare nell’immobile in comodato familiare

Anche in caso di separazione o divorzio, la casa in cui una coppia ha convissuto durante il matrimonio può continuare a essere abitata dall’ex coniuge a cui vengono affidati i figli minori o non economicamente autosufficienti, anche se l’immobile appartiene ai suoceri. A stabilirlo è la Corte di Cassazione civile con la recente sentenza n. 17095/2025, che interviene su una materia da sempre delicata e fonte di contenziosi nelle aule giudiziarie: il comodato familiare e la sua durata in presenza di una crisi coniugale.

Il caso: 13 anni nella casa dei suoceri

La vicenda riguarda una famiglia che per 13 anni aveva vissuto nel primo piano della villetta dei genitori del marito. Alla separazione dei coniugi, il giudice aveva previsto un contributo di mantenimento per la figlia minore e, inoltre, una somma mensile destinata all’ex moglie per il pagamento di un affitto in altro appartamento. Tuttavia, era stato stabilito che, in caso di mancato versamento di questa somma, madre e figlia avrebbero avuto diritto a rientrare nell’abitazione familiare.

La madre del marito, comproprietaria dell’immobile col defunto marito, si era quindi rivolta alla Cassazione sostenendo che, con la separazione e il divorzio, fosse venuto meno il contratto di comodato familiare e chiedendo di rientrare in possesso dell’appartamento.

La decisione della Cassazione

I giudici di legittimità hanno però rigettato il ricorso, ribadendo un principio ormai consolidato: la destinazione a casa familiare di un immobile concesso in comodato non si estingue automaticamente con la separazione o il divorzio. Se la casa continua a rispondere alle esigenze abitative di figli minori o non autosufficienti conviventi con il genitore affidatario, il comodato familiare prosegue.

Secondo la Suprema Corte, il fatto che la nipote della proprietaria avesse espresso il desiderio di tornare a vivere nella casa che l’aveva vista crescere, e che in quella casa si fossero soddisfatte le esigenze della famiglia per oltre un decennio, confermava la permanenza della sua funzione di casa familiare.

Quando il comodante può chiedere la restituzione

L’unica possibilità per il comodante di riottenere l’immobile prima del venir meno della destinazione familiare è dimostrare un urgente e documentato bisogno personale di rientrare in possesso della casa, esigenza che nel caso di specie non è stata né allegata né provata.


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Anm risponde al Ministro: “Così si rischia l’autonomia della magistratura e i diritti dei cittadini”

“I magistrati italiani, come dimostrano le mobilitazioni di questi ultimi mesi, sono profondamente preoccupati dalla riforma costituzionale che mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma soprattutto i diritti di tutti i cittadini italiani. Quella che viene messa a repentaglio è la nostra architettura istituzionale”. Così il presidente dell’Anm Cesare Parodi.
“L’Anm ha cercato in tutti modi un proficuo confronto con il governo e con le istituzioni, incontrando il ministro e gruppi parlamentari e dimostrando un’assoluta apertura verso la soluzione di problemi fondamentali dell’architettura costituzionale del Paese. In questo senso vi è stato ascolto ma nessuna forma di concreto dialogo o apertura ed è quindi ingiusto ritenere e riferire che Anm non abbia dimostrato la massima apertura verso la ricerca di soluzioni ottimali nell’interesse dei cittadini”.
“Il caso Palamara? E’ stato un caso scoperto dalla magistratura, e su cui la magistratura ha agito con durezza. Prima della conclusione del processo che lo riguarda l’Associazione nazionale magistrati lo ha espulso. Se il ministro è a conoscenza di altre circostanze intervenga con immediatezza, utilizzando il potere disciplinare di cui è titolare”, conclude Parodi.


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Nordio accusa il CSM: “Mercimonio di cariche, basta ipocrisie”

Una giornata di fuoco quella andata in scena ieri a Palazzo Madama. Durante il dibattito sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha scelto la linea dura, intervenendo con un discorso che ha scosso non solo l’Aula del Senato ma l’intero mondo giudiziario.

Al centro delle sue parole, un attacco diretto al Consiglio Superiore della Magistratura, accusato di essere stato in passato teatro di un vero e proprio “mercimonio di cariche”, in particolare ai tempi della gestione Palamara. «Non possiamo fingere di credere che quel mercato delle poltrone fosse circoscritto a quattro persone. Se qualcuno pensa questo, allora potrebbe credere anche a un asinello che vola», ha affermato Nordio tra gli applausi della maggioranza.

Il caso Palamara e il “mercato delle nomine”

Il riferimento è alla vicenda giudiziaria e disciplinare che coinvolse Luca Palamara, ex membro del CSM, al centro di un’inchiesta che svelò manovre per la spartizione delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Un episodio che lasciò un’ombra pesante sulla magistratura associata e istituzionale. Nordio ha denunciato come quella vicenda sia stata archiviata troppo in fretta, sacrificando pochi nomi mentre, a suo dire, il sistema di scambi e favoritismi sarebbe rimasto in buona parte occultato.

Scontro politico sulla riforma

L’intervento di Nordio è arrivato mentre in Senato procedeva a tappe forzate l’esame della riforma sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Un provvedimento fortemente voluto dal governo, osteggiato invece dalle opposizioni, che hanno tentato di rallentarne l’approvazione con oltre 1300 emendamenti. La presidente d’Aula Licia Ronzulli ha fatto ricorso alla tecnica del “canguro” per sfoltirli rapidamente, suscitando l’indignazione del centrosinistra.

Francesco Boccia, capogruppo del PD, ha definito la riforma «un’imposizione senza precedenti, che toglie al Parlamento il diritto di incidere su un testo costituzionale». Nordio, tuttavia, ha scelto di rispondere più alla magistratura che ai banchi dell’opposizione.

“Magistratura muta, politica mutilata”

Nella sua replica, il Guardasigilli ha accusato i magistrati di aver assunto negli anni un ruolo politico improprio, denunciando «una mutilazione della politica per via giudiziaria» a partire dal 1993, con il ciclo di Tangentopoli e oltre. «È stato comodo eliminare l’avversario usando le inchieste», ha aggiunto, sostenendo che la riforma oggi in discussione mira a riequilibrare i poteri e restituire dignità alla politica attraverso l’introduzione del principio di sorteggio per i componenti del CSM.

La replica delle toghe

Pronta la risposta dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM). Il presidente Cesare Parodi ha definito le accuse «ingiuste e strumentali», ricordando come la magistratura abbia autonomamente scoperto e sanzionato il caso Palamara. «Se il ministro è davvero a conoscenza di altri episodi, ha il dovere di intervenire immediatamente con i suoi poteri disciplinari», ha dichiarato.

Anche il segretario dell’ANM Rocco Maruotti ha espresso forte preoccupazione per l’attacco istituzionale. «È allarmante pensare che l’umiliazione di un organo di rilievo costituzionale come il CSM possa essere vista come il modo per restituire dignità alla politica. Questo rischia di essere solo una rivalsa improduttiva».


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PA, svolta sui pagamenti: le fatture si saldano in 30 giorni

Dopo oltre un decennio di ritardi cronici e contenziosi, la Pubblica Amministrazione italiana raggiunge un risultato storico: i pagamenti ai fornitori avvengono ora in media entro 30 giorni dalla fatturazione, nel rispetto dei parametri fissati dall’Unione Europea. Un obiettivo perseguito dal lontano 2013, quando l’allora Governo Letta avviò il primo piano di liquidazione straordinaria dei debiti commerciali della PA, e che oggi si inserisce tra i traguardi più rilevanti del PNRR.

Il risultato emerge dal monitoraggio appena diffuso dalla Ragioneria generale dello Stato, che certifica come nel 2024 l’81% degli importi dovuti sia stato pagato entro i termini di legge, contro il 69% registrato nel 2019. Un miglioramento significativo, frutto di un percorso lungo e tortuoso che ha attraversato riforme normative, procedure digitali e, negli ultimi anni, una spinta decisiva proveniente dai vincoli europei e dagli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Dal caos alla normalità: il lungo cammino dei pagamenti pubblici

Nel 2013 la situazione era critica: le imprese attendevano mediamente tra 120 e 130 giorni per incassare quanto dovuto dalla PA. Ritardi che mettevano in ginocchio migliaia di aziende, molte delle quali fallivano non per eccesso di debiti, ma per crediti incassati troppo tardi. Da lì, una poderosa operazione di liquidità — oltre 34 miliardi di euro — che diede ossigeno a Regioni ed enti locali, accompagnata da una riforma progressiva delle regole sui tempi di pagamento.

Un ruolo centrale lo ha avuto la Piattaforma dei Crediti Commerciali (PCC), il sistema digitale che ha reso trasparente il monitoraggio dei flussi finanziari tra pubbliche amministrazioni e fornitori, consentendo di individuare in tempo reale i ritardi e intervenire con eventuali sanzioni.

Enti locali più veloci, sanità ancora in ritardo

Se la media nazionale si attesta oggi a 30 giorni, il dettaglio per comparto mostra dati ancora più confortanti. I Comuni e gli enti locali hanno ridotto l’attesa media a 26 giorni, mentre i ministeri si fermano a 29. La sanità pubblica, da sempre il comparto più problematico, ha visto migliorare i tempi di pagamento, scendendo a una media di 35 giorni, contro i 53 del 2019.

Un risultato ottenuto nonostante l’aumento dei volumi di fatturazione: nel 2023 sono state gestite oltre 30.000 richieste di pagamento per quasi 198 miliardi di euro, con un incremento del 7,3% rispetto all’anno precedente e del 35,5% sul 2019.

Le voci delle imprese: miglioramenti reali ma restano criticità

Dal territorio arrivano conferme del miglioramento, ma anche segnalazioni di nodi ancora da sciogliere. Monica Grosselle, titolare di un’impresa edile padovana, racconta come oggi metà delle fatture venga saldata entro i 30 giorni, mentre l’altra metà tra i 30 e i 60. Tuttavia, denuncia una nuova criticità: i rallentamenti dovuti alle complesse procedure di rendicontazione e controllo legate ai fondi del PNRR, che rischiano di creare nuovi colli di bottiglia.

Anche Rossano Massai, presidente di ANCE Toscana, conferma che i tempi medi di pagamento si sono ridotti grazie alla presenza di grandi stazioni appaltanti e a una gestione più organizzata dei cantieri pubblici. Tuttavia, segnala la difficoltà di compensare i rincari dei materiali post-pandemia, un problema che resta fuori dal perimetro dei tempi di pagamento ma che incide sulla sostenibilità degli appalti.

Decisiva la spinta europea e la digitalizzazione

Per Guido Bourelly, amministratore delegato di una società sanitaria campana, la svolta è stata possibile grazie a due fattori: da un lato, le direttive europee che hanno fissato tempi certi e sanzioni automatiche per chi sgarra; dall’altro, la digitalizzazione dei sistemi di tracciamento dei pagamenti, che ha consentito di ridurre opacità e discrezionalità.

«Se penso al 2010-2015, quando i pagamenti arrivavano dopo un anno, oggi la differenza è enorme», spiega Bourelly, che gestisce una rete di 500 collaboratori tra Campania, Lazio e Sicilia. «Il PNRR ha dato una forte accelerazione, anche se serve vigilare perché l’eccesso di burocrazia nei procedimenti rischia di vanificare i progressi ottenuti».

Un risultato concreto, poco celebrato

Paradossalmente, questa che è una delle riforme più concrete e di impatto sulla vita delle imprese e sull’economia reale, è passata finora quasi inosservata nel dibattito pubblico. Eppure rappresenta una conquista che alleggerisce il carico finanziario sulle aziende, migliora la competitività e rafforza la fiducia nel sistema.


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PA digitale: quali lavori spariranno, quali nasceranno grazie all’Intelligenza Artificiale

L’Intelligenza Artificiale sta trasformando progressivamente il volto della Pubblica Amministrazione italiana, ridefinendo processi, mansioni e relazioni tra istituzioni e cittadini. Una recente indagine condotta da FPA Data Insight su dati Bigda fotografa un settore pubblico sempre più digitalizzato, dove circa 1,85 milioni di dipendenti pubblici, pari al 57% del totale, sono direttamente interessati dall’introduzione di sistemi basati su IA.

Di questi, l’80% si trova a lavorare in sinergia con le nuove tecnologie, mentre un 12% è considerato a rischio di sostituzione. Si tratta soprattutto di figure impiegate in attività ripetitive e a basso valore aggiunto, che l’automazione potrebbe facilmente assorbire nei prossimi anni.

«Le mansioni più ripetitive della PA non sopravviveranno all’avvento dell’IA», avverte Marco Carlomagno, segretario generale della FLP (Federazione Lavoratori Pubblici). Tuttavia, sottolinea, questo non significa che quei lavoratori perderanno necessariamente il posto. La vera sfida sarà garantire percorsi tempestivi di upskilling e reskilling, per evitare l’obsolescenza delle competenze e assicurare così una transizione occupazionale ordinata.

Secondo Carlomagno, il rischio non sta tanto nella tecnologia, quanto nell’immobilismo: «È indispensabile avviare una formazione mirata. Per ogni mansione che si trasforma o scompare, se ne creano di nuove: penso ai profili legati alla gestione dei social media istituzionali, ai digital media manager e ai responsabili dei flussi informativi. Figure che devono nascere e crescere all’interno della PA stessa, senza ricorrere esclusivamente a competenze esterne».

Il giudizio dei cittadini: tra fiducia e preoccupazione

Se da un lato il cambiamento interessa chi lavora negli uffici pubblici, dall’altro coinvolge direttamente anche i cittadini, che con la digitalizzazione dei servizi si confrontano quotidianamente. L’analisi condotta su 20.000 menzioni online — tra social, blog, forum e testate digitali — restituisce un sentiment articolato.

Circa il 50% dei commenti esprime un’opinione positiva sull’uso dell’IA nella PA, vista come una leva di semplificazione, modernizzazione e miglioramento dell’efficienza dei servizi. Un 35% manifesta invece un atteggiamento neutro, tra curiosità e prudenza, in attesa di valutarne gli effetti concreti. Resta poi un 20% di sentiment negativo, legato a timori specifici.

La questione più sentita riguarda privacy e sicurezza dei dati personali: metà degli utenti che hanno espresso un parere su questo tema teme un aumento della sorveglianza, usi impropri delle informazioni e violazioni della riservatezza. Le preoccupazioni si estendono anche all’impatto occupazionale, dove le opinioni si dividono: se da una parte si riconosce all’IA la possibilità di valorizzare il lavoro umano, dall’altra si teme la perdita di posti.

IA e servizi digitali: un bilancio in chiaroscuro

Nelle aree più direttamente connesse all’esperienza quotidiana — come l’automazione dei processi amministrativi e l’introduzione di chatbot o assistenti virtuali — il sentiment tende al positivo: il 60% degli utenti apprezza la semplificazione operativa, mentre il 50% giudica favorevolmente il miglioramento dell’esperienza utente e dell’accessibilità ai servizi.

Carlomagno conclude sottolineando il ruolo del sindacato in questa transizione: «Abbiamo dimostrato che l’IA può essere alleata della persona, per migliorare la vita dei lavoratori pubblici e il rapporto tra cittadini e istituzioni. La Pubblica Amministrazione non deve più essere percepita come una casta, ma come un sistema proattivo, vicino ai bisogni reali delle persone».


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Intelligenza artificiale, via libera della Camera al Ddl: nuove regole per giustizia, lavoro e diritto d’autore

Prosegue il percorso parlamentare della legge sull’intelligenza artificiale. La Camera dei deputati ha approvato con 136 voti favorevoli, 94 contrari e 5 astenuti il disegno di legge che delega il governo a disciplinare aspetti chiave di questa tecnologia in rapida evoluzione. Il testo, modificato durante l’esame in commissione e in Aula, dovrà ora tornare al Senato per una terza lettura.

Tra le novità inserite a Montecitorio spicca l’istituzione di un Comitato interministeriale di coordinamento dedicato alle fondazioni che operano nel settore. È stato inoltre precisato che gli accordi di collaborazione stretti dall’Agenzia nazionale per la cybersicurezza (ANC) saranno limitati ai Paesi dell’Unione europea, mentre per iniziative in ambito Nato o extra-UE sarà necessaria l’autorizzazione della Presidenza del Consiglio.

Particolarmente significativa è la parte del provvedimento dedicata alla giustizia. L’articolo 15 stabilisce che nei procedimenti giudiziari il ruolo decisionale resterà esclusivamente riservato ai magistrati, soprattutto per quanto riguarda interpretazione della legge, valutazione delle prove e adozione dei provvedimenti. L’intelligenza artificiale potrà invece essere impiegata per l’organizzazione dei servizi, la semplificazione delle attività giudiziarie e le operazioni amministrative accessorie.

Viene inoltre modificata la competenza in materia di controversie riguardanti il funzionamento dei sistemi di intelligenza artificiale, attribuendola esclusivamente ai tribunali ordinari, sottraendola così alla competenza dei giudici di pace.

In materia di lavoro, l’articolo 11 punta a garantire che l’adozione dell’intelligenza artificiale avvenga salvaguardando la dignità e i diritti dei lavoratori, tutelandone l’integrità psicofisica e assicurando trasparenza nell’uso dei dati. Le professioni intellettuali, secondo l’articolo 13, potranno avvalersi di sistemi AI solo per attività di supporto e strumentali, lasciando al pensiero critico umano la prevalenza nella qualità delle prestazioni rese ai clienti, che dovranno essere sempre informati dell’eventuale impiego di tali strumenti.

Il provvedimento interviene anche sulla tutela del diritto d’autore. L’articolo 25 chiarisce che solo le opere di origine umana possono godere della piena protezione, mentre quelle realizzate con l’ausilio di AI saranno tutelate se frutto del lavoro intellettuale dell’autore. È inoltre regolata la possibilità di utilizzare AI per riprodurre ed estrarre contenuti da banche dati accessibili, comprese quelle online, nel rispetto delle norme vigenti.

Sul fronte penale, l’articolo 26 introduce aggravanti comuni per reati commessi tramite intelligenza artificiale e prevede una specifica aggravante per gli attentati ai diritti politici del cittadino. Viene inoltre istituito un nuovo reato per la diffusione illecita di contenuti generati o manipolati da AI, insieme a modifiche ai reati di aggiotaggio, plagio e manipolazione del mercato, qualora realizzati con strumenti tecnologici avanzati.

Il disegno di legge si appresta ora a un nuovo passaggio al Senato, dove sarà oggetto di un’ulteriore lettura prima della definitiva approvazione.


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Premierato e separazione delle carriere, stop a Montecitorio: le riforme slittano e la maggioranza si ricompatta dietro le quinte

La cosiddetta “accelerazione sulle riforme costituzionali” si è trasformata in una battuta d’arresto. La conferenza dei capigruppo della Camera ha infatti deciso di escludere dal calendario dei lavori i due provvedimenti di punta dell’esecutivo: il premierato e la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti. Una scelta che ha suscitato immediate reazioni tra le opposizioni e riacceso il dibattito sulle dinamiche interne al centrodestra.

Per la maggioranza si tratta di una pausa tattica, legata da un lato alla congestione dei lavori parlamentari — con sei decreti attesi tra fine luglio e inizio agosto, alcuni destinati al voto di fiducia — e dall’altro a ragioni politiche più profonde. I tre temi bandiera della coalizione — premierato per Fratelli d’Italia, riforma della giustizia per Forza Italia e autonomia differenziata per la Lega — procedono infatti su binari paralleli e condizionati da equilibri reciproci.

In particolare, la discussione sul premierato, ancora in corso in commissione Affari costituzionali, procede tra audizioni interlocutorie e una scadenza fissata al 30 luglio per la presentazione degli emendamenti. Ma il vero nodo, secondo diverse ricostruzioni parlamentari, riguarda la legge elettorale: un dossier strategico che il centrodestra starebbe trattando in modo riservato, consapevole che l’attuale sistema potrebbe mettere a rischio la tenuta della coalizione.

Secondo alcuni deputati di opposizione, dietro il rinvio si celerebbero divergenze proprio sulle ipotesi di modifica del sistema di voto, che penalizzerebbero in particolare la Lega, riducendone la rappresentanza a vantaggio degli alleati. Una partita che, se confermata, potrebbe incidere anche sulle tempistiche e sui contenuti delle riforme istituzionali.

Intanto, la discussione sulla riforma della giustizia prosegue al Senato. Oggi il ministro Carlo Nordio è atteso in Aula a Palazzo Madama, dove si aprirà il voto sugli emendamenti. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha assicurato che il dibattito non sarà compresso, ma il calendario parlamentare lascia prevedere che il confronto alla Camera possa avvenire solo a settembre, in vista di un eventuale referendum nella prossima primavera.

Le opposizioni osservano con attenzione le manovre della maggioranza, convinte che dietro i rallentamenti ufficiali si celi una trattativa complessa tra gli alleati di governo, impegnati a ridefinire priorità e contropartite. La partita istituzionale, insomma, è tutt’altro che chiusa: i prossimi mesi diranno se si tratterà di un semplice rinvio tecnico o di un riposizionamento politico più profondo.


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Demolizione immobile abusivo: le condizioni di salute non fermano l’ordine definitivo

Le esigenze abitative, anche legate a gravi problemi di salute, non possono cancellare un ordine di demolizione di un immobile abusivo, se non nei rari casi tassativamente previsti dalla legge. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23457, depositata il 24 giugno 2025, accogliendo il ricorso della Procura di Napoli e annullando la decisione di un tribunale che aveva bloccato la demolizione di una casa in cui viveva una ragazza affetta da autismo.

Secondo la Suprema Corte, il principio di proporzionalità può semmai influire solo sulla fase esecutiva dell’ordine — ad esempio consentendo una proroga temporanea — ma non giustifica l’eliminazione della misura definitiva, che resta obbligatoria una volta pronunciata con sentenza passata in giudicato. La decisione sottolinea inoltre che il diritto all’abitazione, pur garantito, deve essere bilanciato con altri valori di pari rango, come il rispetto della legalità urbanistica e la tutela del territorio.

Nel caso specifico, a fronte della gravissima situazione clinica della figlia della proprietaria, il tribunale aveva revocato l’ordine di demolizione, considerando la difficoltà di trovare una sistemazione alternativa. Ma per la Cassazione questa valutazione è in contrasto con il quadro normativo vigente: le condizioni personali, pur rilevanti, non possono da sole giustificare la cancellazione di un provvedimento previsto dalla legge.

La Corte ha ricordato che l’unica possibilità di revoca definitiva di un ordine di demolizione risiede nell’adozione di provvedimenti amministrativi incompatibili, come una sanatoria edilizia o la destinazione a uso pubblico dell’immobile, previsti dall’articolo 31 del Testo unico edilizia. La recente modifica normativa del 2024, che consente di ottenere una proroga fino a 240 giorni per comprovate esigenze di salute, riguarda solo i termini di esecuzione, senza incidere sulla validità dell’ordine stesso.

Infine, i giudici di legittimità hanno precisato che l’intervento del principio di proporzionalità deve avvenire con criteri rigorosi: si valuta caso per caso l’abitualità della residenza, la consapevolezza dell’abuso, la gravità dell’illecito edilizio e il tempo trascorso dall’accertamento. Ma nessuno di questi elementi, da solo, può rendere nullo un ordine di demolizione definitivo.


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Gli arresti provvisori eseguiti in Italia su segnalazione Interpol non possono protrarsi oltre i 60 giorni se, entro tale termine, non arriva alle autorità italiane una formale e completa richiesta di estradizione da parte dello Stato estero interessato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23490/2025, confermando che la sola segnalazione internazionale non è sufficiente a giustificare la permanenza della misura cautelare.

Il caso riguardava un cittadino arrestato su segnalazione delle autorità messicane attraverso il canale Interpol. Tuttavia, nei 60 giorni successivi all’arresto, nessuna richiesta ufficiale e conforme alle previsioni del Trattato di estradizione tra Italia e Messico era stata inviata al Ministero della Giustizia italiano. Solo una comunicazione dell’ambasciata messicana, che annunciava l’intenzione di inoltrare la documentazione necessaria, era pervenuta, senza però soddisfare i requisiti formali e sostanziali previsti dalle convenzioni internazionali applicabili.

Secondo la Suprema Corte, una semplice comunicazione diplomatica non può sostituire la richiesta ufficiale, che deve contenere tutti gli elementi prescritti dal trattato internazionale di riferimento per essere considerata valida e idonea a giustificare il prolungamento della misura cautelare personale.

La decisione della Cassazione ribadisce così un principio fondamentale in materia di cooperazione giudiziaria internazionale: le misure restrittive della libertà personale, adottate in via provvisoria in attesa di estradizione, devono essere sempre sorrette da atti formali completi e trasmessi tempestivamente, nel rispetto dei termini fissati dagli accordi internazionali. In mancanza di tali presupposti, la misura decade e l’arrestato va rimesso in libertà.


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Post sui social e chat private: niente licenziamento senza regole chiare

Non è lecito per un datore di lavoro utilizzare post pubblicati dal dipendente sul proprio profilo social personale, né conversazioni avvenute su app di messaggistica, come motivo per un licenziamento disciplinare. È quanto ha stabilito il Garante per la protezione dei dati personali con un’ingiunzione emanata lo scorso 21 maggio (n. 288), sanzionando un’azienda con una multa da 420 mila euro.

Al centro della vicenda, la decisione di una società di interrompere il rapporto con un proprio dipendente sulla base di contenuti condivisi in ambienti digitali ritenuti privati. Il datore di lavoro aveva tentato di difendersi sostenendo di aver ricevuto i post e i messaggi da terzi e di non averli cercati attivamente, contestando inoltre la violazione della social media policy aziendale da parte del lavoratore.

Ma per il Garante questo non basta: una volta accertato il carattere privato di post e conversazioni — soprattutto se diffusi in ambienti a accesso limitato — il datore di lavoro non può farne uso per fini disciplinari. “Non è sufficiente che un contenuto sia tecnicamente accessibile online per poter essere utilizzato liberamente,” si legge nel provvedimento. La libertà di espressione del dipendente, tuttavia, non è assoluta: resta comunque soggetta al rispetto della reputazione aziendale, ai doveri di fedeltà e alla correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.

Il tema rimane delicato, soprattutto nel pubblico impiego, dove il codice di condotta (DPR 62/2013) consente di valutare anche comportamenti extralavorativi ai fini disciplinari. Ma, chiarisce il Garante, occorre sempre una cornice normativa specifica e rispettosa della privacy.

Non è l’unico intervento recente sul fronte dei diritti digitali sul lavoro. Con un altro provvedimento del 27 marzo (n.167), il Garante ha vietato l’uso delle impronte digitali per la rilevazione delle presenze e la prevenzione di atti vandalici, infliggendo una sanzione di 4 mila euro a un datore di lavoro. Neppure il consenso del lavoratore è ritenuto sufficiente a legittimare il trattamento di dati biometrici, in assenza di una norma specifica.

Infine, in tema di marketing, l’Autorità ha imposto (prov. n. 330 del 4/6/ 2025) l’obbligo del sistema di double opt-in per l’invio di e-mail promozionali, ribadendo che, anche in mancanza di una norma esplicita, i principi generali impongono una tutela rafforzata del consenso degli utenti. Una scelta che ha già portato a sanzioni, come quella da 45 mila euro inflitta a un’azienda per aver inviato comunicazioni pubblicitarie senza le dovute conferme.


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