Interruzione dei servizi informatici del settore civile, del Portale dei Servizi Telematici e del Portale del Processo Penale Telematico

Per attività di manutenzione straordinaria si procederà all’interruzione dei sistemi civili al servizio di tutti gli Uffici giudiziari dei distretti di Corte di Appello dell’intero territorio nazionale, nonché il Portale dei Servizi Telematici e il Portale del Processo Penale Telematico, con le seguenti modalità temporali:

dalle ore 14:30 del giorno 12 settembre 2025 fino al termine delle attività e comunque non oltre le ore 20:00 di tale giorno.

Durante l’esecuzione delle attività di manutenzione, rimarranno attivi i servizi di posta elettronica certificata e saranno, quindi, disponibili le funzionalità relative al deposito telematico del settore civile da parte degli avvocati, dei professionisti e degli altri soggetti abilitati esterni anche se i messaggi relativi agli esiti dei controlli automatici potrebbero pervenire solo al riavvio definitivo di tutti i sistemi.

Non sarà invece possibile consultare in linea i fascicoli degli uffici dei distretti coinvolti dal fermo dei sistemi.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1 seguendo l’apposita guida disponibile al seguente LINK GUIDE

Si rammenta che l’attività di manutenzione del Portale dei Servizi Telematici renderà indisponibili tutti i servizi informatici ivi esposti e, in particolare:

– l’aggiornamento (anche da fuori ufficio) della consolle del magistrato;

– il deposito telematico di atti e provvedimenti da parte dei magistrati;

– I servizi di consultazione da parte dei soggetti abilitati esterni;

– i servizi di pagamenti telematici compreso il pagamento del contributo di pubblicazione di un’inserzione sul Portale delle Vendite;

– la pubblicazione di una nuova inserzione sul Portale delle Vendite Pubbliche per le vendite di tipologia giudiziaria;

– l’accesso al Portale Deposito atti Penali per il deposito con modalità telematica di atti penali;

– l’accesso al Portale di consultazione dei SIUS distrettuali per Avvocati;

– l’accesso agli avvisi degli atti penali depositati in cancelleria.

– l’accesso all’Area Web Notifiche


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Proprietà industriale, in arrivo 32 milioni per le imprese

Un nuovo pacchetto di incentivi per valorizzare brevetti, disegni e marchi italiani è in arrivo. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) ha annunciato l’apertura imminente dei bandi relativi alle misure agevolative dedicate alla proprietà industriale.

Le risorse complessive stanziate per il 2025 ammontano a 32 milioni di euro: 20 milioni destinati a Brevetti+, 10 milioni alla misura Disegni e 2 milioni a Marchi+. Gli avvisi ufficiali, predisposti dalla direzione generale competente, saranno pubblicati in Gazzetta Ufficiale e sul sito istituzionale del Ministero entro 30 giorni dal decreto direttoriale del 6 agosto 2025.

Brevetti+

L’ultima edizione del bando Brevetti+ aveva previsto contributi a favore di micro, piccole e medie imprese per rafforzare la propria strategia brevettuale, sostenendo lo sviluppo di servizi di valorizzazione economica di un’invenzione. L’agevolazione copriva fino all’80% delle spese ammissibili (con tetto massimo di 140mila euro), elevata all’85% per le imprese in possesso della certificazione di parità di genere e fino al 100% nei casi di partecipazione di enti di ricerca.

Disegni

La misura Disegni sosteneva invece le Pmi nella valorizzazione di modelli e disegni registrati. L’agevolazione consisteva in contributi in conto capitale fino all’80% delle spese, entro un massimo di 60mila euro, con la possibilità di arrivare all’85% per le imprese certificate per la parità di genere.

Marchi+

Infine, Marchi+ puntava a favorire la registrazione e la tutela dei marchi all’estero, attraverso contributi per tasse di deposito, registrazione e servizi specialistici. Erano previste due linee di intervento: una per marchi europei e l’altra per marchi internazionali (tramite l’Ompi). Anche qui il sostegno variava dall’80% delle spese fino a un massimo di 6mila euro per marchio, con percentuali più alte (85% e fino al 95%) per le imprese in possesso della certificazione di parità di genere.


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La Generative AI non decolla in azienda: solo il 5% dei progetti porta risultati

Per mesi la narrativa dominante ha descritto l’intelligenza artificiale generativa come la chiave di volta per la competitività delle imprese. Ma i dati raccontano una realtà diversa. Secondo il report The Generative Use of AI in Business 2025, pubblicato dal MIT Media Lab, solo il 5% dei progetti pilota lanciati dalle grandi aziende con strumenti di Gen AI riesce a generare un impatto economico misurabile. La maggioranza – il 95% – rimane bloccata nella fase sperimentale, senza produrre benefici concreti né ritorni sui margini operativi.

Il problema principale? I modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) faticano a comprendere il contesto e ad adattarsi ai processi organizzativi. Non sanno integrare in modo efficace i feedback ricevuti, non migliorano con il tempo e spesso risultano estranei ai sistemi aziendali già in uso. Ne deriva un divario tra il potenziale della tecnologia e la sua effettiva applicazione.

«Pesano la carenza di competenze interne, le difficoltà di integrazione e infrastrutture ancora non adeguate», spiega Alessandro Piva, direttore dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano. Un ostacolo che si aggiunge al fenomeno della shadow AI: l’uso spontaneo e non governato di strumenti generativi da parte dei dipendenti, spesso attraverso account gratuiti o personali, con il rischio di esposizione di dati sensibili e problemi di conformità normativa.

Il MIT non è il solo ad accendere un faro critico. A giugno, Apple ha diffuso uno studio dal titolo eloquente, The Illusion of Thinking, che mette in discussione le capacità dei cosiddetti modelli “reasoning”, progettati per simulare processi di ragionamento complesso. Secondo i ricercatori, questi strumenti mostrano limiti evidenti man mano che i compiti si fanno più articolati, e le metriche usate per valutarli risultano viziate dal fatto che i dataset di addestramento contengono già le risposte dei test.

Dietro le promesse di rivoluzione tecnologica, dunque, emergono dubbi e cautele. Gli LLM hanno dimostrato straordinarie capacità di generazione di testo e di supporto alla produttività individuale, ma restano strumenti statistici più che vere intelligenze capaci di ragionare. Ecco perché molti progetti aziendali falliscono: mancano ancora una piena comprensione del contesto, una reale capacità di apprendimento dinamico e, soprattutto, le competenze organizzative per gestirne l’impatto.

Il mito dell’AI come scorciatoia verso l’innovazione è così costretto a fare i conti con la realtà: una tecnologia promettente, ma che richiede tempo, investimenti in formazione e infrastrutture adeguate per esprimere davvero il suo potenziale trasformativo.


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Candidature dalla Ue alle Regioni: il corto circuito della sinistra

La partita delle candidature della sinistra alle prossime elezioni regionali si è chiusa, ma lascia dietro di sé più interrogativi che certezze. Sul piano amministrativo i profili in campo non mancano: tre candidati vantano solide esperienze di governo locale e altri due percorsi professionali di rilievo. Ma sul piano democratico l’operazione appare fragile, con segnali che destano preoccupazione.

Il primo riguarda la scarsità di classe dirigente interna. Due partiti che insieme contano oltre nove milioni di elettori hanno dovuto pescare da Strasburgo ben tre candidati, tutti eurodeputati eletti appena un anno fa. Una scelta che mette in luce la ristrettezza del bacino politico disponibile e alimenta l’idea di partiti sempre più oligarchici, incapaci di far emergere leadership diffuse.

Il secondo segnale critico è il meccanismo del “trasferimento” dall’Europa alle Regioni. Non una scelta maturata nei territori, ma un comando deciso dai segretari nazionali, che trattano candidature e carriere come pedine su una scacchiera. Un modello verticistico che svuota il ruolo dei militanti e accentua la distanza tra Paese reale e Paese legale, radicando lo scetticismo diffuso verso la politica.

Infine, il terzo elemento problematico riguarda la prospettiva europea. Davvero la politica di tre regioni italiane può valere più della presenza nell’assemblea parlamentare continentale? In un momento in cui l’Unione europea dovrebbe rafforzare la propria voce, il segnale dato dai due partiti della coalizione appare contraddittorio: si sottraggono risorse qualificate al dibattito comunitario per inseguire la vittoria in competizioni locali.

Le considerazioni sulle candidature si intrecciano così con una riflessione più ampia sul bilancio dei 55 anni di regionalismo in Italia. Nati come enti legislativi secondo la visione costituzionale, le Regioni si sono progressivamente trasformate in grandi corpi amministrativi, con la sanità a drenare tre quarti della spesa e una presidenzializzazione che ha personalizzato la competizione politica. Le promesse di autonomia si sono spesso ridotte a slogan o a differenziazioni minime, mentre si è perso il legame con la missione originaria: bilanciare i poteri dello Stato e dare forza legislativa ai territori.

Alla luce di queste dinamiche, la vicenda delle candidature non è solo un episodio elettorale. È lo specchio di una crisi strutturale della rappresentanza politica e della democrazia interna ai partiti, che si riflette anche nell’assetto regionale del Paese. Forse è il momento di una verifica complessiva, per misurare punti di forza e debolezza delle Regioni e ridefinirne il ruolo, prima che il divario tra istituzioni e cittadini diventi irrimediabile.


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Caso Almasri: Bartolozzi indagata, difesa affidata a Bongiorno

Tre giorni convulsi, dal 19 al 21 gennaio 2025, hanno segnato uno dei dossier più delicati per il governo italiano: l’arresto a Torino del generale libico Osama Najem Almasri, capo della milizia Rada, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, e il suo immediato rimpatrio su un volo di Stato.

Secondo la relazione del deputato Federico Gianassi (Pd), vicepresidente della giunta per le autorizzazioni a procedere, in quelle ore il governo riunì ministri, sottosegretari, vertici delle forze di polizia e servizi di sicurezza per valutare rischi, implicazioni e strategie. Il tutto in un contesto esplosivo: da un lato le pressioni della Corte penale internazionale, che contestava ad Almasri 34 omicidi e 22 violenze sessuali documentate; dall’altro i timori di ritorsioni contro cittadini e interessi italiani in Libia, compresi gli impianti dell’Eni a Mellitah.

Il caso ha aperto una frattura anche sul piano politico e giudiziario. La Procura di Roma ha infatti indagato il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il Guardasigilli Carlo Nordio. Ma a catalizzare l’attenzione è oggi la posizione di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, finita sotto inchiesta per presunte false dichiarazioni rese al Tribunale dei ministri.

L’ex magistrata, già presidente del Tribunale di Gela, ha reagito senza clamori: ha continuato il lavoro a via Arenula, dichiarandosi «tranquilla» e preparandosi alla difesa con l’avvocata Giulia Bongiorno, la stessa legale che assiste l’intera compagine di governo coinvolta nel procedimento.

La maggioranza parlamentare appare intenzionata a blindare la dirigente, convinta che non sussista un «reato autonomo» e pronta a sollevare, se necessario, un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale. Ma in giunta per le autorizzazioni non mancano le voci critiche: Gianassi ha parlato di «ennesima forzatura», mentre Riccardo Magi (+Europa) ha avvertito contro «salvacondotti» mascherati da tecnicismi.

Il nodo politico-giuridico resta aperto: il rimpatrio di Almasri, presentato come una necessità di sicurezza nazionale, rischia di trasformarsi in un caso di scontro istituzionale e in un banco di prova per la tenuta dell’esecutivo, tra rapporti internazionali, equilibri interni e responsabilità personali dei protagonisti.


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Professionisti nel mirino: il Fisco può pignorare direttamente le parcelle

Un nuovo meccanismo di riscossione sta già producendo effetti concreti in alcune regioni italiane. Si tratta di un protocollo operativo che vede lavorare insieme Agenzia delle Entrate e Agenzia della Riscossione, con un obiettivo preciso: intercettare i crediti vantati dai professionisti, ordinando direttamente ai loro clienti di pagare le parcelle all’Erario.

Il sistema si basa sul cosiddetto pignoramento presso terzi, già noto nel settore privato, ma che ora viene applicato con più incisività anche nei rapporti tra professionisti e Pubblica amministrazione. In pratica, se un avvocato, un ingegnere o un commercialista vanta un compenso nei confronti di un ente pubblico, quest’ultimo può essere obbligato a versare l’importo non al professionista ma direttamente all’Agenzia della Riscossione, a copertura dei debiti fiscali accumulati.

A differenza di quanto accade con gli stipendi dei lavoratori dipendenti – che godono di limiti precisi al pignoramento (generalmente un quinto della retribuzione) – per le parcelle professionali non sono previste soglie di salvaguardia: l’importo può essere trattenuto integralmente. Una misura che, secondo gli esperti, rischia di avere effetti dirompenti sul mercato dei servizi professionali.

Il protocollo si fonda sull’incrocio dei dati contenuti nella fatturazione elettronica con le posizioni debitorie registrate a ruolo. In questo modo l’Agenzia riesce a individuare rapidamente chi deve ancora incassare somme dalla propria attività e, se risultano debiti fiscali, ad attivare immediatamente la procedura di pignoramento.

Criticità non mancano. Da un lato, il rischio di scoraggiare enti e aziende a rivolgersi a professionisti che hanno posizioni debitorie aperte, per non essere coinvolti in procedimenti di pignoramento; dall’altro, l’assenza di tutele minime analoghe a quelle previste per i lavoratori dipendenti può mettere in difficoltà soprattutto i professionisti più giovani o economicamente fragili.

Sul piano giuridico, si aprono interrogativi anche rispetto al rispetto del GDPR e al principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione: l’incrocio massivo dei dati della fatturazione elettronica e la disparità di trattamento tra dipendenti e liberi professionisti pongono infatti questioni delicate in termini di privacy e diritti fondamentali.


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Cyber-rischi per i minori: l’asilo multato per aver caricato foto dei piccoli sul web

La tutela della dignità e della riservatezza dei minori non può essere sacrificata a logiche promozionali. È questo il principio ribadito dal Garante per la protezione dei dati personali, che ha colpito con una sanzione di 10mila euro un asilo nido responsabile di aver diffuso online le immagini dei propri piccoli ospiti, di età compresa tra i 3 e i 36 mesi.

Il provvedimento è arrivato dopo la segnalazione di un genitore che, per iscrivere la figlia, si era visto costretto a firmare un consenso all’utilizzo delle fotografie. Lo stesso genitore aveva denunciato la presenza di un impianto di videosorveglianza attivo anche durante le attività didattiche, con inevitabile ripresa di bambini, educatori e persino visitatori.

Durante l’istruttoria, l’Autorità ha accertato che sul sito web dell’asilo e persino sulla scheda di Google Maps comparivano numerose immagini dei piccoli in momenti estremamente delicati: dal sonno al cambio del pannolino, dal pranzo in mensa ai massaggi infantili. Fotografie che, oltre a ledere la sfera privata, esponevano i minori al rischio di utilizzi distorti da parte di terzi.

Il Garante ha sottolineato che il consenso dei genitori non poteva giustificare tali trattamenti, in quanto condizionato dalla necessità di iscrivere i figli alla struttura e dunque non libero né realmente consapevole. Inoltre, la pubblicazione di immagini intime per fini promozionali si scontra con il superiore interesse dei bambini a restare protetti da esposizioni pubbliche ingiustificate.

Pesanti rilievi sono stati mossi anche al sistema di videosorveglianza, ritenuto non conforme né alle norme sul lavoro né alla disciplina privacy. L’asilo è stato quindi obbligato a cancellare immediatamente tutte le immagini raccolte e diffuse illecitamente.


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Il Nordest si scopre multiculturale: a Mestre i commercianti imparano il bengalese

A Mestre per vendere un gelato, una pizza o un paio di scarpe, può capitare di dover conoscere qualche parola di bengalese. È il segno di una trasformazione silenziosa che sta cambiando il volto di alcuni quartieri della città. La comunità originaria del Bangladesh, ormai tra le più numerose del Veneto, ha raggiunto numeri tali da spingere sempre più commercianti italiani a cimentarsi con una lingua lontana, ma diventata necessaria per dialogare con clienti e vicini di casa.

Il fenomeno
In certe zone, come quelle attorno alla stazione o al quartiere Marghera, i bangladesi sono la presenza prevalente. Non si tratta solo di botteghe etniche: dal gelataio al negozio di abbigliamento, sono diversi gli esercenti italiani che raccontano di aver imparato espressioni di base per accogliere e servire meglio la clientela. Persino le scuole si sono mosse: all’istituto Giulio Cesare è stato attivato, fuori orario scolastico, un corso di lingua bengalese con il supporto del consolato.

La comunità
Secondo le stime, a Mestre vivono oggi oltre 10mila persone di origine bangladese, con una crescita vertiginosa rispetto al 2016. Molti lavorano nella cantieristica, nella ristorazione e nei servizi, contribuendo a ridisegnare il tessuto urbano ed economico.

Le reazioni
Non tutti però accolgono questo cambiamento con entusiasmo. Sui social abbondano i commenti critici: c’è chi parla di “integrazione al contrario” e sostiene che dovrebbero essere gli stranieri a imparare l’italiano, non viceversa. Alcuni esponenti politici locali, come la senatrice leghista Anna Maria Cisint, sottolineano i rischi di una presenza giudicata “sproporzionata” in alcune aree. Altri, come il senatore veneziano Raffaele Speranzon, invitano invece a non cedere a facili allarmismi, pur ammettendo che servono regole chiare per garantire una convivenza equilibrata.

Un mutamento culturale
Al di là delle polemiche, il fenomeno racconta una mutazione urbana: intere strade e piazze si sono trasformate in microcosmi che richiamano atmosfere di Dacca, con insegne, negozi e mercati che rispecchiano le tradizioni d’origine. Per alcuni un segno di vitalità multiculturale, per altri il simbolo di una perdita d’identità.


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Lo scontro tra politica e magistratura attorno alla riforma della giustizia si arricchisce di un nuovo capitolo. Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministero della Giustizia, è indagata dalla procura di Roma per il reato di false informazioni al pubblico ministero nell’ambito dell’inchiesta sul generale libico Osama Njeem Almasri, arrestato a gennaio e rimpatriato con una procedura che ha già coinvolto i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano.

Per i membri del governo, la decisione se andare a processo dipenderà dalla Camera, chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal tribunale dei ministri. Per Bartolozzi, invece, l’accusa procede senza passare dal vaglio parlamentare: circostanza che ha aperto un acceso dibattito.

La difesa di Nordio
Il Guardasigilli ha espresso «piena e incondizionata solidarietà» alla sua collaboratrice, sottolineando come Bartolozzi lo avesse «sempre informato tempestivamente ed esaurientemente» sulle fasi della vicenda Almasri. Per Nordio, la dirigente avrebbe agito per suo conto, e dunque non sarebbe possibile procedere senza autorizzazione della Camera.

Il nodo giuridico
Secondo diversi costituzionalisti, tra cui Stefano Ceccanti, la posizione del tribunale dei ministri appare contraddittoria: nella motivazione viene descritto il ruolo integrato del capo di gabinetto, ma non si richiede l’autorizzazione parlamentare per lei. Una lacuna che potrebbe aprire la strada a un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale.

Scenari politici
Il processo, se avviato, potrebbe arrivare al momento clou verso la fine della legislatura, in concomitanza con la campagna elettorale. Una prospettiva che secondo alcuni esponenti dell’opposizione, come Angelo Bonelli, potrebbe trasformare il caso Almasri in un vero e proprio “Watergate italiano”.

Resta però da capire se la linea dei magistrati resisterà alle eccezioni di incostituzionalità e al filtro delle Camere. La giunta per le autorizzazioni è chiamata a esprimersi entro fine mese: sarà lì che si deciderà se il fascicolo su Bartolozzi resterà aperto o se dovrà passare sotto la tutela del Parlamento.


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Videosorveglianza pubblica sempre valida per le multe ambientali

La lotta all’abbandono dei rifiuti entra in una nuova fase. Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 116/2025, dal 9 agosto sono state introdotte sanzioni più severe e nuove regole che rafforzano il coordinamento tra Codice della strada e Testo unico dell’ambiente. Il provvedimento mira a disincentivare i comportamenti illeciti soprattutto quando avvengono con veicoli a motore, prevedendo non solo ammende più alte ma anche la sospensione della patente.

Telecamere e accertamenti
Gli impianti pubblici di videosorveglianza, installati dentro e fuori dai centri abitati, potranno essere utilizzati sempre per documentare violazioni legate all’abbandono di rifiuti. Le telecamere private, invece, saranno ammesse soltanto se l’illecito ha rilievo penale. La circolare ministeriale del 2020 e le successive chiarificazioni hanno confermato che apparecchi come il Targa System non possono sostituire l’attività degli agenti: restano strumenti di supporto e non di rilevazione autonoma.

Le nuove sanzioni
Per i rifiuti non pericolosi, l’ammenda è passata da un minimo di 1.500 a un massimo di 18mila euro (in precedenza oscillava tra 1.000 e 10mila). Se a commettere l’illecito è un’impresa o un ente, scatta anche l’arresto fino a due anni. Nei casi in cui l’abbandono avvenga con un veicolo a motore, il conducente rischia la sospensione della patente da uno a quattro mesi.

Restano escluse le ipotesi di rifiuti di piccolissime dimensioni o derivanti dal fumo, punite solo con sanzioni amministrative: da 80 a 320 euro se l’abbandono avviene a piedi, da 216 a 866 euro se invece avviene da veicolo in movimento o in sosta.

Gestione illecita e casi gravi
Il decreto ha trasformato in delitto — e non più in semplice contravvenzione — la gestione non autorizzata di rifiuti, siano essi pericolosi o non pericolosi. La pena si aggrava se l’attività è svolta con un veicolo a motore: oltre alla sospensione della patente da tre a nove mesi, la condanna comporta la confisca del mezzo salvo che appartenga a terzi estranei.

Sono previste anche sospensioni dall’Albo dei gestori ambientali (fino a un anno per i rifiuti pericolosi) e multe fino a 30mila euro, con possibilità di sospendere dall’incarico amministratori o responsabili.

Chi applica le sanzioni
Il sindaco resta l’autorità competente per le multe relative all’abbandono di rifiuti ai sensi dell’articolo 255 del Tua, mentre le violazioni del Codice della strada vengono contestate dagli agenti accertatori. Nei casi penali la competenza passa ai tribunali.


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