Fisco più morbido con i contribuenti affidabili: limiti agli aumenti di reddito nel nuovo concordato biennale

ROMA — Arriva una nuova stretta selettiva sulle pretese fiscali, ma solo per i contribuenti più virtuosi. Il Consiglio dei ministri ha dato ieri il via libera definitivo al decreto legislativo che introduce la nuova versione del concordato biennale per lavoratori autonomi e titolari di partita IVA. La principale novità riguarda i limiti agli incrementi di reddito che il Fisco potrà proporre a chi sceglierà di aderire: si parte da un massimo del 10% per chi raggiunge il punteggio più alto nell’indice di affidabilità fiscale (pari a 10), per salire al 15% per chi ha un punteggio di almeno 9, e al 25% per coloro che si attestano su 8.

Nel pacchetto di modifiche rispetto alla precedente edizione, trova spazio anche la conferma della maxi deduzione per il costo del lavoro, prorogata fino al 2027, mentre viene esclusa l’estensione del ravvedimento speciale ai redditi 2023. Slitta invece al 30 settembre la scadenza per aderire al nuovo concordato, inizialmente fissata al 31 luglio.

Un altro intervento riguarda la trasmissione dei dati sanitari ai fini della dichiarazione precompilata, che a partire dal 2025 avverrà annualmente e non più ogni sei mesi.


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Diritto all’affettività in carcere, ancora un miraggio: solo il 17% degli istituti ha spazi per i colloqui intimi

Nonostante la Corte costituzionale abbia sancito da oltre un anno il diritto all’affettività per le persone detenute, il sistema carcerario italiano resta drammaticamente indietro. Su 189 istituti penitenziari censiti, soltanto 32 dispongono di uno spazio riservato dove i colloqui intimi possano svolgersi senza controllo visivo e nel rispetto della dignità personale. In pratica, meno di uno su cinque.

La fotografia di questo stallo arriva dalla risposta che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha fornito a un’interrogazione parlamentare presentata lo scorso febbraio dal deputato Roberto Giachetti. Dal quadro emerge un’Italia penitenziaria ancora impigliata tra annunci, gruppi di lavoro e progetti pilota mai decollati davvero. La gran parte delle carceri ammette di non avere stanze idonee, bloccata da problemi strutturali, mancanza di fondi e, soprattutto, da un immobilismo amministrativo che continua a ostacolare un diritto riconosciuto come espressione della dignità umana.

A confermare la gravità della situazione è anche il caso di Parma, dove un detenuto condannato per reati di mafia ha dovuto attendere due anni e il pronunciamento di due magistrature per ottenere il permesso di incontrare la moglie senza essere osservato. Dopo il primo rifiuto della direzione carceraria, motivato dall’assenza di locali idonei e dalla mancanza di linee guida definitive, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha imposto alla casa circondariale di trovare una soluzione entro sessanta giorni. Il Tribunale di Bologna ha poi respinto il reclamo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), affermando che, in assenza di concreti rischi per l’ordine interno, i colloqui intimi non possono essere vietati.

In mezzo a un panorama desolante, si salva il progetto “M.A.MA.”, un modulo prefabbricato in legno realizzato a Rebibbia per le detenute con figli. Ma l’iniziativa è rimasta isolata, senza che altre carceri abbiano seguito l’esempio, bloccate da bilanci senza fondi dedicati e da regolamenti in sospeso.

La vicenda restituisce l’immagine di un sistema penitenziario dove i diritti riconosciuti rimangono spesso teorici. Dove la possibilità di vivere affetti e relazioni intime dipende ancora dalla sensibilità dei direttori, dalla determinazione degli avvocati e dalla disponibilità dei giudici. E dove, come ha ricordato la Corte costituzionale, il carcere non può essere ridotto a isolamento e privazione, ma deve garantire spazi di umanità, fondamentali per il percorso di reinserimento sociale.


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Nasce l’Organizzazione Internazionale per la Mediazione: accordo tra 30 Paesi su iniziativa della Cina

Un nuovo strumento per la risoluzione pacifica delle controversie internazionali prende forma sulla scena globale. Lo scorso 30 maggio, sotto la spinta della Cina, è stata adottata la Convenzione internazionale per l’istituzione dell’Organizzazione Internazionale per la Mediazione (IOMed), il primo organismo intergovernativo dedicato esclusivamente alla mediazione di controversie tra Stati, tra Stati e privati, e tra soggetti privati con profili di internazionalità.

Il progetto, ambizioso e innovativo, punta a creare una via alternativa ai tribunali e agli arbitrati, privilegiando il dialogo assistito da mediatori qualificati per comporre conflitti di natura commerciale o civile su scala globale. Resteranno invece escluse dal suo ambito le delicate questioni relative alla sovranità territoriale, ai confini marittimi e ad altre controversie ritenute non compatibili con il ricorso a procedure conciliative.

L’Organizzazione, che avrà sede a Hong Kong, sarà governata da un Consiglio esecutivo, composto da rappresentanti di ciascuno Stato parte, incaricato di definire regole procedurali e gestionali. A supporto, un Segretariato permanente e due Panel di mediatori scelti per esperienza e competenza internazionale.

Ad oggi, sono 30 i Paesi firmatari, in prevalenza asiatici — come Cambogia, Indonesia e Laos — ma tra i firmatari figurano anche nazioni dell’area latinoamericana e balcanica, tra cui Cuba, Venezuela e Serbia. La Convenzione entrerà in vigore una volta raggiunta la ratifica di almeno tre Stati.

Interessante anche la possibilità per Stati non firmatari e organizzazioni internazionali di accedere ai servizi dell’IOMed, a determinate condizioni, ampliando così il potenziale bacino d’utenza di questa nuova istituzione.


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Sequestro preventivo agli enti: serve sempre la prova del rischio concreto

Il sequestro preventivo disposto a carico di un ente, nell’ambito di un procedimento per responsabilità amministrativa ai sensi del decreto legislativo 231/2001, non può essere applicato senza una puntuale motivazione sul rischio effettivo di dispersione del patrimonio. A chiarirlo è la terza sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 20078/2025, che accoglie il ricorso di una società colpita dalla misura cautelare per il mancato pagamento di dazi doganali e Iva sull’importazione.

Nel caso esaminato, il sequestro aveva colpito una parte significativa del patrimonio societario, con il rischio di paralizzare l’attività aziendale. A giustificare la misura, il giudice aveva richiamato il momentaneo stato di incapienza della società, senza però indicare alcun concreto pericolo di dispersione dei beni.

Una motivazione insufficiente, secondo i giudici di legittimità. La Cassazione ha infatti ribadito che, in presenza di un sequestro preventivo finalizzato alla futura confisca patrimoniale — obbligatoria o meno — è sempre necessario accertare e motivare il periculum in mora, ovvero il rischio concreto che i beni possano essere dispersi o sottratti, vanificando così l’efficacia della futura misura ablativa.

La pronuncia sottolinea inoltre che lo stato di temporanea incapienza economica non può da solo giustificare il sequestro preventivo, a differenza di quanto previsto, ad esempio, per il sequestro conservativo in caso di insufficienza della garanzia patrimoniale. In gioco, ricorda la Cassazione, ci sono diritti costituzionali fondamentali come la tutela della proprietà privata e la libertà d’impresa, che impongono al giudice di bilanciare le esigenze cautelari con il principio di proporzionalità.

Il provvedimento di sequestro, se di ampia portata e privo di motivazione specifica sul rischio di dispersione patrimoniale, rischia infatti di trasformarsi in una misura sproporzionata, capace di compromettere illegittimamente la continuità dell’attività economica e la possibilità dell’ente di generare utili.


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Permessi ai detenuti, più tempo per fare ricorso: il reclamo si potrà presentare entro quindici giorni

Il detenuto che si veda negare un permesso per gravi motivi familiari avrà più tempo per presentare reclamo. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 78 depositata il 3 giugno 2025, dichiarando illegittima la norma che finora imponeva un termine di appena 24 ore per impugnare il diniego.

La questione era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari nel corso di un procedimento in cui un detenuto aveva chiesto di poter fare visita alla sorella gravemente malata. La richiesta era stata respinta e il reclamo presentato subito, riservandosi però di indicare i motivi in un secondo momento, dopo aver avuto accesso ai documenti medici. La normativa vigente — l’articolo 30-bis dell’ordinamento penitenziario — imponeva però un termine di appena un giorno dalla comunicazione del provvedimento, ritenuto dal giudice remittente troppo breve per garantire il pieno esercizio del diritto di difesa.

La Consulta ha accolto i dubbi di costituzionalità, rilevando come in un tempo così ristretto il detenuto difficilmente possa contattare un avvocato e procurarsi la documentazione necessaria a motivare efficacemente il proprio reclamo. Un termine tanto limitato, secondo i giudici costituzionali, si pone in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione, che tutela il diritto di ogni persona di difendersi in giudizio.

Ricalcando una precedente decisione presa nel 2020 sui permessi premio, la Corte ha dunque equiparato anche in questo caso il termine per il reclamo a quello previsto in via generale dall’articolo 35-bis dell’ordinamento penitenziario: quindici giorni. Resta salva la possibilità per il legislatore di individuare un termine diverso, a patto che sia compatibile con la tutela effettiva del diritto di difesa.


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Giustizia riparativa, nessuna nullità se manca l’avviso in appello

Non basta l’assenza di un avviso sull’opzione della giustizia riparativa per far dichiarare nullo l’atto di citazione in appello. A precisarlo è stata la Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 20308 del 2025, intervenuta su un tema reso centrale dalla recente riforma Cartabia: il diritto dell’imputato a conoscere la possibilità di intraprendere percorsi alternativi al processo tradizionale.

Nel caso concreto, la difesa di un imputato aveva eccepito la nullità generale della citazione a giudizio in appello, contestando l’omissione dell’avviso previsto dalla normativa di riforma sulla giustizia riparativa. La Corte d’Appello aveva respinto la richiesta e ora anche la Suprema Corte conferma l’impostazione, chiarendo i confini della questione.

Secondo i giudici di legittimità, la mancata informativa costituisce una semplice violazione di un obbligo di comunicazione, privo di effetti invalidanti sull’atto processuale. Non si configura, infatti, come un vizio che leda i diritti di difesa dell’imputato o comprometta il regolare svolgimento del contraddittorio.

La giustizia riparativa, sottolinea la Corte, è un percorso parallelo al processo penale, attivabile in qualsiasi momento, anche d’ufficio da parte del giudice, fino alla fase esecutiva della pena. Per questo motivo, la sua mancata segnalazione formale all’imputato non può costituire motivo di nullità, né generale né speciale, poiché quest’ultima può derivare solo da una previsione esplicita del legislatore.

La pronuncia ribadisce così uno dei principi cardine introdotti dalla riforma: l’accesso ai programmi riparativi resta sempre possibile, indipendentemente dalle eventuali omissioni procedurali, e il processo non può diventare un ostacolo a percorsi di mediazione o ricomposizione tra autore del reato e vittima.


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Recidiva semplice, la Consulta: l’aumento di pena non potrà più essere automatico

Nuovo intervento della Corte Costituzionale sul sistema sanzionatorio penale. Con la sentenza n. 74 depositata il 3 giugno 2025, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità di una norma che, in caso di concorso tra una recidiva semplice e un’aggravante a effetto speciale, prevedeva l’aumento automatico di un terzo della pena.

A finire sotto la lente è stato l’articolo 63, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui non consentiva al giudice di modulare l’aumento, imponendolo in misura fissa. Una rigidità che, secondo la Corte, violava il principio di ragionevolezza e proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Firenze durante un processo per minaccia aggravata commessa con armi. All’imputato, già recidivo semplice, era stata contestata anche l’aggravante a effetto speciale prevista per l’uso di armi. In base alla norma ora cancellata, la pena – già aumentata per l’aggravante – avrebbe dovuto essere automaticamente incrementata di un terzo per effetto della recidiva.

I giudici costituzionali hanno ricordato che, sebbene al legislatore spetti ampia discrezionalità nella scelta delle pene e nella definizione delle aggravanti, tale potere incontra il limite della coerenza logica e della proporzione tra sanzione e gravità del fatto. In questo caso, la disciplina censurata risultava irragionevole perché più severa proprio nelle ipotesi meno gravi.

Come ha evidenziato la Corte, infatti, mentre nelle recidive più gravi – qualificate e a effetto speciale – il giudice può scegliere se aumentare la pena e di quanto (fino alla metà), nel caso della recidiva semplice l’aumento di un terzo era obbligatorio, senza margine di valutazione. Una disparità che finiva per penalizzare situazioni oggettivamente meno gravi rispetto a quelle più pesanti, lasciando il giudice privo di strumenti per graduare la sanzione in base al caso concreto.

La Consulta ha quindi sottolineato la necessità di rispettare il principio di individualizzazione della pena, secondo cui la sanzione deve essere commisurata non solo alla gravità oggettiva del fatto, ma anche alla personalità e alla pericolosità del reo.


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Docenti-avvocati contro il Ministero: la Cassazione fa chiarezza

È legittimo che un insegnante della scuola pubblica, abilitato alla professione forense, difenda in giudizio clienti in cause contro il Ministero dell’Istruzione? A sciogliere il nodo è intervenuta la Corte di Cassazione con una recente ordinanza, destinata a diventare un punto di riferimento per il personale scolastico che esercita una libera professione.

La vicenda trae origine dal caso di un docente, anche avvocato, sanzionato con dieci giorni di sospensione per aver patrocinato controversie contro l’Amministrazione scolastica. Sebbene il dirigente scolastico fosse al corrente della sua attività legale e non avesse revocato l’autorizzazione concessa, aveva ritenuto la condotta incompatibile con il ruolo pubblico ricoperto. La Corte d’Appello di Bologna aveva già annullato il provvedimento disciplinare e ora la Cassazione conferma quella decisione, precisando i confini normativi della questione.

A disciplinare il rapporto tra pubblico impiego e libera professione è l’articolo 508 del D.lgs. n. 297/1994, che consente ai docenti di esercitare attività compatibili con l’orario scolastico, previo assenso del dirigente. Il testo normativo, tuttavia, non prevede limiti specifici sulle controparti processuali che l’avvocato-dipendente può affrontare.

Secondo la Suprema Corte, un’autorizzazione rilasciata senza restrizioni esplicite consente anche di patrocinare cause contro l’Amministrazione. Né la semplice richiesta di chiarimenti, né eventuali riserve non formalizzate, possono modificare il contenuto dell’autorizzazione già concessa. Tuttavia, viene ribadito un principio cardine del pubblico impiego: resta sempre vietata ogni attività che generi un conflitto di interessi.

La normativa di settore, infatti, è netta: l’articolo 53 del D.lgs. 165/2001 e l’articolo 60 del D.P.R. 3/1957 impongono ai dipendenti pubblici di astenersi da incarichi o attività che possano compromettere l’imparzialità o il buon andamento dell’amministrazione. Anche l’articolo 98 della Costituzione richiama il principio di lealtà verso l’ente pubblico di appartenenza.

La sentenza non solo riafferma il diritto dei docenti a svolgere la professione legale, ma offre indicazioni concrete alle amministrazioni scolastiche. Sarà loro compito predisporre autorizzazioni puntuali, indicando con chiarezza eventuali limiti e monitorando le attività esterne dei propri dipendenti. In caso di incompatibilità o situazioni a rischio, dovranno intervenire formalmente, modificando o revocando le autorizzazioni, piuttosto che ricorrere a sanzioni basate su presupposti impliciti.


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Al via dal 1° giugno la nuova piattaforma Formweb per il deposito degli atti nel PAT

Prenderà il via il prossimo 1° giugno la graduale introduzione di Formweb, la nuova piattaforma per il deposito telematico degli atti nel Processo Amministrativo Telematico (PAT). È quanto stabilito dal decreto del Segretario generale della Giustizia amministrativa, in attuazione del recente decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 9 maggio 2025, che ha modificato le regole tecnico-operative del PAT.

La transizione al nuovo sistema avverrà secondo un calendario progressivo che, fino al 31 gennaio 2026, consentirà agli utenti di utilizzare il nuovo canale di deposito Formweb, affiancandolo alle attuali modalità tramite PEC e upload. A partire dal 1° febbraio 2026 il nuovo sistema diventerà pienamente operativo e obbligatorio su tutto il territorio nazionale.

Il calendario prevede l’avvio del servizio il 3 giugno presso i Tribunali amministrativi regionali di Trento, Bologna e Aosta. Seguiranno, il 23 giugno, Napoli e Bolzano; il 14 luglio Ancona, Perugia, Trieste, L’Aquila, Pescara, Parma e Salerno. Dal 1° settembre toccherà al Consiglio di Stato, mentre dal 29 settembre sarà la volta del TAR Lazio, sede di Roma. Dal 20 ottobre il nuovo sistema sarà attivo in altri otto TAR, tra cui Milano e Bari, e al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. Chiuderanno il programma di attivazione, il 17 novembre, Lecce, Genova, Palermo, Catania, Torino, Venezia, Brescia, Firenze e Latina.

Il Segretariato generale ha precisato che l’apertura scaglionata è dettata da esigenze tecniche e potrà essere soggetta a rimodulazioni in base all’andamento delle performance e alle eventuali criticità riscontrate in fase di implementazione.

Leggi qui il documento integrale


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Un’innovazione destinata a lasciare il segno nel panorama giudiziario italiano arriva dal Tribunale di Reggio Emilia, dove, con un decreto firmato il 22 maggio 2025, è stato imposto l’obbligo di utilizzare un software gestionale privato per le procedure di esecuzione immobiliare. Si tratta di “Genius AI”, un sistema basato su intelligenza artificiale generativa, sviluppato da una società già attiva in molti uffici giudiziari italiani.

Il provvedimento, operativo a partire dal 2 giugno, estende l’utilizzo del gestionale anche alle procedure già delegate, coinvolgendo notai, avvocati, commercialisti e professionisti incaricati della gestione delle vendite forzate.

Secondo quanto riportato nel decreto, il software è in grado di automatizzare gran parte delle attività procedurali: dalla predisposizione di atti e documenti conformi alle specifiche ministeriali, alla gestione dei flussi contabili, fino all’assistenza tecnica agli utenti. A rendere il tutto più singolare è la componente AI, che dovrebbe offrire supporto personalizzato e auto-apprendimento basato sull’esperienza quotidiana.

Tuttavia, non mancano i punti critici. Il carattere vincolante della misura, adottata in autonomia da un singolo tribunale senza una preventiva autorizzazione ministeriale, solleva interrogativi sulla legittimità procedurale e sulle implicazioni per la trasparenza del processo civile telematico. Il sistema, infatti, conserva e gestisce dati giudiziari attraverso i server di una società privata, aspetto particolarmente delicato in un ambito dove il trattamento delle informazioni è di norma riservato alle strutture istituzionali.

A suscitare perplessità è anche la rapida entrata in vigore del decreto, praticamente immediata, e la possibilità — al momento non chiarita — di costi occulti per i professionisti coinvolti, nonostante le rassicurazioni di gratuità operative.

L’iniziativa reggiana, se da un lato evidenzia il potenziale dell’intelligenza artificiale nella semplificazione delle procedure giudiziarie, dall’altro richiama la necessità di regolamentazioni chiare e condivise, specialmente in una fase in cui il quadro normativo europeo sull’IA è ancora in fase di definizione.


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