L’udienza per il giuramento del CTU può essere sostituita con una dichiarazione scritta

L’udienza per il giuramento del CTU può essere sostituita con una dichiarazione scritta

Il Decreto Rilancio 34/2020, convertito con modifiche con la Legge 77/2020 ha introdotto un’interessante novità: la possibilità per il giudice di sostituire l’udienza per il giuramento del CTU (art. 193 c.p.c) con una dichiarazione scritta.

Come abbiamo già avuto modo di vedere, nel testo del Decreto recante misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, sono presenti diverse novità che riguardano il processo civile telematico. Alcune di queste si riferiscono all’art.83 del precedente D.L. 18/2020 del 17 marzo.

Le modifiche riguardano i depositi telematici, le note scritte, le udienze da remoto e anche le condotte del consulente tecnico d’ufficio.

L’UDIENZA PER IL GIURAMENTO DEL CTU

Con il Decreto Rilancio l’udienza per il giuramento del CTU può essere sostituita da una dichiarazione firmata digitalmente dallo stesso e allegata al fascicolo telematico.

Ciò può avvenire solo su disposizione del giudice e, esattamente come per l’udienza per il giuramento, prima che il consulente proceda con la propria perizia.

IL FUTURO DEL PROCESSO TELEMATICO

La sostituzione dell’udienza per il giuramento del CTU, così come tutte le altre disposizioni del Decreto Rilancio rimarranno valide fino al 31 ottobre 2020.

È però altamente possibile che le novità introdotte per far fronte all’emergenza sanitaria di questi mesi vengano mantenute anche oltre tale data.

Del resto, gli investimenti fatti e pianificati per la digitalizzazione della Giustizia e della PA non avrebbero molto senso se non portassero a un cambiamento di rotta definitivo.

Certamente, la sperimentazione non è finita e sarà necessario correggere il tiro, ma il futuro dei processi sarà sempre più telematico.

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L’UNCC, Unione Nazionale delle Camere Civili, ha presentato al Ministro Bonafede il proprio piano straordinario per la Giustizia.

Il progetto si compone di 3 punti e ha l’obiettivo di ridurre gli arretrati, l’inefficienza del sistema e i limiti d’accesso alla Giustizia per le fasce più economicamente deboli della società.

I 3 PUNTI DEL PIANO STRAORDINARIO DI UNCC


PUNTO 1) INTERVENTI SUGLI ASPETTI ORGANIZZATIVI ED ORDINAMENTALI

Secondo l’UNCC, l’assunzione di nuovo personale amministrativo e di nuovi magistrati, il miglioramento delle sedi giudiziarie e la digitalizzazione su cui tanto punta Bonafede non sono misure sufficienti.

La riforma della Giustizia civile dovrebbe partire dalla riconfigrazione dell’Ufficio del Processo, fallito a causa della carenza di personale, mezzi e tirocinanti, e della scarsa propensione di molti magistrati a collaborare con questi ultimi.

La soluzione potrebbe essere un reclutamento straordinario di tirocinanti, retribuiti, e un sistema di ricompense per i giudici più collaborativi e più capaci di aumentare il numero di sentenze depositate.

È importante poi riformulare la valutazione del lavoro dei magistrati, considerando anche le loro capacità di organizzazione del lavoro.

PUNTO 2) INTERVENTI SUL PROCESSO

Molti i suggerimenti dell’UNCC. Per esempio:

  • -incentivare il procedimento sommario,
  • -disporre meccanismi per il contenzioso “seriale”,
  • -introdurre la possibilità per i giudici di imporre sanzioni pecuniarie per il ritardato adempimento degli obblighi delle sentenze,
  • -introdurre l’istituto dei danni punitivi,
  • rendere obbligatorio l’arbitrato in alcune materie, a tariffe calmierate,
  • -dare agli arbitri, in specifiche materie, la possibilità di emettere provvedimenti cautelari e/o di urgenza,
  • -favorire la mediazione obbligatoria e la negoziazione assistita attraverso incentivi fiscali,
  • -estendere la negoziazione assistita alla materia del lavoro,
  • -armonizzare la disciplina processuale con quella del processo telematico,
  • -consentire agli avvocati l’accesso telematico ai registri dell’anagrafe del Ministero degli Interni per semplificare i procedimenti di notificazione.

PUNTO 3) INTERVENTI DI INCENTIVO/DISINCENTIVO SUI COMPENSI

L’UNCC spiega che «la leva dei compensi può essere estremamente efficace per incentivare comportamenti virtuosi o, al contrario, disincentivare quelli opportunistici, sia per le parti che per gli avvocati».

Un esempio riguarda il Gratuito Patrocinio, che dovrebbe essere regolarmente e adeguatamente retribuito per evitare che gli avvocati lo rifiutino.

Per rendere poi la Giustizia davvero accessibile, sarebbe opportuno eliminare almeno il raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto dell’impugnazione: mantenerlo significa rendere l’impugnazione un privilegio solo per coloro che possono permetterselo.

Questa è solo una panoramica dei contenuti della proposta inviata a Bonafede. Per approfondire, vi invitiamo a leggere il documento integrale del piano straordinario presentato dall’UNCC.

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È finalmente possibile notificare gli atti via PEC anche alle PA non nel Reginde

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Certamente la vita degli avvocati è diventata più semplice grazie all’art.28 del Decreto Semplificazioni 76/2020 che permette di notificare gli atti via PEC anche alle PA che non hanno mai comunicato il proprio indirizzo al Reginde.

Il Reginde, registro generale degli indirizzi elettronici, non è il solo registro a cui può attingere un avvocato, ma il decreto legge 179/2012 l’ha classificato come unico elenco “ufficiale” di indirizzi PEC delle PA

Al D.L. 179/2012 va dunque fatta risalire la genesi di una delle maggiori perplessità vissute dagli avvocati: come si può notificare telematicamente un atto a una PA se il suo indirizzo PEC non è presente nell’unica fonte ufficiale?

Oltre a tale misura, ricordiamo che il decreto si focalizza sulla semplificazione e la digitalizzazione del sistema Italia e molte altre sono le disposizioni indicate in tal senso. Tra queste, per esempio, l’obbligo di rendere lo SPID l’unico sistema di accesso ai servizi online della pubblica amministrazione.

NOTIFICARE GLI ATTI VIA PEC NON NEL REGINDE: PROBLEMI DI NULLITÀ

Molti avvocati chiedevano da tempo che venisse risolta la questione della validità degli indirizzi PEC tratti da altri registri, primo fra tutti l’IPA, l’indice dei domini digitali della pubblica amministrazione.

A dir la verità, lo stesso decreto legge 179/2012 aveva fissato una data, il 30 novembre 2014, entro la quale le PA avrebbero dovuto comunicare il proprio indirizzo PEC al Reginde. Tante non lo hanno mai fatto, costringendo gli avvocati a recarsi agli sportelli per effettuare le notifiche cartacee anche durante il lockdown.

Ricordiamo che la possibilità di notificare gli atti via PEC anche alle PA che non hanno mai comunicato il proprio indirizzo al Reginde è realtà dal 17 luglio 2020, e che gli atti vanno sempre notificati all’indirizzo primario indicato nel registro di riferimento.

Con tale disposizione si superano i limiti dell’art. 160 c.p.c., secondo il quale una notifica effettuata a mezzo PEC a un indirizzo non indicato nel Reginde deve considerarsi nulla.

Oggi, dunque, la burocrazia e la stessa Giustizia appaiono un po’ più vicine ai modelli di innovazione digitale a cui l’intero paese deve aspirare, soprattutto davanti alla sfide portate dall’attuale contesto sociale, economico e sanitario.

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Il Decreto Semplificazioni (n.76 del 16 luglio 2020) prevede che dal 1 marzo 2021 si possa accedere ai siti web di INPS, Agenzia delle Entrate e altri servizi della pubblica amministrazione solo attraverso lo SPID o la carta d’identità elettronica.

Questa decisione rappresenta un ulteriore passo verso la digitalizzazione della PA.
Sette mesi forse sono pochi, ma l’impatto del COVID sul lavoro, i servizi e la società stessa impone una reazione veloce e previdente.

Il Ministro dell’Innovazione, Paola Pisano, ha dichiarato che «la Pubblica Amministrazione dovrà pensare in digitale. Le norme intendono dare una spinta forte, attraverso regole chiare e scadenze da rispettare, alla trasformazione digitale del Paese. È un processo, ma deve cominciare subito».

L’introduzione dell’accesso tramite SPID non elimina drasticamente l’uso del PIN o di altre credenziali. Il decreto ha contemplato l’ipotesi che la PA non sia in grado di adeguarsi entro marzo 2021, considerando di mantenere attive le attuali forme d’accesso ai servizi non oltre la data del 30 settembre 2021.

INPS  ha comunicato tramite la circolare 87 del 17 luglio che il passaggio graduale dal PIN allo SPID inizierà il 1° ottobre 2020, data a partire dalla quale non rilascerà più nuovi codici di accesso (fanno eccezione i minori diciotto anni e i cittadini extracomunitari, per i soli servizi loro dedicati).
I PIN già attivati rimarranno validi fino al 28 febbraio 2021.

COS’È SPID

SPID è l’acronimo di Sistema Pubblico di Identità Digitale.
Tramite la creazione di un’unica identità digitale, costituita da credenziali (nome utente e password), i cittadini e le imprese possono accedere a tutti i servizi online della pubblica amministrazione.

Per ottenerlo serve:
– un documento d’identità valido (la carta d’identità, il passaporto o la patente),
– la tessera sanitaria con il codice fiscale,
– un indirizzo email,
– un numero di telefono cellulare.

Lo SPID copre 3 livelli di sicurezza, in base al tipo di servizio al quale si vuole accede.

Il primo livello permette l’autenticazione tramite il nome utente e la password dello SPID stesso. Riguarda i servizi più semplici.

Il secondo, oltre al nome utente e alla password, richiede un’ulteriore password ‘usa e getta’ (OTP – One Time Password), comunicata tramite sms. È applicato a servizi che richiedono più attenzione alla privacy.

Il terzo livello di autenticazione richiede l’uso di un certificato di firma digitale o remota. È richiesto quando si accede a servizi che trattano dati molto sensibili.

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Complici gli effetti di COVID-19, la digitalizzazione negli studi legali si è fatta intensa e veloce, forse più di quando gli avvocati fossero pronti ad affrontare, come dimostrano le opinioni contrastanti sulle disposizioni prese dal Governo in materia di giustizia.

La tecnologia applicata all’avvocatura non si limita però solamente ai depositi telematici e alle udienze da remoto. Riguarda anche l’organizzazione del lavoro, smart working in primis, e il marketing legale.

Prima di capire quale sarà l’eredità lasciata da questa quarantena è bene comprendere a che punto è la digitalizzazione negli studi legali.

DIGITALIZZAZIONE: LA GRANDEZZA DELLO STUDIO LEGALE FA LA DIFFERENZA

La possibilità per uno studio legale di poter sfruttare i vantaggi delle tecnologie dipende dal budget a disposizione: più è elevato e più sarà possibile investire in strumenti e competenze.

Fortunatamente, uno dei lati positivi della digitalizzazione è che si tratta di un processo che può essere affrontato a tappe e modulato in base alle proprie risorse e alle esigenze.

La grandezza dello studio legale è dunque un parametro che può fare la differenza.

Nel report prodotto dall’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale del Politecnico di Milano (maggio 2020), gli studi legali vengono categorizzati in:

  • – micro studi (< 3 professionisti)
  • – piccoli studi (fino a 10)
  • – studi medi (fino a 30)
  • – grandi studi (> 30)

Il report mostra come le diverse categorie abbiano preferenze diverse in fatto di digitalizzazione.

Tra le tecnologie considerate nel report sono:

CRM (customer relationship management): sono sistemi che permettono di gestire i profili di clienti già acquisiti o potenziali. Permettono di raccogliere informazioni, profilare e decidere quali azioni compiere in base alle caratteristiche del singolo. 

Document Management System (“sistema di gestione dei documenti”): strumenti che permettono di organizzare i documenti digitalizzati o nativi digitali e di crearne altri anche in forma collaborativa.

Workflow (“flusso di lavoro”): pratiche e strumenti che consentono di snellire l’operatività, facilitare alcune operazioni o la comunicazione fra soggetti, eliminare blocchi e ostacoli all’efficienza.

Intranet: è la rete che collega i computer interni allo studio, non collegata a Internet. Permette lo scambio di informazioni tra i vari apparecchi e l’accesso di tutti i presenti ai database aziendali.

Extranet: è un’estensione della rete Intranet alla quale possono limitatamente accedere, tramite autentificazione, anche utenti esterni.

Data Warehouse: si tratta di database in cui si raccolgono dati sulla propria attività provenienti da fonti diverse. Quando è necessari prendere una decisione, si può attingere a questo magazzino per svolgere un’analisi e giungere alla giusta conclusione.

Piattaforme E-Learning: l’insieme di strumenti informatici che permettono di portare avanti programmi educativi.

Sito web: la vetrina dello studio sul web, il biglietto da visita attraverso il quale farsi conoscere, la porta di ingresso digitale con cui agganciare gli utenti e convertirli in clienti.

Forum/Wiki/Blog/Chat: strumenti che consentono di rafforzare la relazione con l’utente/potenziale cliente attraverso la condivisione di contenuti utili o l’assistenza.

Archivi organizzativi: archivi di dati e documenti.

Il report del Politecnico di Milano si basa su un campione di 3.300 studi e indica le seguenti preferenze in base alla dimensione degli studi:

– la tecnologia più utilizzata nei micro studi sono gli archivi (57 sul totale),
– i piccoli studi fanno un buon uso della rete Intranet (55), di archivi (52) ma anche del sito web (45),
– gli studi medi utilizzano il sito (68), Intranet (65), gli archivi (57) e il document management (46),
– i grandi studi sfruttano tutte le tecnologie in modo più omogeneo, ma dimostrano un particolare interesse verso il sito (88), gli archivi (84), Intranet (69) e il document management (50).

Considerando la spinta alla remotizzazione dei processi in tutti i settori della giustizia e la possibilità di una seconda ondata di contagi da Coronavirus, il prossimo autunno si prospetta interessante e impegnativo per gli avvocati.

La digitalizzazione negli studi legali è ormai un dato di fatto.

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La Corte UE equipara il Giudice di Pace alla magistratura professionale

Problemi di accesso alle caselle email Webmail e IMAP di Register.it

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Se oggi fate fatica ad accedere alla vostra posta elettronica acquistata su Register.it, sappiate che il provider ha effettivamente individuato alcuni problemi.

La natura di questi non è stata comunicata, ma riguarda l’accesso ai servizi webmail e IMAP.

La posta PEC risulta operativa, così come gli altri servizi.

L’azienda ha comunicato poco fa che l’errore è stato risolto e si scusa per il disagio, garantendo che nessun messaggio di posta dei clienti è andato perduto.

È possibile monitorare l’evoluzione della situazione direttamente sul sito https://status.register.it

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La Corte UE equipara il Giudice di Pace alla magistratura professionale

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Il 16 luglio 2020 la Corte di Giustizia Europea ha stabilito che la figura del Giudice di Pace è del tutto equiparabile, dal punto di vista giuridico ed economico, alla magistratura professionale.

La pronuncia è la conseguenza di una controversia (causa C‑658/18) tra il giudice di pace Cristina Piazza e il governo della Repubblica Italiana, al quale aveva chiesto la retribuzione del proprio riposo durante il mese d’agosto secondo gli stessi canoni applicati ai magistrati.

LE RICHIESTE DEL GIUDICE DI PACE

Il Giudice di Pace aveva dunque chiesto alla Corte Europea se, nonostante il carattere onorario della sua professione, la sua figura potesse essere considerata un lavoratore a tutti gli effetti.

In particolare, desiderava sapere:

  • – se la sua figura potesse rientrare nella nozione di giudice comune europeo;
  • – in caso affermativo, se la sua attività lavorativa potesse essere considerata lavoro a tempo determinato;
  • – in caso di ulteriore risposta affermativa, se il suo lavoro fosse soggetto alle stesse regole di quello dei magistrati ordinari o professionali a tempo indeterminato.

I riferimenti normativi a cui si rifaceva il Giudice Piazza sono:
– gli articoli 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88,
– la clausola 2 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
– l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
– l’interpretazione della Corte nelle sentenze O’Brien e King.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

La Corte Europea ha stabilito che:

  • – «un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore”»;

  • – «la nozione di lavoratore a tempo determinato, contenuta in tale disposizione [clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato], può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»;

  • – la clausola 4, punto 1, dell’accordo «va interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell’ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di “lavoratore a tempo determinato”, ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario».

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La Corte di Giustizia Europea ha rigettato il Privacy Shield, l’accordo sottoscritto nel 2016 con gli Stati Uniti che regolamenta il trasferimento di dati personali di cittadini europei verso server americani.
La Corte ritiene che lʼaccordo non fornisca ai cittadini europei garanzie sufficienti contro le leggi e la sorveglianza USA.

COS’È IL PRIVACY SHIELD

Come spiega il Garante della Privacy:
“Il Privacy Shield, ovvero lo “scudo per la privacy” fra UE e USA, è un meccanismo di autocertificazione per le società stabilite negli USA che intendano ricevere dati personali dall’Unione europea. In particolare, le società si impegnano a rispettare i principi in esso contenuti e a fornire agli interessati (i.e. ovvero tutti i soggetti i cui dati personali siano stati trasferiti dall’Unione europea) adeguati strumenti di tutela, pena l’eliminazione dalla lista delle società certificate (“Privacy Shield List”) da parte del Dipartimento del Commercio statunitense e possibili sanzioni da parte della Federal Trade Commission (Commissione federale per il commercio).
[…] Il Privacy Shield è applicabile a tutte le categorie di dati personali trasferiti dall’UE agli USA, compresi informazioni commerciali, dati sanitari o relativi alle risorse umane, purché la società USA destinataria di tali dati abbia autocertificato la propria adesione allo schema.”

I RISCHI PER LA PRIVACY E LA GENESI DEL PRIVACY SHIELD

Quando i nostri dati vengono trasferiti su server americani, essi ricadono sotto la normativa statunitense che, in materia di privacy, è diversa rispetto a quella europea (GDPR in primis).

In sostanza, le nostre informazioni non sono sempre al sicuro e possono essere trattate dalle autorità statunitensi senza che noi ne siamo consapevoli. Tutto ciò è contrario a quanto stabilito dal GDPR.

Questo rischio è diventato chiaro nel 2013, quando Edward Snowden ha denunciato un sistema di sorveglianza mondiale gestito dalle agenzie governative americane e perseguito tramite accordi con i colori tecnologici come Google e Facebook.

Il Privacy Shield, nato nel 2016 in sostituzione di un precedente accordo non particolarmente efficace, avrebbe dovuto tutelare maggiormente i cittadini europei, limitando l’accesso delle forze dell’ordine e delle agenzie governative statunitensi.

Sembrava funzionare, finché alla Corte europea non è giunta la segnalazione di un cittadino austriaco che aveva scoperto che i suoi dati personali erano stati trasferiti da da Facebook Ireland, con sede in Europa e soggetta alle leggi comunitarie sulla privacy, a Facebook In, con sede negli Stati Uniti e quindi svincolata da tali leggi.

LE CONSEGUENZE DELL’ANNULLAMENTO DEL PRIVACY SHIELD

Se le associazioni dei consumatori europei hanno accolto con entusiasmo la sentenza, non si può dire lo stesso delle autorità americane. L’impatto della sentenza potrebbe essere rilevante: il segretario al Commercio, Wilbur Ross, stima che le conseguenze negative per le relazioni economiche tra i due contenuti possano ammontare a circa 7,1 trilioni di dollari.

La decisione dei giudici potrebbe infatti costringere le multinazionali americane, ma anche le realtà più piccole, a rivedere le proprie strategie e ad affrontare i costi della creazione di sedi per la raccolta dei dati in Europa, così da garantire il rispetto del GDPR.

Il problema è vero soprattutto per i grandi colossi il cui business si basa in gran parte sulla raccolta e il trasferimento dei dati, come Google o Facebook.

Ma la sentenza della Corte Europea non elimina del tutto gli scambi e la condivisione di dati. Semplicemente, impone maggiori controlli. Come si legge nella sentenza: «ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) il trasferimento dei suddetti dati verso un Paese terzo può avvenire, in linea di principio, solo se il Paese terzo considerato garantisce a tali dati un adeguato livello di protezione».

Linkiamo il testo della sentenza della Corte Europea.

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Riprendiamo un interessante articolo di Giovanni Manca (ANORC) a proposito del valore della FEA, la firma autografa elettronica, come prova in sede di giudizio.

TANTE FIRME TUTTE DIVERSE

La perizia grafologica è lo strumento utile a stabilire se una firma è autentica o meno, ma anche alcuni elementi della condizione personale del firmatario.

A differenza di ciò che si potrebbe pensare, esistono diverse tipologie di firme.

Esiste la firma autografa, quella che eseguiamo a mano, con penna e carta.
Esiste la firma digitale che, detta in modo semplicistico, è una stringa di caratteri che conferisce a un documento informatico autenticità, integrità e non ripudio.
Ed esiste poi la firma grafometrica, ovvero la firma eseguita con una sorta di penna elettronica su un supporto digitale. È detta anche firma autografa elettronica (FEA).

La firma autografa elettronica assomiglia alla firma autografa tradizionale, poiché è generata da un gesto manuale molto simile, ma i mezzi e i supporti utilizzati sono completamente diversi e presentano questioni di non così immediata soluzione: la perizia grafologica tradizionale non è applicabile e l’acquisizione e al trattamento dei dati personali diventa rilevante.

L’ASSENZA DI UN TEST PER STABILIRE SE LA FIRMA AUTOGRAFA ELETTRONICA SIA UNA PROVA

Come spiega Manca, non esiste un test che permetta di stabilire se una firma grafometrica possa essere una prova da portare in giudizio. Solo «l’intervento di un perito grafologo che abbia acquisito una formazione specifica relativa all’analisi qualitativa e quantitativa dei dati, alla conoscenza dello strumento tecnologico, nonché alla normativa di riferimento per la verifica della FEA grafometrica» potrebbe risolvere la questione.

LA MODALITÀ DI VERIFICA DI UNA FIRMA GRAFOMETRICA

La firma autografa elettronica è una firma acquisita digitalmente, pertanto contiene ed è essa stessa un insieme di dati informatici che possono essere letti solo dal dispositivo con il quale è stata acquisita.
Poiché ogni produttore ha i propri protocolli, l’analisi della firma diventa complicata. Bisognerebbe, infatti, essere in possesso di una moltitudine di dispositivi (e delle relative conoscenze tecniche) per operare in maniera precisa.

L’insieme di dati digitali contenuti in una firma grafometrica devono dunque essere estratti e convertiti in formato ISO/IEC 19794-7 (2014), lo standard di riferimento.

Questo standard indica i parametri da considerare nell’analisi della firma, tra cui le coordinate X e Y del tratto o il tempo di acquisizione della coordinata.
Vi sono altri elementi che potrebbero rivelarsi utili e che non rientrano nello standard. Per esempio, i parametri di acquisizione del dispositivo usato offrono informazioni sulla pressione esercitata al momento della firma.

Molti dei dati estrapolati dalla firma grafometrica sono poi informazioni biometriche realtive firmatario. Per questo motivo, l’analisi deve essere svolta rispettando quanto stabilito dal Garante in materia di protezione dei dati personali (n. 513/2014) e sulla loro disponibilità solo su richiesta dell’Autorità Giudiziaria.

A complicare le cose vi è anche il fatto che la firma autografa elettronica può essere eseguita con una penna digitale ma anche con un dito e questo comporta delle peculiarità che influenzano l’analisi.

In aiuto è venuta AGI (Associazione Grafologica Italiana) che ha pubblicato un documento intitolato “Le buone prassi per l’analisi forense della scrittura” per offrire dei riferimenti per la perizia di una firma grafometrica.

A proposito di firme! Lo sai che la firma digitale di Servicematica è l’unica in Italia ad avere i certificati validi per 5 anni? Scopri di più.

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Il Garante della Privacy si è nuovamente espresso sulle fatture elettroniche, o meglio, sulle regole per l’emissione e la ricezione indicate dall Agenzia delle Entrate  (“Regole tecniche per l’emissione e la ricezione delle fatture elettroniche per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti e stabiliti nel territorio dello Stato e per le relative variazioni, utilizzando il Sistema di Interscambio, nonché per la trasmissione telematica dei dati delle operazioni di cessione di beni e prestazioni di servizi transfrontaliere e per l’attuazione delle ulteriori disposizioni di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127”).

Il provvedimento del Garante del 9 luglio 2020 si focalizza sulla durata del periodo di conservazione da parte dell’Agenzia delle Entrate delle informazioni contenute nelle fatture elettroniche.

Il periodo, stabilito per permettere all’Agenzia di effettuare controlli, è di 8 anni. Una durata che il Garante ritiene eccessiva.

È il Garante stesso a spiegarne i motivi:

“Lo schema in esame prevede, senza effettuare alcuna distinzione tra tipologie di dati o categorie di interessati, la memorizzazione e l’utilizzo dei file delle fatture elettroniche che contengono i dati inerenti la natura, qualità e quantità dei beni e servizi oggetto dell’operazione di cui all’art. 21, comma 2, lett. g), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, estendendo così tanto l’oggetto della memorizzazione, quanto l’ambito di utilizzazione dei dati presenti nella fattura elettronica.
Non vengono escluse neppure alcune tipologie di dati (quali quelli non rilevanti a fini fiscali o quelli inerenti la descrizione delle prestazioni fornite, suscettibili di comprendere anche dati appartenenti a categorie particolari o l’eventuale sottoposizione dell’interessato a procedimenti penali, come per le fatture relative a prestazioni in ambito forense (cfr. artt. 9 e 10 del Regolamento), né i codici fiscali dei consumatori (quantomeno per fatture relative a spese non detraibili).”

Considerando che vengono emesse circa 2 miliardi di fatture all’anno, la mole di dati memorizzata è davvero impressionante.

La conclusione del Garante è quindi che “la previsione della memorizzazione e dell’utilizzazione, senza distinzione alcuna, dell’insieme dei  dati personali contenuti nei file delle fatture elettroniche, anche laddove si assicurino elevati livelli di sicurezza e accessi selettivi, risulta sproporzionata in uno stato democratico, per quantità e qualità delle informazioni oggetto di trattamento, rispetto al perseguimento del legittimo obiettivo di interesse pubblico di contrasto all’evasione fiscale perseguito.”

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