Geolocalizzare i lavoratori in smart working è vietato: scatta la sanzione da 50mila euro

Il controllo dei lavoratori in smart working tramite sistemi di geolocalizzazione è una pratica vietata. A ribadirlo è stato il Garante per la Privacy, che ha sanzionato con una multa da 50mila euro un ente che aveva utilizzato un’app per localizzare i propri dipendenti durante le giornate di lavoro agile.

La vicenda riguarda un sistema che permetteva di tracciare la posizione dei dipendenti attraverso i dispositivi aziendali — smartphone e notebook — per verificare che si trovassero nel luogo concordato per lo svolgimento dell’attività da remoto. Un controllo che, di fatto, violava le regole previste dallo Statuto dei lavoratori e dal Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR).

La normativa consente l’utilizzo di strumenti di controllo a distanza solo per specifiche finalità, come la tutela del patrimonio aziendale o per motivi di sicurezza, e mai per verificare in modo diretto la prestazione lavorativa, se non in presenza di accordi chiari e specifici autorizzati dagli organi competenti. Nel caso esaminato, il monitoraggio era stato attivato in modo sistematico su circa 100 dipendenti, attraverso la richiesta di timbrare virtualmente l’inizio e la fine dell’attività e di comunicare la propria posizione via mail.

Il Garante ha giudicato il comportamento gravemente lesivo dei diritti dei lavoratori, sottolineando che il lavoro agile garantisce maggiore libertà nella gestione della vita privata e lavorativa. La geolocalizzazione costante rappresenta, invece, un’ingerenza indebita nella sfera personale, anche se l’applicazione richiedeva il consenso dei dipendenti: in questo contesto, infatti, il consenso non è considerato valido, essendo rilasciato in un contesto di subordinazione.

Il caso è emerso a seguito del reclamo di una dipendente, che ha denunciato le pressioni ricevute per attivare il sistema di localizzazione. Da qui, le indagini hanno portato alla sanzione amministrativa e all’obbligo, per l’ente, di disattivare l’applicazione e di interrompere immediatamente il trattamento illecito dei dati.

Un richiamo forte al rispetto della privacy dei lavoratori da remoto e alla necessità, per le aziende, di attenersi a criteri di liceità, correttezza e trasparenza nel trattamento dei dati personali, come previsto dal GDPR.


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Pubblico impiego, sì alle mansioni inferiori ma solo a precise condizioni

Anche nel settore pubblico i dipendenti possono essere chiamati a svolgere, in via eccezionale, mansioni di livello inferiore rispetto al proprio inquadramento. A stabilirlo è un’ordinanza della Corte di Cassazione civile – sezione lavoro (n. 1128 dell’8 maggio 2025), che chiarisce i confini entro cui un’amministrazione può ricorrere a questa possibilità senza violare i diritti dei lavoratori.

Secondo i giudici supremi, il pubblico dipendente ha un dovere di collaborazione nell’interesse dell’ente e della collettività, che può includere anche incarichi diversi da quelli abituali. Tuttavia, tali mansioni devono rientrare nell’ambito della professionalità del lavoratore e non essere completamente estranee al suo percorso formativo e lavorativo. È inoltre necessario che la richiesta derivi da effettive esigenze organizzative e venga gestita in modo marginale e occasionale.

Nel caso esaminato, un’infermiera era stata sistematicamente destinata a compiti tipici degli operatori socio-sanitari (Oss), a causa della carenza di personale. La Corte ha confermato la condanna dell’azienda sanitaria, condannata a risarcire la lavoratrice per il danno alla professionalità e all’immagine, quantificato nel 20% della retribuzione per il periodo interessato.

La pronuncia sottolinea, però, che non è sempre illegittimo impiegare infermieri in mansioni da Oss, purché si tratti di attività compatibili con la loro qualifica e che tali incarichi restino accessori rispetto alle mansioni principali. L’amministrazione pubblica, infatti, può richiedere ai propri dipendenti una certa flessibilità funzionale, ma senza stravolgere il profilo professionale o mortificare le competenze acquisite.

Una decisione che rimette al centro il rispetto della dignità lavorativa nel pubblico impiego, tutelando il diritto di ogni dipendente a vedere riconosciuto il proprio ruolo senza essere impiegato sistematicamente in compiti inferiori al proprio inquadramento.


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L’UE cerca input sulla sua futura politica digitale esterna

La Commissione europea ha pubblicato un invito a presentare contributi per raccogliere riscontri che aiuteranno a definire la politica digitale esterna dell’UE. I contributi confluiranno nella prossima comunicazione congiunta su una strategia digitale internazionale, in fase di elaborazione con l’Alta rappresentante/Vicepresidente Kaja Kallas.

La comunicazione congiunta, che dovrebbe essere pubblicata nelle prossime settimane, delineerà la strategia dell’UE per rafforzare il suo ruolo di attore digitale globale, promuovere i suoi interessi strategici nel settore della tecnologia e della trasformazione digitale e sostenere la trasformazione digitale dei paesi partner.

Ciò comprende azioni volte a promuovere la sovranità tecnologica e la democrazia dell’UE e a rafforzarne la sicurezza e la difesa. Ci si baserà sui recenti progressi nello sviluppo di una rete di partenariati e alleanze digitali con i paesi partner di tutto il mondo e sulla fondazione della diplomazia digitale dell’UE.

L’invito raccoglierà opinioni, fatti e prove per comprendere meglio le sfide sottostanti e le possibili soluzioni, nonché gli effetti previsti delle azioni proposte.

Una serie di portatori di interessi, tra cui le imprese tecnologiche, le associazioni di categoria, le autorità nazionali dell’UE e dei paesi terzi, la società civile, le ONG, il mondo accademico e i cittadini, possono condividere le loro opinioni entro il 21 maggio.


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Abuso d’ufficio, Nordio: “Massima soddisfazione per il provvedimento della Consulta, abrogazione compatibile con obblighi internazionali”

Roma, 8 maggio 2025 – “Esprimo la massima soddisfazione per il contenuto del provvedimento della Corte Costituzionale, che ha confermato quanto sostenuto a più riprese in ordine alla compatibilità dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio con gli obblighi internazionali.

Mi rammarica che parti della magistratura e delle opposizioni abbiano insinuato una volontà politica di opporsi agli obblighi derivanti dalla convenzione di Merida.

Auspico che nel futuro cessino queste strumentalizzazioni, che non giovano all’immagine del nostro Paese e tantomeno all’efficacia dell’Amministrazione della giustizia”.

Dichiarazione del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in merito alla sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio.


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Milano, Confintesa FP diffida il COA: «Stop alla piattaforma segnalazioni»

Confintesa FP, tramite il Segretario Generale Claudia Ratti, ha formalizzato una contestazione e diffida indirizzata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano in merito al Regolamento approvato il 6 novembre 2024, che ha istituito una piattaforma telematica destinata alla raccolta di segnalazioni, anche anonime, sull’operato di magistrati, uffici giudiziari e personale amministrativo.

Pur riconoscendo l’intento dichiarato di migliorare il sistema giustiziario, Confintesa FP evidenzia pesanti criticità e profili di illegittimità, che configurano una grave lesione dei diritti e delle garanzie del personale amministrativo in servizio presso gli uffici giudiziari di Milano, nonché una violazione delle prerogative sindacali.

In particolare, l’organizzazione sindacale contesta:

  • L’inammissibile ingerenza nelle competenze organizzative e gestionali riservate alle pubbliche amministrazioni, attribuite per legge ai dirigenti ministeriali.

  • La violazione del diritto sindacale alla partecipazione e all’informazione preventiva, previsto dalla normativa sul pubblico impiego e dal CCNL Funzioni Centrali 2022–2024.

  • La non conformità del sistema alla normativa sulla protezione dei dati personali, con la gestione, da parte di un soggetto esterno, di dati giudiziari e personali dei dipendenti pubblici senza adeguata base giuridica.

  • L’assenza di garanzie procedurali per i dipendenti eventualmente segnalati, privati del diritto di essere informati e di esercitare la propria difesa.

Alla luce di queste gravi criticità, Confintesa FP ha diffidato formalmente il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano a sospendere immediatamente il Regolamento e a disattivare la piattaforma, sollecitando contestualmente la convocazione urgente di un tavolo sindacale con le sigle rappresentative del comparto.

In mancanza di un tempestivo e positivo riscontro, il sindacato ha dichiarato di riservarsi ogni azione presso le competenti sedi giudiziarie e amministrative a tutela dei diritti del personale.

Confintesa FP ribadisce l’urgenza di un confronto istituzionale responsabile e rispettoso dei ruoli e delle prerogative previste dall’ordinamento, affinché la gestione delle segnalazioni avvenga in modo trasparente e conforme alle norme, senza ledere i diritti dei lavoratori e le prerogative sindacali.


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Doppia conforme: quando il ricorso in Cassazione non è ammesso

La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla cosiddetta doppia conforme, riaffermando un orientamento consolidato: quando le sentenze di primo e secondo grado risultano identiche per motivazioni e ricostruzione dei fatti, il ricorso in Cassazione non è proponibile, salvo che non si dimostri una divergenza concreta tra le due decisioni.

A fissare il principio è l’ordinanza n. 5881/2025, depositata lo scorso 5 marzo. Il Collegio di Piazza Cavour ha evidenziato che, nel caso esaminato, la parte ricorrente non aveva indicato le eventuali differenze tra il giudizio di primo grado e quello d’appello. Una mancanza che rendeva inammissibile il ricorso di legittimità.

Il punto centrale della decisione riguarda la necessità, in presenza di sentenze conformi nei due gradi di merito, di specificare le eventuali difformità tra le motivazioni, pena l’inammissibilità del ricorso. Un principio che la recente riforma Cartabia, intervenuta con il decreto legislativo 149/2022, ha implicitamente confermato modificando l’articolo 360 del codice di procedura civile, pur eliminando il precedente filtro di inammissibilità previsto in appello dall’articolo 348-ter.

La Suprema Corte ha inoltre ribadito che, in caso di doppia conforme, resta escluso il motivo di ricorso previsto dall’articolo 360, primo comma, n. 5, relativo all’omesso esame di un fatto decisivo già discusso dalle parti, in quanto la valutazione probatoria rimane di esclusiva competenza dei giudici di merito.

Un principio ribadito anche dalla sezione tributaria della Cassazione con la recente pronuncia n. 5445/2025, che conferma l’impossibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre una propria valutazione a quella uniforme già espressa nei precedenti gradi di giudizio.


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Inps: Unaep, la Cassazione dà ragione agli avvocati su trattenute Irap

La Corte di Cassazione ha depositato lo scorso 21 aprile le pronunce da tempo attese sulla vicenda che vedeva l’Inps contrapposta ai propri avvocati dipendenti per il rimborso dell’Irap trattenuta dall’Istituto dal monte onorari.  

La vicenda era iniziata nel 2015 quando l’Inps aveva operato dei recuperi di indebito direttamente nei confronti degli avvocati dell’ex Inpdap sul rilievo che l’Ente soppresso, a differenza dell’Inps, non avesse effettuato i necessari accantonamenti per il versamento dell’imposta, come richiesto negli atti di indirizzo della Corte dei conti a tutela del principio di copertura finanziaria. In quell’occasione venne reso palese il fatto che l’Inps aveva trattenuto e tuttora trattiene, dal monte onorari corrisposti ai propri legali, non solo gli oneri riflessi (come previsto dall’art.1, comma 208, della legge 23 dicembre 2005, n. 266) ma anche l’Irap da versare all’erario, effettuando così la traslazione indirette dell’imposta dovuta dal datore di lavoro ai propri dipendenti. 

Nacque un contenzioso che vide soccombente l’Istituto in primo grado, ed anche in alcune Corti d’appello, tranne la Corte d’appello di Roma, che in tre pronunce, avvallò la tesi dell’Istituto. Oggi la Corte di Cassazione, con le sentenze nn 10404, 10861, 10862 e del 2025, respinge le difese dell’Istituto, accogliendo i motivi di gravame dei lavoratori e formulando, sul punto diversi principi di diritto cui dovranno attenersi i giudici di merito nei futuri giudizi, tra cui si segnala il seguente, nel rimandare alla lettura integrale delle sentenze per gli altri: “Gli importi dovuti, ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, dell’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, all’avvocatura interna dell’INPS hanno natura retributiva e spettano al netto dell’IRAP, che resta a carico della pubblica amministrazione datrice di lavoro, la quale non può fare gravare tale imposta sui suoi dipendenti né in via diretta né indiretta, riducendo a monte e in proporzione all’ammontare della menzionata IRAP le risorse che, in base alla legge, alla contrattazione collettiva o al regolamento dell’ente, sono specificamente destinate ai detti dipendenti a titolo di compensi professionali”; 

Tali decisioni, oltre a restituire giustizia ai nostri Colleghi che si sono visti ingiustamente decurtare le loro retribuzioni, costituiscono una innegabile censura al comportamento dell’Istituto che, sotto il pretesto della copertura contabile, ha indebitamente traslato l’imposta a proprio carico, sui propri dipendenti. Riteniamo che l’Istituto non possa non tenere conto di queste importanti pronunce e dei principi generali che esse hanno espresso sulle retribuzioni dei professionisti legali, è debba urgentemente correre ai ripari per evitare il protrarsi di una situazione di illegittimità che ha prodotto e continua a produrre notevoli danni economici a tutti gli Avvocati dell’Ente che si spendono quotidianamente con sacrificio e spirito di servizio per l’Istituto“, commenta Il segretario nazionale Unaep INPS, Massimo Cassarino.


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Addio a Nino Marazzita, decano del foro e volto noto della tv

Il mondo della giustizia e della comunicazione piange la scomparsa di Nino Marazzita, avvocato, giornalista e scrittore, spentosi all’età di 87 anni. Nato a Palmi, in Calabria, il 2 aprile 1938, aveva costruito una carriera lunga e brillante, costellata di casi celebri e interventi televisivi che lo avevano reso un volto familiare al grande pubblico.

A darne notizia è stato il figlio Giuseppe con un messaggio carico di affetto pubblicato sui social: “Oggi mio padre ha affrontato l’ultima battaglia con la tenacia di sempre. Lascia dietro di sé un vuoto immenso e il ricordo della sua intelligenza, della sua ironia e della sua profonda umanità”.

Avvocato dal 1965, Marazzita si era distinto per aver seguito processi di forte impatto mediatico: fu tra i legali nel processo d’appello a Pietro Pacciani, difese la famiglia di Milena Bianchi, assassinata in Tunisia, e rappresentò la parte civile nel procedimento per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Aveva inoltre assistito Eleonora Moro durante il dibattimento sull’assassinio di Aldo Moro e seguito il caso del massacro del Circeo.

Parallelamente all’attività forense, Marazzita aveva coltivato la passione per il giornalismo e la divulgazione. Fu direttore della rivista giuridica L’Eloquenza, condusse storici programmi radiofonici su Rai Radio 1 e partecipò a numerosi talk e rubriche di approfondimento, tra cui Forum e Lo Sportello di Forum. Non mancarono collaborazioni con testate di criminologia e trasmissioni televisive dedicate al diritto.

Autore di numerosi interventi e pubblicazioni, firmò insieme a Matilde Amorosi il libro L’avvocato dei diavoli, in cui ripercorse quarant’anni di casi emblematici della cronaca italiana.


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Euro digitale, svolta vicina: nuova spinta politica e dubbi sulla privacy

Il progetto dell’euro digitale torna sotto i riflettori. A distanza di quasi due anni dalla proposta iniziale della Commissione Europea, i capi di Stato e di governo dell’area euro hanno deciso di imprimere un’accelerazione al percorso legislativo che dovrebbe portare alla nascita di una valuta digitale emessa direttamente dalla Banca Centrale Europea, da affiancare a banconote e monete. Una mossa destinata a rafforzare l’autonomia strategica del sistema dei pagamenti europeo, ma che non manca di sollevare interrogativi e perplessità.

Al momento nel mondo sono tre le valute digitali di banca centrale (CBDC) già operative al pubblico: il Sand Dollar alle Bahamas, il JAM-DEX in Giamaica e l’eNaira in Nigeria. E mentre la Cina è ormai a uno stadio avanzato di sperimentazione con il suo yuan digitale, l’Europa sembra ora decisa a colmare il ritardo.

Stando alle linee guida diffuse dalla Banca d’Italia, l’euro digitale sarebbe un mezzo di pagamento elettronico a corso legale, utilizzabile ovunque nell’area euro, sia online che di persona, e garantito dalla BCE. Non intende però sostituire contanti o strumenti di pagamento tradizionali, ma affiancarsi a essi offrendo un’alternativa pubblica e sicura, slegata dal controllo delle piattaforme private.

Il progetto prevede un ruolo centrale per le banche e i prestatori di servizi di pagamento, incaricati di distribuire e gestire l’euro digitale, mantenendo così in parte il modello attuale. Per i consumatori privati, l’apertura e la gestione dei conti digitali non dovrebbero comportare costi, mentre per commercianti e professionisti si ipotizzano commissioni proporzionate e limitate.

Uno degli aspetti più delicati riguarda la tutela della privacy. Se da un lato il regolamento in discussione garantisce un elevato livello di riservatezza, soprattutto per i pagamenti offline — che potrebbero avvenire senza che banche o BCE accedano ai dati delle transazioni —, dall’altro le operazioni online rimarrebbero soggette ai controlli previsti per contrastare frodi, riciclaggio e finanziamento del terrorismo. Un equilibrio non facile, che suscita timori tra cittadini e consumatori circa una possibile eccessiva tracciabilità.

Il dibattito politico si è riacceso dopo il vertice dei leader europei del 20 marzo scorso, che ha definito il completamento del progetto euro digitale “prioritario per la sicurezza economica dell’Unione”. Un segnale chiaro, confermato anche dalla BCE, che il 17 aprile ha per la prima volta citato ufficialmente la moneta digitale tra gli obiettivi di politica monetaria.

Ora la palla passa al Parlamento Europeo e alla Commissione Economica e Monetaria, dove il relatore incaricato ha già avviato i colloqui con banche, imprese e associazioni di consumatori. Se il 2025 sarà davvero l’anno della svolta per l’euro digitale, dipenderà dalla capacità delle istituzioni di costruire un impianto normativo equilibrato, capace di proteggere i diritti dei cittadini senza rinunciare alle opportunità di innovazione.


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