atto in pdf da scansione è valido ai fini della notifica

L’atto in pdf da scansione è valido ai fini della notifica

La terza sezione civile della Corte di Cassazione ha emesso una sentenza, la 532/2020, particolarmente interessante ai fini del processo telematico poiché indica che un atto in pdf da scansione è valido ai fini della notifica.

Ricordiamo che un pdf da scansione è cosa ben diversa da un pdf creato a partire da un documento nativo digitale.

PCT E ATTI NATIVI DIGITALI

Uno dei pilastri del processo telematico è l’invio di atti che siano documenti nativi digitali e non riproposizioni digitali di documenti cartacei.

A spiegare bene il concetto ci pensa l’art.12 comma 1 delle regole tecniche del processo civile telematico, in cui vengono elencate le caratteristiche che gli atti devono rispettare.
Tra queste:

  • – devono essere in formato pdf,
  • – non devono contenere elementi attivi,
  • – non devono essere scansioni, al contrario devono nascere come file di testo,
  • – devono essere firmati digitalmente.

Come si può intuire, nessun atto in pdf da scansione è valido ai fini della notifica.
Almeno nella teoria.

COSA HA DETTO LA CASSAZIONE

Il caso in oggetto della sentenza della Cassazione è incentrato su un ricorso per il quale i controricorrenti hanno formulato alcune eccezioni di inammissibilità.

In particolare, questi hanno fatto notare che il ricorso era stato notificato telematicamente mediante PEC, ma l’atto si presentava in formato pdf non firmato digitalmente e frutto di una scansione.
Secondo loro, l’atto non sarebbe stato quindi «conforme ai criteri e alle modalità previsti per il perfezionamento della notificazione telematica, in quanto la firma digitale utile a caratterizzare il formato pdf p7m non può essere apposta su scansioni di documenti analogici, ma solo su file word convertito in pdf attraverso la procedura di conversione funzionale all’apposizione di firma digitale prima dell’apposizione della firma digitale».

Secondo la Cassazione, invece, tale eccezione è infondata.
La stessa Corte si era pronunciata in maniera simile con la sentenza n. 13857 del 18/06/2014, stabilendo che «lo scopo della notificazione, in qualsiasi forma essa avvenga, è portare l’atto da notificare a conoscenza del destinatario, non certo consentire a quest’ultimo il “copia e incolla”, sicché la conoscibilità dell’atto notificato costituisce il solo parametro in base al quale valutare il raggiungimento dello scopo (Cass. 16/02/2018, n. 3805); in aggiunta alla considerazione generale che il processo telematico deve essere svincolato da quei formalismi fini a se stessi che, in quanto tali, impediscono a detto processo di realizzare la funzione di mezzo per la tutela dei diritti (in ossequio al disposto dell’art. 111 Cost.) (Cass. 15/03/2018, n. 18324).»

PERCHÈ L’ATTO IN PDF DA SCANSIONE È VALIDO AI FINI DELLA NOTIFICA

In altre parole, la sentenza della Cassazione dice questo: tra il rispetto delle regole formali e il principio del raggiungimento dello scopo della notifica, cioè portare l’atto a conoscenza del destinatario, è quest’ultimo a prevalere

Vi alleghiamo il testo originale della sentenza 532/2020.

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Esame per diventare avvocato: ammessi i codici commentati

Manca ancora molto a dicembre, mese durante il quale si terranno le prove d’esame per diventare avvocato. Eppure, l’argomento è più vivo che mai grazie ad alcune novità.

A essere sinceri, più che di novità si tratta di non-novità.

ESAME PER DIVENTARE AVVOCATO: LA RIFORMA CHE NON ARRIVA MAI

Lo avrete già letto.

Tra le tante cose, il Decreto Milleproroghe, D.L. n. 162/2019, va a toccare anche la riforma dell’esame per diventare avvocato, stabilendo una nuova proroga alla sua entrata in vigore.

Nello specifico, il decreto modifica l’art.49, comma 1 della legge 247/2012, spostando l’applicazione delle nuove regole in avanti da 7 a 9 anni dall’entrata in vigore della medesima legge.

Ciò significa che per altri due anni gli esaminandi potranno affrontare le prove scritte di diritto civile e penale, nonché la redazione dell’atto giudiziario a scelta, utilizzando i codici commentati con la giurisprudenza.

COSA PREVEDE LA RIFORMA

La legge 247/2012 prevede diverse modifiche alle modalità di esame di abilitazione forense.
Le principali sono:

-il divieto di utilizzare i codici commentati,
-la riduzione a 6 ore della prova d’esame,
-l’ottenimento dell’idoneità in tutte e tre le prove scritte (parere civile, parere penale, atto civile-penale-amministrativo)
-l’obbligatorietà all’esame orale di civile, penale, procedura civile e procedura penale.

MEGLIO COSÌ? FORSE NO

L’idea di affrontare l’esame per diventare avvocato avvalendosi ancora dei codici commentati sicuramente allevia le pene degli esaminandi più ansiosi, ma c’è chi fa notare come la mancata entrata in vigore della riforma possa, in realtà, giocare a sfavore di tutta la categoria.

Sulla pagina Facebook ufficiale, il Coordinamento Giovani Giuristi Italiani fa notare che questo continuo slittamento (4 proroghe finora) porta con sé alcune conseguenze negative:

  • la disarmonia tra i corsi di preparazione, che da alcuni anni sono ormai costruiti tenendo conto delle nuove modalità d’esame, e l’esame stesso che invece continua a essere organizzato nel vecchio modo;
  • la necessità di continuare ad acquistare codici commentati, i cui prezzi non sono certo irrisori, a tutto favore delle case editrici.

Oltre a ciò, i Giovani Giuristi fanno anche notare l’assenza di riforme strutturali per l’accesso e il rilancio della professione forense che servirebbero a far fronte ai problemi della professione, come i redditi in calo, le difficoltà del ricambio generazionale, la conciliazione vita-lavoro, la condizione del mercato e l’efficienza del sistema giudiziario.

 

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Il principio di soccombenza anche nel penale: la pdl Costa

La proposta di legge Costa, al vaglio della commissione giustizia della Camera, implementa il principio della soccombenza nel processo penale.

Tale principio prevede che, in presenza di determinate condizioni, sia lo Stato a coprire le spese legali e di giustizia se il giudizio si conclude con il proscioglimento o l’assoluzione dell’imputato con la formula più ampiamente liberatoria.

Al momento, nel penale il principio della soccombenza non è presente e le spese legali sono a carico dell’imputato anche quando questo viene prosciolto o assolto con la formula più ampiamente liberatoria.

Ciò significa che persino quando il giudizio viene portato avanti senza una valida base probatoria, quando sia stata dimostrata estraneità dell’imputato o quando il fatto non ha alcuna rilevanza penale, è l’imputato a dover pagare le spese.

La proposta di legge Costa e l’introduzione del principio della soccombenza hanno dunque come obbiettivo garantire una maggiore tutela di quei soggetti che vengono erroneamente trascinati in giudizio (con tutto ciò che comporta).

IL PRINCIPIO DELLA SOCCOMBENZA. COSA CAMBIA.

La proposta va a modificare l’art.74 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (d.P.R. 115/2002), che recita così:

«1. È assicurato il patrocinio nel processo penale per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

2. E’, altresì, assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate.»

La riforma aggiungerebbe un nuovo comma, il 2 bis, in cui viene stabilito quanto segue:

«In ogni caso, se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, l’imputato ha diritto di ripetere dallo Stato tutte le spese sostenute per il giudizio».

Nel testo della proposta si invita il Governo ad adottare, entro 3 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi che disciplinino le condizioni e le forme di riconoscimento e di esercizio di quanto previsto nel nuovo comma, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a) garantire modalità celeri e trasparenti per ottenere la ripetizione delle spese sostenute per il giudizio;
b) prevedere idonee modalità per assicurare anche il pagamento dell’onorario e delle spese del difensore.

Non è la prima volta che si tenta di introdurre il principio della soccombenza anche nel penale.
Lo stesso CNF, per anni, ha spinto in una direzione simile.
La proposta del Consiglio prevede la detraibilità al 19% delle «spese legali sostenute in un procedimento giudiziale ovvero per l’assistenza stragiudiziale, certificate dalla fattura del difensore».
Nel penale la detraibilità diventerebbe integrale poiché «l’attività difensiva ha un costo che ricade sempre sull’indagato e/o imputato, sebbene l’assistenza tecnica sia obbligatoria e non gratuita, salvo l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato»

Qui trovate il testo completo della proposta di legge Costa n. 2186.

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notificazione non viene consegnata perché la casella pec è piena

Quando una notificazione non viene consegnata perché la casella pec è piena

La mail PEC è uno strumento indispensabile per la gestione delle pratiche del processo telematico. È infatti attraverso la casella di posta certificata che è possibile esaminare  le ricevute di deposito.
Oltre a ciò, la PEC è dotata di valore legale esattamente come una raccomandata ed è pertanto il mezzo ideale per comunicazioni ufficiali e rilevanti.

notificazione non viene consegnata perché la casella pec è piena
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Cosa succede quando una notificazione non viene consegnata perché la casella pec è piena? Può considerarsi perfezionata o no?

COSA SUCCEDE SE LA NOTIFICAZIONE NON VIENE CONSEGNATA PERCHÉ LA CASELLA PEC È PIENA

La Cassazione, con l’ordinanza 2755/2020, offre diverse interpretazioni.
Il riferimento è un caso di ricorso notificato via PEC accettato dal sistema ma non consegnato a causa della casella di destinazione piena.

Ecco dunque le 3 possibilità prospettate dalla Cassazione.

1) La notificazione non è perfezionata.
Se il primo tentativo non va a buon fine è obbligo del notificante procedere nuovamente nel rispetto di quanto indicato negli articoli 137 e seguenti cpc. Il secondo tentativo deve essere eseguito in un tempo contenuto tenendo conto del principio della ragionevole durata del processo.

2) La notificazione è perfezionata.
La mancata consegna della PEC è da imputarsi al titolare delle casella, ma la consegna è perfezionata perché la mail è entrata nella casella.
Infatti, il titolare di una casella mail PEC non è tenuto solo a leggere i messaggi che riceve ma anche a mantenere la casella funzionante. Lasciarla piena può essere interpretato come volontà di non ricevere notifiche via PEC, in modo simile a a quanto indicato nell’art 138 comma 2 cpc.
Se avete una casella PEC con Servicematica, vi invitiamo a visionare la nostre guide PEC.

3) Ordine di rinnovo giudiziale.
La notifica non è andata a buon fine e il giudice può disporre il rinnovo della notificazione sempre nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo.

Vi alleghiamo il testo originale dell’ordinanza 2755/2020.

LE PEC NEL DEPOSITO TELEMATICO

Ci teniamo a concludere questo articolo ricordandovi che la procedura di deposito di un atto tramite PCT prevede la generazione di 4 mail PEC, dette anche ricevute, che contengono informazioni molto importanti per il buon esito dell’iter.

– la prima PEC attesta che l’atto è stato inviato ed accettato dal sistema;

– la seconda PEC certifica che l’invio è stato consegnato nella casella PEC del destinatario;

– la terza PEC indica l’esito dei controlli automatici effettuati dal sistema. Potete approfondire il tema leggendo l’articolo dedicato agli errori terza pec.

– la quarta PEC attesta l’esito del controllo da parte del Cancelliere.

[Fonte: Studio Cataldi]

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termine di prescrizione dei contributi

Facciamo chiarezza sul termine di prescrizione dei contributi da versare a Cassa Forense.

Riportiamo un utile informazione condivisa dall’Avv. Marcello Bella e pubblicata sul sito ufficiale di Cassa Forense a proposito del termine di prescrizione dei contributi da versare alla Cassa stessa.

Secondo molte fonti, il termine di prescrizione è fissato a 5 anni.

Questa convinzione nasce da un’errata interpretazione della sentenza n. 13639 del 21 maggio 2019 emessa dalla Corte di Cassazione. Questa sentenza riferisce però ai contributi previdenziali relativi al periodo tra il 1989 e il 2000, anni per i quali effettivamente si applica il termine quinquennale.

Per comprendere quale sia il termine di prescrizione dei contributi da versare a Cassa Forense oltre l’anno 2000 dobbiamo innanzitutto considerare l’art. 66 della L. n. 247/2012.
L’articolo recita: “la disciplina in materia di prescrizione dei contributi previdenziali di cui all’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335, non si applica alle contribuzioni dovute alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.

Dopo l’entrata in vigore dell’art. 66 della L. n. 247/2012 la Corte di Cassazione ha subito emesso la sentenza 6729/2013 nella quale indica che: “la nuova disciplina di cui all’art. 66 legge n. 247 del 2012 in materia di prescrizione dei contributi previdenziali dovuti alla Cassa Forense si applica unicamente per il futuro nonché alle prescrizioni non ancora maturate secondo il regime precedente” .

In sostanza, a regolare la prescrizione è quindi (di nuovo) l’art. 19 della legge n. 576/1980 che pone il termine a 10 anni per i contributi e ogni relativo accessorio dovuti dagli iscritti a Cassa Forense.

La giurisprudenza successiva alla sentenza si è allineata a tale principio. 

 

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dati personali facebook tar lazio

Facebook e la sentenza sul valore commerciale dei dati personali

A metà gennaio il TAR del Lazio ha emesso una sentenza che in molti definiscono storica poiché, per la prima volta, viene ufficialmente riconosciuto che i dati personali hanno un valore commerciale.

FACEBOOK NON È GRATIS: SI PAGA IN DATI PERSONALI

A fine 2018 AGCM accusa Facebook di indurre in modo ingannevole gli utenti a registrarsi, senza informarli “adeguatamente e immediatamente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati da loro forniti, e, più in generale, delle finalità remunerative che sottendono la fornitura del servizio di social network, enfatizzandone la sola gratuità”.
Facebook è stata inoltre accusata di esercitare un “indebito condizionamento nei confronti dei consumatori” i cui dati vengono trasmessi “senza espresso e preventivo consenso […] da Facebook a siti web e app di terzi, e viceversa, per finalità commerciali“.

Queste condotte si pongono in contrasto con le disposizioni indicate nel Codice di Consumo articoli 21, 22, 24 e 25

Risultato: due multe per un totale di 10 milioni di euro

Il TAR ha riconosciuto la fondatezza della prima accusa, ma ha rigettato la seconda, considerandola priva di fondamento poiché Facebook chiede un consenso all’uso dei dati in fase di registrazione.

PERCHÈ LA SENTENZA DEL TAR DEL LAZIO È IMPORTANTE

Avete mai sentito l’espressione “se non lo paghi, il prodotto sei tu”?

Facebook è l’esempio più lampante di servizio pagato non in denaro, ma in informazioni personali.

Quando ci iscriviamo, non dobbiamo versare alcuna iscrizione, ma tutti i nostri dati e i contenuti che condividiamo vengono raccolti e ‘rivenduti’ alle aziende che decidono di fare pubblicità tramite il social. Pubblicità che, proprio grazie alle informazioni che abbiamo innocentemente condiviso, è altamente targettizzata e, quindi, più efficace. 

La sentenza del TAR del Lazio riconosce che i dati possono “costituire un asset disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di controprestazione in senso tecnico di un contratto”.

La sentenza porta aria di cambiamento in tutte quelle aziende che, soprattutto nel mercato digitale, fanno massiccio uso di dati degli utenti.
Lo fa in duplice modo.

Da un lato, introduce l’idea che i dati personali (non tutti, ma alcune categorie) possono essere sfruttati commercialmente e che, di conseguenza, richiedano un compenso.

Dall’altro, avverte le aziende e i professionisti intenzionati a utilizzare i dati per finalità commerciali della necessità di informare in modo chiaro gli utenti sull’uso dei loro dati e delle informazioni che condividono.

C’è chi, come Guido Scorza, avvocato esperto di diritti digitali, non vede tanto positivamente la sentenza: «l’affermazione di un principio forte che minaccia di erodere la natura di diritto fondamentale della privacy e far passare l’idea che la nostra identità personale sia – o sia anche – una merce di scambio eguale a ogni altra, barattabile sul mercato e utilizzabile per fare shopping. Guai se questo principio passasse davvero e passasse in questi termini. A quel punto non avrebbe vinto nessuno ma avremmo perso tutti». Aggiunge che «si è persa una bella occasione per dire di no alla “società dell’accetta e continua” […] servono regole nuove che non consentano più equivoci almeno sui diritti fondamentali di un utente, di un consumatore, di un cittadino.»

Facebook ha eliminato la frase “ è gratis e lo sarà per sempre dalla home page ma non ha pubblicato alcuna dichiarazione rettificata e dunque, secondo l’AGCM continua a non informare adeguatamente gli utenti sulla raccolta e l’utilizzo a scopo commerciale dei dati.

Nel frattempo, anche la Corte d’Appello di Berlino ha sentenziato che i termini di utilizzo e le impostazioni privacy di Facebook sono contrarie alle norme di tutela dei dati dei consumatori.
Tra le varie violazioni, l’utilizzo da parte del social delle foto degli utenti a scopi commerciali, l’invio di dati verso li Usa, il consenso anticipato su eventuali modifiche al regolamento sui trattamento dei dati personali e la presenza di spunte preselezionate nella sezione privacy che permettono altre attività di raccolta dati senza un esplicito consenso da parte dell’utente.

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Davanti alla richiesta crescente di informazioni sui suoi utenti, Google ha deciso che le agenzie governative statunitensi e le forze dell’ordine dovranno pagare per ottenere dati.

Del resto, l’azienda di Mountain View raccoglie una mole enorme di dati e lo fa costantemente.
È quindi facile intuire come i suoi database possano risultare utilissimi e richiestissimi dalle forze dell’ordine di tutto il mondo. E infatti, nei primi 6 mesi del 2019 Google ha ricevuto più di 75000 richieste di dati relativi a quasi 165000 account localizzati in tutto il mondo. Di queste richieste, 1 su 3 proveniva dagli USA.

A volte si è trattato di accedere alle email, di ottenere informazioni sulla localizzazione o gli spostamenti; altre volte di visualizzare la cronologia delle ricerche effettuate da sospetti sul motore di ricerca.

Le commissioni applicate variano in base alla finalità dell’operazione: 45,00 $ per una citazione, 60,00 $ per una intercettazione, 245,00 $ per un mandato di ricerca. Qui il documento ufficiale emesso da Google

PRECEDENTI ED EFFETTI

Non è la prima volta che Google applica delle commissioni in caso di richieste di dati con finalità legali – lo aveva già fatto nel 2008 -, ora però dovrebbe diventare una procedura standard.

La legge federale consente alle aziende di addebitare commissioni di questo genere e nel mondo delle telecomunicazioni realtà come COX e Verizon già lo fanno da anni.

Nella Silicon Valley, invece, molti hanno preferito non applicarle (finora). Un po’ per la difficoltà di gestione su larga scala, un po’ per non dare l’impressione di speculare su operazioni di giustizia.

Ma è davvero così? Ora che le forze dell’ordine dovranno pagare per ottenere dati, Google si arricchirà a scapito della giustizia? Non proprio: a quanto pare la quantità di denaro derivante da tali commissioni inciderebbe in maniera irrilevante sui ricavi dell’azienda.

È però anche vero che le nuove entrate potrebbero essere utili a coprire i costi insiti nel soddisfare la crescente richiesta di dati, soprattutto tenendo conto che lo sviluppo tecnologico generale rende possibili indagini più precise e quindi più laboriose.

Una delle richieste più innovative è impegnative riguarda Sensorvaul, un enorme database che permette di individuare sospetti e testimoni utilizzando dati relativi alla loro posizione raccolti tramite i loro dispositivi. I dispositivi da controllare possono essere anche centinaia e i dati richiedono una revisione legale più ampia rispetto ad altre tipologie di informazioni.

Le commissioni avrebbero poi un effetto secondario non indifferente in termini di privacy, poiché disincentiverebbero l’eccessiva sorveglianza da parte del governo

Nel caso specifico degli Stati Uniti, Gary Ernsdorff, procuratore capo nello Stato di Washington, solleva la preoccupazione che le commissioni applicate da Google possano spingere altre aziende a fare altrettanto, ostacolando le operazioni delle forze dell’ordine che hanno a disposizione budget limitati.
Il procuratore riconosce però che le commissioni potrebbero alleggerire la mole di lavoro per Google riducendo i tempi di attesa dei risultati che, negli ultimi anni, si erano dilatati.

Va fatta una precisazione: Google non ha intenzione di applicare le commissioni nel caso in cui le investigazioni riguardino la sicurezza di bambini o emergenze potenzialmente letali.

[Fonte: New York Times]

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Giustizia predittiva

Giustizia predittiva e il confine tra sicurezza e privacy

Prima di parlare di Giustizia Predittiva vogliamo condividere con voi la definizione di Intelligenza Artificiale data dalla Commissione Europea.
L’AI comprende quei «sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando il proprio ambiente e compiendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi. I sistemi basati sull’AI possono consistere solo in software che agiscono nel mondo virtuale (ad esempio, assistenti vocali, software per l’analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale), oppure incorporare l’AI in dispositivi hardware (ad esempio, in robot avanzati, auto a guida autonoma, droni o applicazioni dell’Internet delle Cose)».

Con Giustizia Predittiva possiamo intendere l’uso di tecnologie e, anche, di Intelligenza Artificiale per calcolare la probabilità di un esito giudiziario o per giungere a un provvedimento.

Collegata alla Giustizia Predittiva, è la Polizia Predittiva, ovvero l’insieme di attività, metodi e strumenti che consentono di predire chi può commettere un reato, dove e quando, al fine di prevenire il reato stesso.

Per riuscirci è necessario raccogliere ed elaborare una grande mole di dati statistici, compito possibile solo appoggiandosi a tecnologie che ne sono in grado.
Questi dati spaziano da statistiche vere e proprie ad analisi delle peculiarità dei luoghi o delle condizioni atmosferiche, fino alle caratteristiche dei potenziali criminali: età, etnia, condizioni economiche, precedenti, inclinazione alle recidive e persino tratti somatici.

L’uso dellIntelligenza Artificiale nella giustizia sta diventando, quindi, sempre più massiccio e apre scenari tanto interessanti quanto inquietanti: potrebbero le autorità decidere di abbandonare la strada della prevenzione dei fattori criminogeni (sociali, ambientali, individuali, economici, etc) per affidarsiai soli algoritmi?
Ma, soprattutto, se da un lato le nuove tecnologie permetteranno più sicurezza, più velocità, meno errori, dall’altro, quali sono le implicazioni per le libertà e la privacy degli individui?

È proprio questo ultimo punto quello più difficile da gestire.

Un tentativo di mediazione tra sicurezza e libertà è la Carta Etica Europea emessa dalla Cepej, European Commission for the Efficiency of Justice, che si occupa di monitorare l’efficienza della giustizia all’interno dei paesi membri del Consiglio d’Europa.

Nella Carta sono elencati i 5 principi di riferimento che i soggetti pubblici e privati responsabili dello sviluppo di strumenti e servizi di intelligenza artificiali applicabili alla giustizia dovrebbero seguire:

  • il rispetto dei diritti fondamentali 
  • la non discriminazione
  • qualità e sicurezza 
  • trasparenza, imparzialità ed equità 
  • il concetto di “sotto il controllo dell’utente”, ovvero garantire che l’utente possa agire in modo informato e sia in controllo delle sue scelte.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E GIUSTIZIA NEL MONDO

In Estonia la risoluzione delle controversie minori (fino a 7 mila euro di valore) è stata affidata a giudici robot per velocizzare lo smaltimento degli arretrati. Lo stato ambisce ad automatizzare altre 50 attività pubbliche entro il 2020.

Nel frattempo, negli Stati Uniti l’intelligenza artificiale ha già trovato applicazione in materia di giustizia predittiva penale con l’utilizzo di un algoritmo, chiamato Compas, che permette di valutare il rischio di recidiva di un imputato partendo dalle risposte date a un questionario composto da domande su vita sociale, lavorativa, istruzione, opinioni personali, uso di stupefacenti, precedenti penali, ecc.
Le Corti utilizzano l’algoritmo per quantificare le pene, ma il sistema è stato contestato perché considerato discriminatorio.

RICONOSCIMENTO FACCIALE E GIUSTIZIA PREDITTIVA

Una delle tecnologie più controverse applicate alla giustizia è quella del riconoscimento facciale.

Grazie all’analisi e alla comparazione dei tratti fisionomici, il riconoscimento facciale consente di identificare in modo univoco un individuo anche a distanza e senza dover interagire con esso.
Sebbene sia meno costoso di altre tecnologie biometriche, ha dei limiti: funziona solo se il volto è sufficientemente illuminato e a fuoco, mentre le espressioni facciali possono compromettere il risultato.
Con l’uso del 3D e del riconoscimenti termico questi limiti possono essere superati.

USO DEL RICONOSCIMENTO FACCIALE NEL MONDO

Hong Kong

Tutti abbiamo visto al TG le proteste per la democrazia durante il 2019.
Quello che forse molti di noi non sanno è che una delle preoccupazioni principali della popolazione è la minaccia alla libertà portata avanti dai sistemi di sorveglianza.
Tali sistemi si basano spesso sul riconoscimento facciale, portato avanti grazie a lampioni intelligenti che, con le loro videocamere, permettono alle autorità di controllare i cittadini, con l’intento poi di trasferire le informazioni alla Cina

Cina

Grazie alla mancanza di tutele della privacy, la Cina si presenta come il paese perfetto per testare nuove tecnologie di sorveglianza.
Un caso emblematico è la provincia dello Xinjiang, territorio abitato da popolazioni musulmane e, pertanto, soggetta a politiche di omologazione e a un forte controllo.
A questo, va aggiunto che le aziende cinesi impegnate nello sviluppo di software per il riconoscimento facciale sono in forte crescita, pronte a vendere i propri sistemi anche all’estero (con quali garanzie di sicurezza per i cittadini di questi paesi, non si sa).

Stati Uniti

Secondo il rapporto di “Fight for the Future” le forze dell’ordine fanno uso di software per la raccolta di innumerevoli foto di cittadini, spesso a loro insaputa o senza il loro consenso.
A Baltimora la polizia ha utilizzato il riconoscimento facciale per identificare (e fermare) alcuni protestanti. In molti aeroporti è già in uso il riconoscimento facciale per controllare i passeggeri dei voli internazionali. Software simili sono usati tramite body cam (fotocamere agganciate alle divise) alla frontiera con il Messico, dove la pressione migratoria si fa sentire.

Europa

È notizia di pochi giorni fa che l’Unione Europea sta considerando di bandire il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici per 5 anni, finché non saranno istituite regole più efficaci nel gestire la tutela della privacy.

Nel frattempo, la Francia sta per avviare un programma di identificazione basato sul riconoscimento facciale per, a detta del governo, fornire ai cittadini un’identità digitale sicura.
Il sistema si basa su una app che permetterà di accedere a determinati servizi. Il problema è che non vi è alternativa: chi non passa per il riconoscimento facciale non potrà utilizzarli.

Nel Regno Unito il riconoscimento facciale è un dato di fatto in moltissimi luoghi pubblici, come centri commerciali e musei.

E IN ITALIA?

L’uso dell’Intelligenza Artificiale e di tecnologie innovative applicate alla Giustizia è ancora agli albori nel nostro paese e si concentra soprattutto sulla creazione di database di provvedimenti per facilitare l’individuazione di orientamenti e casistiche.

Andrea Cioffi, sottosegretario al Ministero per lo Sviluppo Economico, è anche il coordinatore del gruppo di esperti nato per redigere le linee guida di una strategia nazionale per l’Intelligenza Artificiale.
A proposito della giustizia predittiva, Cioffi ha dichiarato in un’intervista a
Altalex che  «Non sono maturi i tempi, a mio avviso. Ci sono ancora questioni tecnologiche da affrontare: l’esperienza (ndr: si riferisce a Compas) ci ha già insegnato che ci sono gravi ricadute sul principio di uguaglianza. Per fortuna, il sistema italiano è di civil law. Certo, l’AI potrebbe essere utile a sburocratizzare la giustizia, ma è centrale il trattamento del dato giudiziario. Il dato giudiziario deve essere indicizzato e chi lo fornisce dovrebbe seguire standard condivisi e finalizzati»

Trovare un’equilibrio tra sicurezza e privacy, tra tecnologie e diritti, rimarrà dunque una questione aperta ancora per molto tempo.


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pagamenti contributi

Scadenze dei pagamenti dei contributi obbligatori 2020

Riportiamo le scadenze dei pagamenti contributi obbligatori 2020 come segnalati nel sito ufficiale di Cassa Forense.
Quelli indicati sono i termini ultimi.

28 febbraio 2020

– pagamento della 1ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio dovuto per l’anno 2020.

30 aprile 2020

– pagamento della 2ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio dovuto per l’anno 2020.

30 giugno 2020

– pagamento della 3ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio dovuto per l’anno 2020.

31 luglio 2020

– pagamento della 1ª rata dei contributi obbligatori soggettivo e integrativo dovuti in autoliquidazione per l’anno 2019;
mod. 5/2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati.

30 settembre 2020

-pagamento della 4ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio e dell’intero contributo di maternità, dovuti per l’anno 2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati;
– invio telematico del mod. 5/2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati.

2 novembre 2020

Emissione straordinaria bollettini M.Av. 31 ottobre 2020 per:

– pagamento della contribuzione minima obbligatoria dovuta dai neo iscritti nell’anno;
– pagamento dei piani rateali concessi per accertamenti relativi a procedure sanzionatorie;
– pagamento dei piani rateali relativi a istituti facoltativi (artt. 3, 4 e 5 del Regolamento di attuazione dell’art. 21, commi 8 e 9, della L. n. 247/2012).

31 dicembre 2020

– pagamento della 2ª rata a saldo dei contributi obbligatori soggettivo e integrativo dovuti in autoliquidazione per l’anno 2019;
mod. 5/2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati.

contributi obbligatori

SCADENZA PAGAMENTI CONTRIBUTI VOLONTARI/FACOLTATIVI ANNO 2020

Oltre alle scadenze dei pagamenti contributi obbligatori 2020, riportiamo anche il termine ultimo per i pagamenti contributi volontari e facoltativi.

31 dicembre 2020

– pagamento VOLONTARIO del contributo modulare;
– pagamento FACOLTATIVO dell’integrazione del contributo minimo soggettivo per il riconoscimento, ai soggetti legittimati, dell’intera annualità previdenziale.

 

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laureati in giurisprudenza

Sempre meno laureati in giurisprudenza. Che succede?

Cari Avvocati, non starete mica diventando una specie in via d’estinzione?

Anvur, agenzia pubblicitaria controllata dal Miur, ha condotto un’indagine i cui risultati dicono questo: in poco più di 10 anni, dal 2006 al 2018, gli iscritti alle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Giuridiche sono quasi dimezzati, da 29.000 a 18.000.
Nel 2008/09 gli immatricolati a queste facoltà erano il 10,5% del totale. Oggi sono il 6,9%.

Cosa sta succedendo?

Semplice: laurearsi in Giurisprudenza non è più così attraente.

Il perché dipende da soprattutto da 2 fattori:

  1. il percorso di studio.
    Strutturato in un unico ciclo di 5 anni e, forse, poco adeguato a rispondere alle nuove esigenze: niente inglese, niente informatica, specializzazioni nelle nuove frontiere del diritto solo una volta giunti al master. Tutto ciò si traduce in una mancanza di competenze subito spendibili sul mercato del lavoro. E gli studenti ne sono consapevoli;
  2. gli sbocchi lavorativi.
    L’entrata nel mercato del lavoro dei laureati in giurisprudenza avviene tardi: il primo impiego arriva a 22,5 mesi dalla laurea, il doppio del tempo rispetto agli altri laureati di secondo livello.
    Questo ritardo dipende soprattutto dal percorso di abilitazione che richiede 18 mesi di praticantato (non sempre sostenibili durante gli studi) e, poi, l’esame.

Secondo un report di AlmaLaurea per il Sole 24 Ore del Lunedì,  i laureati di secondo livello del 2013 che a cinque anni dal titolo hanno dichiarato di svolgere la professione sono prevalentemente donne (59,0%) e vengono da famiglie di laureati (38,5% contro il 30,6% complessivo).

I laureati in giurisprudenza lavorano prevalentemente nel privato (98,9% rispetto al 74,2%) o come liberi professionisti (89,3% anziché 21,1%), soprattutto nella consulenza legale.

SOLUZIONI?

Prima di tutto, rinnovare il percorso di studi dando maggiore spazio alle competenze richieste dal mercato.

Antonio De Angelis, presidente dei giovani avvocati di Aiga, si esprime così: «si potrebbero rendere facoltativi alcuni esami “storici”, come istituzioni di diritto romano o filosofia del diritto per lasciar posto a temi come l’inglese legale o, più urgente di tutti, il diritto delle nuove tecnologie».

Un’altro cambiamento che sarebbe importante portare avanti, solo a fronte delle migliorie al percorso di studi, riguarda la percezione della spendibilità del proprio titolo: chi l’ha detto che il laureato in Giurisprudenza debba solo puntare a diventare avvocato o a partecipare a concorsi pubblici, sbocchi lavorativi ormai saturi?
Perché non puntare su ciò che le grandi aziende chiedono, ovvero esperti in diritto commerciale, societario, marchi e brevetti?

[Fonti: money.it , Sole24Ore]

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