Avvocati, riforma previdenziale: ecco cosa cambia

La riforma previdenziale per gli avvocati, entrata in vigore il 1° gennaio, si pone come una soluzione necessaria per garantire la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale per i prossimi trent’anni. L’invecchiamento progressivo della platea, la diminuzione degli iscritti attivi e il basso reddito di molti professionisti hanno messo a rischio l’equilibrio tra avvocati in attività e pensionati, con il 70% dei 237mila avvocati attivi che dichiara un reddito inferiore ai 35mila euro.

Uno dei principali cambiamenti introdotti dalla riforma è il passaggio al sistema contributivo pro rata: i versamenti effettuati fino al 2024 continueranno ad essere calcolati con il metodo retributivo, mentre quelli successivi adotteranno il sistema contributivo. A partire dal 2025, tutti i nuovi iscritti al sistema previdenziale avranno una pensione completamente contributiva. I requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche per gli iscritti più anziani rimangono invariati (70 anni con 35 anni di contributi, o 62 anni con almeno 40 anni di contributi), mentre per i nuovi iscritti la pensione potrà essere ottenuta a 70 anni con almeno cinque anni di contributi o a 65 anni con almeno 35 anni di contributi versati, con un importo pari al trattamento minimo vigente nell’anno.

Dal 2025, si prevede anche un progressivo innalzamento delle aliquote: il contributo soggettivo passerà dal 15% al 16%, salendo al 17% nel 2026 e al 18% nel 2027. I pensionati attivi pagheranno il 12,9% (rispetto al precedente 7,5%), ma beneficeranno di una retrocessione triennale pari al 6%.

La riforma introduce anche agevolazioni per i redditi più bassi e per i giovani professionisti. Fino a un reddito di 17.190 euro, si verserà solo il contributo minimo soggettivo, che scenderà da 3.354 euro a 2.750 euro. I neolaureati under 35, invece, pagheranno metà dei contributi minimi per i primi sei anni, ma vedranno riconosciuto l’anno intero ai fini dell’anzianità contributiva.


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Giustizia riparativa minorile: ok alla proroga del Protocollo d’intesa in Piemonte

La giunta regionale del Piemonte ha approvato lo schema di proroga del Protocollo d’Intesa che coinvolge diverse istituzioni, tra cui la Regione Piemonte, la Garante Regionale Infanzia e Adolescenza, il Centro Giustizia Minorile, la Procura presso il Tribunale per i minorenni di Torino, il Tribunale per i minorenni di Torino e i Comuni di Torino e Novara. Questo accordo mira a promuovere interventi di giustizia riparativa e di comunità per minori sottoposti a provvedimenti penali, con l’obiettivo di prevenire la recidiva e favorire l’integrazione sociale.

Maurizio Marrone, Assessore alle Politiche Sociali della Regione Piemonte, ha sottolineato l’importanza della funzione rieducativa della pena, dichiarando: “La funzione rieducativa della pena deve essere reale e concreta. Bisogna infatti evitare il rinsaldarsi di un percorso di devianza e delinquenza, insegnando il rispetto per la comunità e permettendo ai ragazzi di rimediare al male fatto svolgendo servizi utili.”

Per l’anno 2025, è previsto un finanziamento di 50.000 euro per il Comune di Torino e 10.000 euro per il Comune di Novara. Le risorse saranno destinate alla realizzazione di interventi di giustizia riparativa e di comunità, coprendo le voci di spesa previste dal Protocollo.


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Starlink e il nodo della sovranità digitale: un’infrastruttura strategica nelle mani di Musk?

L’ipotesi di affidare a Starlink, la rete satellitare di Elon Musk, un’infrastruttura strategica italiana solleva interrogativi tecnici, politici e di sovranità nazionale. La possibilità che un servizio di tale portata sia gestito da un privato con enormi poteri, noto per il suo sostegno a determinate fazioni politiche e legato a un Paese straniero – seppur alleato – apre un dibattito acceso.

Sicurezza dei dati e controllo privato

Un primo nodo critico riguarda il livello di sicurezza garantito da Starlink, inclusa la protezione dei dati trasportati dai satelliti. La società propone l’uso di sistemi di cifratura propri e la gestione autonoma delle antenne terrestri necessarie a ricevere il segnale, agendo quindi come pura infrastruttura. Tuttavia, restano dubbi sulla possibilità di “porte sul retro” o di un controllo che, di fatto, potrebbe essere arbitrariamente interrotto dall’azienda stessa, come avvenuto in altri contesti.

Per garantire maggiori tutele, il Ministero degli Esteri italiano avrebbe chiesto di inserire l’accordo con Starlink in un quadro più ampio con il governo statunitense. Tale richiesta riflette la volontà di evitare un’eccessiva dipendenza da un attore privato, specie alla luce dell’allineamento politico tra Giorgia Meloni, Donald Trump e lo stesso Musk, il quale attraverso la sua piattaforma X (ex Twitter) spinge per rafforzare le destre su scala globale.

L’alternativa europea: Iris2

In contrapposizione, l’Unione Europea punta sulla propria autonomia strategica con Iris2, una rete di 290 satelliti progettata per garantire una comunicazione sicura e indipendente. Tuttavia, il progetto – ancora sulla carta – è segnato da ritardi e incertezze: la consegna, inizialmente prevista per il 2027, è stata posticipata al 2030. Anche l’Italia, attraverso Telespazio, partecipa al consorzio, seppur con un ruolo secondario rispetto a Francia e Germania.

Un eventuale accordo tra Meloni e Musk potrebbe essere presentato come una soluzione temporanea in attesa del completamento di Iris2. Ma sarebbe difficile non interpretarla come una scelta di campo, a favore di un imprenditore americano che ha già dimostrato di poter destabilizzare equilibri geopolitici.

Il PNRR e la rete italiana

Starlink ha anche avanzato proposte per risolvere uno degli obiettivi più problematici del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: la copertura delle aree remote del Paese con connessioni veloci. Dove Fibercop e Open Fiber incontrano difficoltà nel portare la fibra, Starlink si propone come alternativa.

La connessione satellitare è già oggetto di un imminente bando per sperimentazioni in aree montane della Lombardia, dove Starlink è la favorita. Attualmente conta circa 40.000 abbonati in Italia, ma la tecnologia di Musk è ancora più lenta e instabile rispetto alla fibra. Tuttavia, una nuova generazione di satelliti, in grado di comunicare direttamente con i telefoni senza bisogno di antenne, potrebbe presto rivoluzionare il mercato.

Una sfida tra interessi pubblici e privati

Con un costo di 300 milioni di euro per ogni satellite geostazionario, come quelli già in orbita dall’Italia, l’opzione Starlink appare meno onerosa e tecnologicamente avanzata. Ma il rischio di affidare un’infrastruttura nazionale a una società privata con legami politici e una visione fortemente orientata al profitto pone seri interrogativi.

Il governo italiano è chiamato a valutare attentamente le implicazioni di una tale decisione, tra la necessità di garantire la sovranità digitale e quella di colmare rapidamente i divari infrastrutturali del Paese. Sullo sfondo, l’Europa osserva, divisa, mentre Musk si prepara a conquistare nuovi mercati con la sua visione futuristica delle telecomunicazioni.


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Quando l’avvocato si affida a ChatGPT e l’IA “si inventa” i precedenti

Un curioso episodio avvenuto negli Stati Uniti ha fatto il giro del mondo, rimbalzando dalle pagine della BBC a quelle del New York Times. A New York, un avvocato ha presentato al giudice un’analisi dettagliata e ricca di “precedenti” legali a favore del suo cliente. Tutto sembrava impeccabile, almeno fino a quando gli avvocati della controparte hanno provato a verificare le citazioni. Risultato? Nessuno dei precedenti citati esisteva.

La spiegazione è arrivata poco dopo: l’avvocato si era affidato a ChatGPT, l’intelligenza artificiale di OpenAI, per supportarlo nella ricerca giuridica. Tuttavia, l’IA si era letteralmente inventata i precedenti legali, probabilmente per “compiacere” il suo interlocutore. Questo fenomeno, noto in ambito tecnologico come “allucinazione”, mette in luce un aspetto critico dell’uso dell’intelligenza artificiale: pur essendo in grado di produrre risposte apparentemente convincenti, l’IA non è immune da errori, né tantomeno da fantasie.

Un monito per i professionisti
L’episodio ha scatenato un acceso dibattito sulla responsabilità nell’uso delle nuove tecnologie. Gli esperti sottolineano che le IA, per quanto avanzate, sono strumenti che richiedono un rigoroso controllo umano. “Non si può delegare ciecamente alle macchine la responsabilità di decisioni delicate, soprattutto in settori come quello legale, dove la precisione e l’affidabilità delle fonti sono fondamentali”, affermano i critici.

Una nuova era per il lavoro umano?
Al di là del caso specifico, l’episodio offre un interessante spunto di riflessione sul futuro del lavoro. Secondo alcune analisi, l’intelligenza artificiale potrebbe portare alla perdita di milioni di posti di lavoro. Ma c’è anche chi sostiene che, per ogni lavoratore sostituito da un’IA, nasceranno nuove professioni, come quella dei “fact-checker di intelligenza artificiale”, figure incaricate di verificare l’accuratezza e la correttezza delle risposte fornite dagli algoritmi.

Tra tecnologia e responsabilità
Il caso dell’avvocato di New York ci ricorda che, per quanto potente, la tecnologia non è infallibile. Sta agli esseri umani utilizzare questi strumenti con discernimento e responsabilità, senza dimenticare che, alla fine, il controllo finale spetta a noi. Come direbbe qualcuno parafrasando il diritto romano: “Nullum ChatGPT sine diligentia.”


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Corte Costituzionale: trattative serrate per l’elezione dei quattro giudici mancanti

Il Parlamento italiano è chiamato a votare i quattro giudici mancanti della Corte Costituzionale, ma le trattative tra partiti restano complesse e incerte. Dopo settimane di stallo, i partiti sembrano aver trovato un accordo sul metodo: due giudici spetteranno alla maggioranza, uno all’opposizione, mentre il quarto sarà un profilo tecnico, preferibilmente una donna.

A destra: Zanettin supera Sisto

Nel campo del centrodestra, Giorgia Meloni appare determinata a imporre Francesco Saverio Marini, suo consigliere giuridico, come uno dei candidati. L’altro nome della maggioranza dovrebbe essere Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia, che ha prevalso sul viceministro Francesco Paolo Sisto dopo un acceso ballottaggio interno.

A sinistra: Luciani favorito, ma il nodo femminile resta aperto

Sul fronte dell’opposizione, il costituzionalista Massimo Luciani è il nome con più consensi, ma resta il nodo della candidatura femminile per il posto tecnico. La segretaria del PD Elly Schlein propone Andrea Pertici, costituzionalista e membro della Direzione nazionale del partito, ma il suo profilo non convince tutte le opposizioni. Altri nomi emersi, come quelli di Anna Finocchiaro e Roberta Calvano, sembrano ormai accantonati.

Il peso delle quote femminili

L’esigenza di garantire un equilibrio di genere è centrale. Tuttavia, le trattative non hanno ancora prodotto una candidatura condivisa. La pressione aumenta per evitare un “pacchetto tutto maschile,” che sarebbe mal visto dall’opinione pubblica.

Una decisione urgente

Intanto, la Corte Costituzionale potrebbe riunirsi a ranghi ridotti già la prossima settimana, con soli 11 giudici su 15, per esaminare questioni cruciali come l’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata. La necessità di colmare rapidamente i posti vacanti si fa quindi sempre più pressante.

Resta da vedere se i partiti riusciranno a trovare l’intesa nei prossimi giorni o se nuove divisioni rimanderanno ancora una volta la scelta dei nuovi giudici.


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Todde nella bufera: accuse di falsità e tensioni politiche sulla presidente sarda

Un vortice di accuse e tensioni politiche si abbatte sulla presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde. Al centro delle polemiche, un’ordinanza del Consiglio di Stato che segnala presunte irregolarità documentali, oltre alla sua imminente iscrizione nel registro degli indagati. La vicenda ha scatenato un’ondata di critiche, con la Lega in prima linea.

Il senatore leghista Claudio Borghi ha puntato il dito contro la gestione di Todde, affermando: «Era incompetente e inadeguata, come dimostrano i suoi risultati a Olidata, società chiusa con una perdita di un milione di euro in soli otto mesi». Borghi accusa inoltre la revisione dei bilanci aziendali per mancanza di trasparenza.

Nel frattempo, il dibattito infiamma il Consiglio regionale. Mentre il centrodestra appare diviso sulla possibilità di elezioni anticipate, il centrosinistra ribadisce il proprio sostegno alla presidente. L’assessora Desirè Manca (M5S) replica: «Salvini e la Lega pensino ai loro scandali e a quei 49 milioni. Alessandra Todde completerà il suo lavoro».

Todde, dal canto suo, respinge le accuse con fermezza, sottolineando i risultati ottenuti: «Nonostante le insinuazioni, la nostra amministrazione ha portato avanti un lavoro rigoroso e trasparente».

Le tensioni interne agli alleati politici non mancano, ma si manifestano in maniera sfumata. «Non critichiamo nell’ombra,» dichiara Roberto Deriu, capogruppo Pd, pur ammettendo che l’ordinanza crea un problema reale.

Mentre il caso Todde rischia di paralizzare l’attività politica regionale, il centrodestra sembra preferire una strategia di logoramento, piuttosto che spingere per elezioni immediate. Un clima di incertezza che potrebbe protrarsi ancora a lungo, alimentando divisioni e polemiche sia all’interno che all’esterno del Consiglio regionale.


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Autonomia, Zaia: “Bisogna alzare l’asticella di chi sta peggio, non abbassare chi sta meglio”

Luca Zaia, presidente del Veneto, affronta con serenità l’incertezza sul suo futuro politico, in bilico tra la possibilità di un terzo mandato e il limite attuale che lo escluderebbe dalla ricandidatura. In un’intervista al Corriere della Sera, sottolinea l’importanza di affrontare le riforme senza paura e di garantire ai cittadini la libertà di scegliere chi governarli: “Prima o poi qualcuno dovrà dire una parola chiara su questo tema: è giusto o no che i cittadini possano votare quante volte vogliono per tutte le cariche tranne che per quelle dei sindaci di grandi città e dei presidenti di Regione?”.

Zaia non nasconde il suo scetticismo verso un sistema che, a suo dire, rischia di ridurre il cittadino a spettatore passivo: “Dobbiamo decidere se interpretare il contratto sociale di Rousseau, dove il cittadino può togliere la delega quando non si fida più, o se considerare gli italiani come comparse nel sistema pubblico”.

Sanità e liste d’attesa: il modello Veneto

Uno dei punti di forza del Veneto, secondo Zaia, è la sanità. “Dal 2010 abbiamo affrontato liste d’attesa lunghissime. Dopo il Covid, eravamo in emergenza totale, ma ora le prestazioni con prescrizione a 10 giorni vengono erogate nei tempi previsti. Abbiamo ridotto dell’87% le liste oltre i 60 giorni e del 77% quelle oltre i 30 giorni”. Zaia rivendica il successo del modello veneto, basato su investimenti mirati e gestione rigorosa: “Abbiamo utilizzato ogni euro dei 47 milioni di finanziamenti statali per abbattere le liste d’attesa”.

Sul tema del centro unico di controllo annunciato dal ministro Schillaci, Zaia si dice favorevole, ma con riserva: “Noi utilizziamo un sistema di gestione centralizzato dal 2020. Se ci sarà un centro unico nazionale, vedremo chi spende bene e chi no. Ma sembra che le Regioni commissariate, come Molise e Calabria, abbiano molti più problemi delle altre”.

Autonomia: una scelta necessaria

Zaia si dichiara fermo sostenitore dell’autonomia regionale: “Autonomia o si fa per scelta o si dovrà fare per necessità. Dobbiamo alzare l’asticella di chi sta peggio, senza abbassare quella di chi sta meglio. È un cambiamento indispensabile per superare le disuguaglianze tra Nord e Sud”.

Il futuro politico

Riguardo al suo possibile addio alla presidenza della Regione, Zaia mantiene la calma: “Quando e se avverrà, ci penserò. Non spreco tempo in congetture. In 10 mesi possono succedere molte cose”. E sulla possibilità che la Lega corra da sola alle prossime elezioni, commenta: “Sono tutte ipotesi. Vedremo cosa accadrà. I cittadini devono scegliere chi li governerà, e c’è chi torna a casa dopo un solo mandato”.

Conclude, con una punta di pragmatismo: “Cambiare per cambiare non assicura il consenso. La gente deve avere fiducia in chi governa, e questo è ciò che conta davvero”.


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Nessun accordo tra Governo italiano e SpaceX: Palazzo Chigi smentisce

La Presidenza del Consiglio ha categoricamente smentito l’esistenza di contratti o accordi tra il Governo italiano e la società SpaceX per l’utilizzo del sistema di comunicazioni satellitari Starlink. Le interlocuzioni con SpaceX, precisa Palazzo Chigi, fanno parte dei normali approfondimenti condotti dagli apparati dello Stato con aziende specializzate, in questo caso nel settore delle connessioni protette per la trasmissione di dati crittografati.

La Presidenza ha inoltre respinto con fermezza, definendola “ridicola”, la notizia secondo cui il tema SpaceX sarebbe stato affrontato durante l’incontro con il Presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump.


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ROMA, 4 gennaio – “Con il decreto 27 dicembre 2024 n. 206 il Ministero dà il via al generalizzato deposito con modalità esclusivamente telematica di atti e documenti a partire dal 1° gennaio 2025 per la maggior parte dei procedimenti della procura della Repubblica presso il tribunale ordinario, della procura europea e del tribunale ordinario. In relazione a tali uffici, snodi fondamentali della giurisdizione e dunque e della tutela del cittadino, si sono prorogati (in alcuni casi di soli tre mesi) i termini di transizione al nuovo regime digitale, peraltro limitatamente a pochi procedimenti e senza tenere nel debito conto il rischio per l’efficienza della giurisdizione che potrà provocare la massiva, improvvisata e immediata digitalizzazione del processo penale. Si pretende di mandare in esercizio i moduli più complessi ed estesi di un applicativo informatico (APP) senza che lo stesso sia stato efficacemente testato presso gli uffici, e tanto pur sinora essendosi registrati di continuo numerosissimi malfunzionamenti”. Ad affermarlo è una nota della Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati.

“Malgrado le numerose criticità rilevate da pressoché tutti gli uffici chiamati alla sperimentazione del sistema – prosegue la nota – si è altresì proceduto non prendendo in adeguata considerazione la scarsità di risorse e di infrastrutture tecnologiche che consentano ai Tribunali di celebrare efficacemente i processi  per il tramite delle tecnologie digitali. Si agisce come se gli uffici fossero stati, tutti e da tempo, dotati di postazioni pc con accesso ad APP, nelle aule d’udienza e nelle camere di consiglio. Si opera come se il personale amministrativo e giudiziario fosse stato dotato di una idonea struttura di assistenza per la immediata gestione delle criticità.  E tali rilievi sono del resto soltanto alcuni di quelli recentemente formulati dal CSM nelle sue considerazioni, di cui il Ministero ha tenuto conto in minima parte. Nulla di nuovo sotto il sole”.

“Già in queste due prime giornate di avvio – sottolinea la Giunta – numerosissime in tutt’Italia sono state le segnalazioni di errori di sistema. Ci si chiede cosa avverrà a partire dal prossimo 7 gennaio, quando in modo più consistente, riprenderanno le udienze del dibattimento penale in tutti i Tribunali. A partire da quel momento, le criticità già profilatesi incideranno negativamente sulle attività giudiziarie per le quali non è stata preservata la temporanea possibilità di proseguire con il sistema di deposito a doppio binario. Che ne sarà della gestione di una udienza dibattimentale, di una richiesta di patteggiamento o di una lista testimoniale, qualora il sistema di deposito telematico non funzionasse?”.

“Anche per il tanto atteso Processo Penale Telematico si deve allora constatare una grave carenza di risorse e di strategie organizzative, con le inevitabili conseguenze sull’efficienza del servizio giustizia. Eppure i segnali di allarme erano stati lanciati da tempo, dalla magistratura associata e dal CSM, che per tempo si erano posti nella prospettiva di evidenziare lacune e criticità, e ciò proprio al fine di realizzare la massima efficienza possibile con una compiuta digitalizzazione del processo penale. Ma tali segnalazioni, tese alla leale collaborazione in vista di un obiettivo da tutti condiviso, sono rimaste inascoltate. Tutto si potrà dire meno che non si tratti di un fallimento annunciato”, conclude la Giunta.


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I primi 4 paradisi fiscali al mondo sono UE. Almeno 10 miliardi l’anno sottratti al nostro fisco

Ogni volta che si parla di paradisi fiscali, ci viene subito in mente qualche isola sperduta nei Caraibi. In realtà sono micro-Stati molto più vicini a noi di quanto pensiamo; i più importanti sono praticamente dietro l’angolo. Secondo uno studio recente del World Inequality Lab, i primi cinque paradisi fiscali al mondo sono il Principato di Monaco, il Granducato del Lussemburgo, il Liechtenstein e le Channel Islands che sono situate nel canale della Manica. Solo al quinto posto troviamo le Bermuda, che sono l’unico paradiso fiscale non europeo di questa black list. Questi posti hanno pochissimi abitanti, ma vantano redditi pro capite che non hanno eguali nel resto del mondo. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA.

  • Super-ricchi italiani e multinazionali che operano nel nostro Paese sono presenti soprattutto a Montecarlo e in Lussemburgo

Siano essi persone fisiche o società, molti contribuenti italiani si sono trasferiti in particolare a Montecarlo e in Lussemburgo. Infatti, circa 8mila connazionali hanno deciso di trasferire la residenza nel Principato di Monaco per via delle tasse zero sul reddito e sugli immobili. Tra questi ci sono grandi imprenditori, sportivi e celebrità dello spettacolo. In Lussemburgo, invece, possiamo trovare ben sei banche del nostro Paese, una cinquantina di fondi d’investimento, vari istituti assicurativi e molte multinazionali italiane e straniere che operano nel nostro territorio. Si stima che grazie ai super-ricchi con la residenza all’estero, alle manovre borderline delle multinazionali e dei grandi gruppi industriali che si rifugiano nei paradisi fiscali di tutto il mondo, ogni anno “sfuggono” all’erario italiano circa 10 miliardi di euro.

  • Si restringe la base imponibile, siamo tutti più poveri

Quando questi elusori fanno profitti miliardari senza pagare le tasse nel nostro Paese, non fanno altro che impoverirci. Le multinazionali, ad esempio, usufruiscono delle nostre infrastrutture materiali (porti, aeroporti, strade, ferrovie), ricorrono a quelle sociali (giustizia, sanità, scuola, università), sfruttano quelle immateriali (reti informatiche), senza però contribuire con le tasse come dovrebbero. Non solo. Spesso per insediarsi in Italia queste holding usufruiscono di agevolazioni/incentivi pubblici e quando sono in difficoltà e devono affrontare situazioni di riorganizzazione aziendale ricorrono a piene mani alle indennità erogate dall’Inps che, molto spesso, solo in minima parte sono state compensate dai contributi versati da questi giganti industriali.

Tutto ciò fa diminuire la base imponibile su cui si applicano le aliquote fiscali e conseguentemente anche il gettito che finisce nelle casse dell’erario. Risultato? Le disuguaglianze aumentano e la povertà cresce; gli altri contribuenti devono pagare di più per servizi spesso insoddisfacenti. Se invece tutti pagassero ciò che devono, lo Stato incasserebbe di più e la maggior parte dei cittadini pagherebbe meno: avremmo così maggiori risorse per aiutare chi è in difficoltà e potremmo ottenere una giustizia sociale migliore.

  • In Italia le big tech pagano poche tasse

Secondo l’Area Studi di Mediobanca, nel 2022 le società controllate dalle prime 25 multinazionali del web presenti in Italia hanno fatturato  ben 9,3 miliardi, ma hanno pagato all’erario solo 206 milioni di euro di imposte. Purtroppo, non ci sono altre statistiche in grado di dimensionare il gettito fiscale versato dall’intero universo delle multinazionali presenti nel nostro Paese. L’unico dato aggiuntivo in grado di fotografare con una maggiore precisone queste realtà è di fonte Istat: il numero delle multinazionali estere presenti in Italia attraverso delle società controllate ammonta a 18.434.

  • E’ arrivata la Global minimum tax, anche se non in tutta UE

Per contrastare quei paesi che applicano alle big company politiche fiscali compiacenti, dal 2024 è entrata in vigore la Global minimum tax (Gmt). Secondo il dossier curato dal Servizio Bilancio dello Stato della Camera, il gettito previsto dalla sola applicazione dell’aliquota del 15 per cento sulle multinazionali sarà molto contenuto. Si stima che nel 2025 il nostro erario incasserà 381,3 milioni di euro, nel 2026 427,9 e nel 2027 raggiungerà i 432,5. Nel 2033, ultimo anno in cui nel documento si stimano le entrate, le stesse dovrebbero sfiorare i 500 milioni di euro. L’anno scorso la Gmt ha interessato 19 paesi UE: Spagna e Polonia, invece, l’applicheranno da quest’anno, mentre Estonia, Lettonia, Lituania, e Malta hanno ottenuto una proroga sino al 2030. Cipro e Portogallo, infine, sono chiamate a rispondere alla sollecitazione giunta da Bruxelles che ha recapitato loro una lettera di messa in mora. Appare evidente che per le grandi holding presenti nei in UE rimane ancora la possibilità, almeno per i prossimi cinque/sei anni, di spostare parte degli utili in alcuni paesi membri dove la tassazione continua essere molto favorevole.

  • Quasi la metà del fatturato in Italia è prodotto dalle multinazionali

A fronte di oltre 17,6 milioni di addetti presenti nel nostro Paese, gli occupati nelle multinazionali (siano esse estere o italiane) sono 3,5 milioni, pari al 20 per cento del totale. A livello territoriale tale quota sul totale occupati regionali sale al 24,4 in Emilia Romagna, al 25,1 in Friuli Venezia Giulia, al 25,3 in Piemonte e al 27 per cento in Lombardia. Se, invece, parliamo di fatturato, il dato annuo riferito all’intero sistema produttivo del nostro Paese è di 4.322 miliardi di euro, mentre la quota riconducibile alle big company è di 1.975 miliardi di euro. Ciò vuol dire che quasi la metà del fatturato prodotto dalle imprese private nel nostro Paese, per la precisone il 45,7 per cento, è ascrivibile alle nostre multinazionali o a quelle estere che hanno delle società controllate che operano in Italia. Su base regionale, tale dato aumenta al 49,8 in Friuli Venezia Giulia, al 51,8 per cento in Liguria, al 52,6 per cento in Lombardia e addirittura al 66,9 per cento nel Lazio. Come dicevamo più sopra, il numero delle multinazionali estere attive in Italia attraverso delle società controllate ammonta a 18.434, ma non ci sono dati statistici in grado di dirci quante sono le multinazionali italiane. Gli unici dati disponibili sono riferiti alle unità locali. Ebbene, in Italia tra le multinazionali estere e quelle tricolori le unità locali sono complessivamente 140.845 (pari al 2,8 per cento del totale nazionale). Di queste, 58.228 sono estere (41,3 per cento del totale) e 82.617 italiane (58,6 per cento del totale). Il numero totale delle unità locali presenti in Italia è di 4,9 milioni; pertanto, l’incidenza delle multinazionali sul totale nazionale è pari al 2,8 per cento. A livello territoriale, infine, in Piemonte il 3,7 per cento delle unità locali è riconducibile a queste grandi holding, nella Provincia Autonoma di Bolzano il 4,1, in Lombardia il 4,2 e in Friuli Venezia Giulia – che possiede il record nazionale – la quota è del 4,4 per cento.

  • Breve considerazione su elusori ed evasori

Facciamo una breve riflessione sulla differenza tra elusori ed evasori fiscali: non possiamo ignorare il fatto che entrambi, nel rispetto di quanto previsto dalla legge, vanno contrastati. Ma c’è una sottile distinzione da fare. Gli elusori “scappano” con i soldi all’estero aggirando il fisco, mentre gli evasori magari non pagano quanto dovrebbero, ma, nella maggior parte dei casi, spendono gran parte dei soldi non versati allo Stato qui da noi. Certo, questo non giustifica per alcun motivo il loro comportamento, perché evadere è comunque un reato. Tuttavia, moralmente parlando, è sicuramente più accettabile rispetto a chi decide di fuggire, ad esempio, nei Paesi off-shore; entrambi, comunque, restano comportamenti sbagliati, riprovevoli e inaccettabili che a lungo andare minano la coesione sociale di un Paese.

  • Quando un Paese è considerato un paradiso fiscale

Le caratteristiche dei Paesi black list, da considerarsi come paradisi fiscali, sono state definite dall’OCSE già nel 1998, in occasione della pubblicazione del rapporto “Harmful Tax Competition – An Emerging Global Issue”, nei seguenti punti:

  • sostanziale mancanza di imposte sui redditi delle imprese costituite nei propri territori;
  • assenza, all’interno dei rispettivi ordinamenti giuridici, dell’obbligo per le società ivi costituite di svolgere un’affettiva attività d’impresa nei relativi territori;
  • poca trasparenza del sistema legislativo e amministrativo, che consente a determinati soggetti di beneficiare di privilegi in termini di ridotta tassazione dei redditi;
  • assenza di alcun meccanismo di scambio delle informazioni fiscali tra tali Paesi e gli altri Stati finalizzato a garantire la potestà impositiva di questi ultimi e a combattere i fenomeni di evasione ed elusione fiscale internazionale.

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