cybersecurity

Istituita l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale

Nasce l’ACN, Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, formata da 300 esperti in materia e con un portafoglio di 530 milioni di euro a disposizione fino al 2027.

Il decreto con cui viene istituita l’Agenzia sottolinea la “straordinaria necessità ed urgenza” di “attuare misure tese a rendere il Paese più sicuro e resiliente anche nel dominio digitale. In particolare, la vulnerabilità delle reti può “provocare il malfunzionamento o l’interruzione di funzioni essenziali dello Stato con potenziali gravi ripercussioni sui cittadini, sulle imprese e sulle pubbliche amministrazioni, sino a poter determinare un pregiudizio per la sicurezza nazionale.

IL PROBLEMA DELLA CYBERSECURITY IN ITALIA

L’Italia non eccelle per la sicurezza informatica.

Vittorio Colao, Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, ha dichiarato che “il 93-95% dei server della Pubblica amministrazione non è in condizioni di sicurezza.

Franco Gabrielli, sottosegretario con delega all’Intelligence, riconosce che la situazione derivata da una “mancanza di consapevolezza dei rischi” e da “un deficit di cultura su questi temi”.

Ma quanto è grande il rischio che corriamo?

Un’idea ce la offre Ranieri Razzante, consigliere per la cybersecurity del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè: “dai dati del parlamento europeo, nel 2019 [i cyberattacchi] sono stati 700 milioni in Europa, triplicati rispetto all’anno precedente”.

https://video.sky.it/news/tecnologia/video/nasce-lagenzia-per-la-cybersicurezza-nazionale-676813

CYBERSICUREZZA, I COMPITI DELLA NUOVA AGENZIA

Nel gestire la cybersecurity, la nuova agenzia sostituisce il DIS, cioè il Dipartimento che coordina i servizi d’Intelligence.
Eserciterà i suoi compiti sotto il controllo del Presidente del Consiglio e dell’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.
Tali compiti sono:

tutelare gli interessi nazionali, la resilienza dei servizi e le funzioni essenziali dello Stato da minacce cibernetiche;
• sviluppare capacità nazionali di prevenzione, di monitoraggio, di rilevamento e di mitigazione, per fronteggiare incidenti di sicurezza informatica e attacchi informatici;
• contribuire a innalzare la sicurezza dei sistemi di Information and communications technology (ICT) dei soggetti all’interno del perimetro di sicurezza nazionale cibernetica, della PA, degli operatori di servizi essenziali (OSE) e dei fornitori di servizi digitali (FSD);
• supportare lo sviluppo di competenze industriali, tecnologiche e scientifiche, tramite la promozione di progetti per l’innovazione e lo sviluppo e stimolando la crescita di una forza di lavoro nazionale nel campo della cybersecurity che possa portare all’autonomia strategica nazionale nel settore;
• fungere da interlocutore unico nazionale per i soggetti pubblici e privati in materia di sicurezza e attività ispettive in relazione alla sicurezza nazionale cibernetica, alla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi (direttiva NIS), e alla sicurezza delle reti di comunicazione elettronica.

Obiettivi

L’agenzia promuove azioni comuni tra soggetti pubblici e privati che puntino ad assicurare la resilienza cibernetica nazionale e favorire la digitalizzazione del Paese, dal sistema produttivo alle pubbliche amministrazioni.

Lo scopo è giungere a essere autonomi, sia a livello nazionale che europeo, per quanto riguarda la fornitura di “prodotti e processi informatici di rilevanza strategica a tutela degli interessi nazionali nel settore”.

IL COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA CYBERSICUREZZA

Lo stesso decreto che istituisce l’ACN prevede anche il CIC, il Comitato interministeriale per la cybersicurezza, che svolgerà funzioni di consulenza, proposta e deliberazione in materia.

Il CIC è presieduto dal Capo del Governo ed è composto dai ministri degli Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, dell’Economia, dello Sviluppo economico, della Transizione ecologica, di Università e ricerca e dal ministro delegato per l’Innovazione tecnologica.

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Gratuito patrocinio: transazione e compenso legale

Il compenso all’avvocato spetta anche se la transazione non lo prevede

Un avvocato, dopo essersi rivolto al Tribunale, inizialmente aveva visto respingere il riconoscimento delle proprie spettanze. Il motivo: gli assistiti sono giunti ad una transazione in cui però non era previsto il compenso per la sua assistenza legale. Tuttavia, la Cassazione stabilisce che la transazione della lite non è di ostacolo alla liquidazione del compenso all’avvocato del patrocinio.

Gratuito patrocinio: compenso dell’avvocato non deve necessariamente essere specificato nella transazione

Accade che un avvocato si rivolga al Tribunale dopo aver assistito due soggetti con patrocinio gratuito. Nello specifico, i suoi assistiti sarebbero giunti ad una transazione in cui non vi è alcun indice di compenso per l’assistenza legale. Dunque, egli si muove per ottenere la liquidazione delle sue spettanze, ma inizialmente il Tribunale rigetta la sua istanza.

Quindi, l’avvocato si oppone e, in ricorso, il Tribunale accoglie le sue doglianze: si procede con la liquidazione del suo compenso. A questo punto, interviene il Ministero della Giustizia, che ricorre alla suprema corte: il compenso doveva essere contemplato nell’accordo di transazione. Tuttavia, la Cassazione ne respinge il ricorso: la transazione della lite prescinde dalla liquidazione del compenso dovuto all’avvocato.

Dunque, si afferma il principio secondo cui, l’avvocato della parte ammessa al patrocinio gratuito deve comunque essere liquidato. Infatti: “la rivalsa dello Stato comunque presuppone e postula il diritto del difensore della parte ammessa al patrocinio alla liquidazione delle sue spettanze”. Infine: “Non sembra […] configurabile un onere del difensore di attivarsi allo scopo di inserire nell’accordo transattivo anche la liquidazione del proprio onorario”.

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Liberi professionisti: al via l’assegno unico per i figli

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Liberi professionisti: al via l’assegno unico per i figli

Lo scorso 8 giugno 2021 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il DL n. 79/2021, contenente “Misure urgenti in materia di assegno temporaneo per figli minori”.  Con cui viene istituito anche l’assegno unico per i figli in favore dei liberi professionisti, lavoratori autonomi e disoccupati esclusi dal beneficio dell’assegno familiare (art. 2 del DL 69/88).

La misura è prevista solo per il secondo semestre del 2021, a decorrere dal mese in cui viene presentata la domanda. Per le domande presentate entro il 30 settembre 2021 sono concessi gli arretrati dal mese di luglio.

ASSEGNO UNICO PER I FIGLI E LIBERI PROFESSIONISTI: I DETTAGLI

Oltre ad appartenere alle categorie già citate, i beneficiari dell’assegno unico per i figli sono cittadini delll’UE o familiari di cittadini UE o ancora cittadini extracomunitari con permesso di soggiorno che risiedano in Italia da almeno 2 anni o titolari di contratto di lavoro per almeno 6 mesi, che paghino le imposte in Italia e che abbiano un Isee  inferiore a 50.000 euro annui.

L’importo dell’assegno varia in modo inversamente proporzionale all’Isee dichiarato dal nucleo famigliare del beneficiario, con il seguente range di riferimento:

minimo di 30 euro a figlio per nuclei con 1 o 2 figli, o di 40 euro per nuclei con 3 o più figli che presentino un Isee di 40.000 euro l’anno;

massimo di 218 euro per ciascun figlio per nuclei famigliari con 3 o più figli e con Isee inferiore a 7.000 euro l’anno.
L’assegno viene maggiorato di 50 euro al mese per ciascun eventuale figlio con disabilità.

In caso di affido condiviso, la somma spetta al 50% a ciascun genitore.
L’importo dell’assegno non ricade nel reddito imponibile e non preclude l’accesso al reddito di cittadinanza o ad altre misure regionali o locali a favore dei figli.

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La delega allo Spid: come funziona

Dal decreto semplificazioni arriva l’introduzione di possibilità di delega allo Spid

Negli scorsi giorni, con l’approvazione del decreto semplificazioni, è stata introdotta la possibilità di delega allo Spid. L’idea è che chiunque possa delegare il suo accesso a uno o più servizi verso un soggetto titolare dell’identità digitale (Spid). Tuttavia, non sono ancora state diffuse informazioni riguardo le modalità di effettuazione di tale delega, per le quali occorre il Garante della Privacy.

Decreto semplificazioni: la delega è apertura verso chi non ha lo Spid.

31 maggio 2021: pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto semplificazioni, dove -art..64 ter- si trova il “Sistema di gestione delle deleghe”. Tale sistema viene affidato alla responsabilità della struttura della Presidenza del Consiglio dei ministri competente per l’innovazione tecnologica e la transazione digitale. Così, anche i cittadini che hanno meno praticità con la tecnologia possono delegare una persona fidata all’accesso dei servizi digitali delle PA.

Tale presentazione della delega deve rispettare precise modalità, come indicato nell’art.65, comma 1, Codice dell’Amministrazione Digitale. Infatti, si può procedere con istanza e dichiarazione presentata per via telematica e sottoscritte con firma digitale/ elettronica o congiuntamente a documento d’identità. Oppure, ci si può recare agli sportelli delle pubbliche amministrazioni presenti sul territorio e procedere con la modulistica.

Dunque, una volta acquisita la delega al sistema di Gestione, viene generato un attributo qualificato associato all’identità digitale del soggetto delegato. Vale la pena sottolineare che questo stesso attributo vale anche per l’erogazione di servizi in modalità analogica. Infine, attenzione: affinché suddetto Sistema di gestione deleghe possa concretizzarsi, è ancora necessario conoscere il parere del Garante della Privacy.

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Notifica PEC non ricevuta, ricorso inammissibile Servicematica

Notifica PEC non ricevuta, ricorso inammissibile

Una donna a cui viene concesso di occupare parte di un immobile, esclusivamente per il periodo vacanziero, con un accordo verbale, decide di denunciare la situazione all’Agenzia delle Entrate.

A seguito della denuncia il contratto viene regolarizzato, ma la locatrice si rivolge al Tribunale e ottiene l’annullamento del contratto e il pagamento dell’indennità di occupazione.

La conduttrice allora si rivolge in Corte di Appello, lamentando che il Tribunale abbia ritenuto regolare la notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione dell’udienza, dichiarando, data la sua assenza, la contumacia e confermando la sentenza di primo grado.

La Corte d’Appello ritiene invece che la notifica sia stata regolare e che l’appellante avrebbe dovuto proporre allora “querela di falso, stante che la relata di notifica eseguita dall’agente postale fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l’attività svolta, ivi compresa l’attestazione della immissione dell’atto da notifica nella casella di posta”.

I MOTIVI DEL RICORSO

La conduttrice però porta la questione in Cassazione, portando due motivi:

  1. art.360 c.p.c., n.4: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, violazione di legge con riferimento alla norma applicata, vizio di motivazione” per avere la Corte di Appello errato nel ritenere la notifica avvenuta a mezzo posta e nell’applicare di conseguenza la L. 890/1982;
  2. “violazione di legge (art. 360, n.3 c.p.c.): errata applicazione dell’art. 140 c.p.c, anche con riferimento all’art.111 Cost. – profili di illegittimità costituzionale” per avere la sentenza impugnata ritenuto che l’art. 140 c.p.c. fosse applicabile a situazioni di convivenza/coabitazione con la controparte o aventi causa diretti.

In sostanza, la conduttrice sostiene che la locatrice abbia ignorato l’affissione dell’avviso ex. art. 140, comma 2 c.p.c. e che, data la presenza di una sola cassetta postale condivisa con la locatrice, peraltro situata lontano dall’ingresso, non si possa avere l’assoluta certezza relativamente alla conoscenza del processo da parte sua.

LA NOTIFICA PEC NON RICEVUTA? IL RICORSO È INAMMISSBILE

La Cassazione ha rilevato che la notifica PEC del ricorso eseguita dalla locatrice non è andata a buon fine. Il sistema ne ha infatti rifiutato la ricezione a causa di problemi alla casella di posta elettronica non imputabili al destinatario.

La conclusione è dunque l’inammissibilità del ricorso.

Nella sentenza gli Ermellini segnalano che al caso va applicato il principio di diritto secondo cui:

“in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa” (da ultimo Cass. 21/08/2020, n. 17577).

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Notifica atto a mezzo pec con allegato in pdf illeggibile: cosa succede?

La Cassazione torna ad occuparsi delle conseguenze della notifica di un atto a mezzo pec con allegati pdf illeggibili o vuoti.
Nello specifico, un ricorso è dichiarato inammissibile perché, una volta fornita la prova via pec, è onere del destinatario contestarne l’eventuale irregolarità. Infatti: “spetta al destinatario […] rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione […]”.

Spetta al destinatario promuovere le contestazioni necessarie ed eventualmente fornirne la prova

Succede che l’impugnazione di una sentenza della Corte di Appello venga notificata a mezzo pec presso il difensore domiciliatario del ricorrente in Cassazione. Inoltre, succede che il controricorrente eccepisca la tardività del ricorso: la notifica sarebbe avvenuta oltre il termine breve di 60 giorni. Tuttavia, il ricorrente replica all’eccezione: il file pdf riguardante la sentenza impugnata contiene solo pagine bianche e puntini neri.

Quindi, secondo il ricorrente, non avendo raggiunto lo scopo, la notifica non potrebbe far decorrere il termine breve per il ricorso in Cassazione. A questo punto, la decisione della Cassazione è chiara e inequivocabile: il ricorso è inammissibile. Infatti, una volta fornita la prova dell’avvenuta accettazione del sistema, l’onere non è più del soggetto mittente.

Infatti, è onere della parte che contesta la regolarità della notificazione fornire la prova della disfunzione del sistema. Con parole degli Ermellini: “Una volta acquisita al processo prova della sussistenza della ricevuta telematica di avvenuta consegna, solo la concreta allegazione, da parte del destinatario, di una qualche disfunzionalità dei sistemi telematici potrebbe giustificare migliori verifiche sul piano informatico, con onere probatorio a carico del medesimo destinatario”.

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identità digitale europea

Verso un’identità digitale europea condivisa

Pochi giorni fa, la Commissione Europea ha proposto la modifica del Regolamento e-IDAS per favorire l’adozione, da parte di cittadini, residenti e imprese dell’Unione, di un’identità digitale europea condivisa.

IL REGOLAMENTO e-IDAS

Il Regolamento n. 910/2014  e-IDAS – electronic IDentification Authentication and Signature – è entrato in vigore nel settembre 2018, ma da allora solo 14 Stati membri hanno implementato almeno un sistema di identità digitale. Tra questi figura l’Italia con lo SPID.

Gli obiettivi del Regolamento sono indicati al secondo considerando:

“Il presente regolamento mira a rafforzare la fiducia nelle transazioni elettroniche nel mercato interno fornendo una base comune per interazioni elettroniche sicure fra cittadini, imprese e autorità pubbliche, in modo da migliorare l’efficacia dei servizi elettronici pubblici e privati, nonché dell’eBusiness e del commercio elettronico, nell’Unione europea”.

La volontà è quella di favorire la fiducia e la certezza giuridica in quanto elementi necessari ad avvicinare cittadini, imprese e autorità pubbliche ai servizi elettronici, anche quelli più innovativi.

Per riuscirci è indispensabile garantire la sicurezza ICT, requisito che però va gestito a livello comunitario.

In tal senso, i servizi a cui il Regolamento presta attenzione sono i cosiddetti “servizi fiduciari” cioè servizi elettronici forniti “normalmente dietro remunerazione” e che riguardano:

a) la creazione, verifica e convalida di firme elettroniche, sigilli elettronici o validazioni temporali elettroniche, ma anche servizi elettronici di recapito certificato e certificati relativi a tali servizi;
b) la creazione, verifica e convalida di certificati di autenticazione di siti web;
c) la conservazione di firme, sigilli o certificati elettronici relativi a tali servizi.

Le recenti modifiche introducono tre nuovi servizi fiduciari qualificati: servizi di conservazione elettronica, di libri mastri elettronici e la gestione di dispositivi per la creazione di firme e sigilli elettronici a distanza.

L’IDENTITÀ DIGITALE EUROPEA

Altro elemento fondamentale è l’armonizzazione dei sistemi nazionali di identità elettronica per crearne uno condiviso a livello transfrontaliero.

L’identità digitale auspicata dall’UE ha le seguenti caratteristiche:

  • – Estrema disponibilità
    L’identità digitale europea può essere usata da qualsiasi cittadino, residente e impresa dell’Unione che lo desideri;
  • – Ampia utilizzabilità
    Permette l’accesso da parte del possessore ai servizi digitali pubblici e privati in tutta l’Unione;
  • – Controllo totale
    I titolari dell’identità digitale hanno il pieno controllo sulla propria privacy, possono scegliere quali dati condividere con terzi e monitorare tale condivisione.

Nella pratica, l’identità digitale europea prevede che gli Stati membri creino per i cittadini e le imprese dei “portafogli digitali” che collegano l’identità digitale nazionale del soggetto con altri elementi personali (licenza di guida, titoli scolastici, conto bancario). Grazie a questi portafogli i soggetti potranno accedere ai servizi online senza appoggiarsi a metodi di identificazione privati e senza condividere dati personali in eccesso. In questo modo si giunge sia a una maggiore sicurezza informatica, ma anche a una maggiore uniformità sul territorio comunitario.

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Madre condannata a risarcire il figlio

Ostacola le visite con il padre: madre condannata a risarcire direttamente il minore

L’aver ostacolato le visite del figlio con il padre le era già costato un’ammonizione, ma ora è anche stata condannata. In effetti, dopo il ricorso da parte dell’avvocato del padre, ella deve risarcire direttamente non il padre, ma proprio il minore. Questo perché il suo comportamento, rendendo difficoltose le modalità di affidamento, ha arrecato danni psicologici e psicopedagogici al piccolo.

Decisione che prosegue ed amplia la classica tutela della riservatezza del minore

Mantova, 25 maggio 2021. Succede che, visto l’ostruzionismo frapposto dalla madre alle visite padre-figlio, la madre venga ammonita dal Tribunale. Quindi, succede che l’avvocato legale del padre, depositi ricorso (ex art. 709 ter c.p.c.). Infine, accade che il Tribunale disponga una condanna risarcitoria da parte della madre: il suo comportamento arreca danni psicologici e psicopedagogici al minore.

Il punto centrale, però, non è tanto la condanna a risarcire, quanto il fatto che il soggetto beneficiario di tale risarcimento è il minore. Infatti, è la prima volta che il bambino viene riconosciuto “titolare di un autonomo diritto di ottenere direttamente […] un risarcimento in denaro”. Questo significa che in tale bambino si è riconosciuto un soggetto portatore di diritti superiori, più rilevanti di quelli dei genitori.

Non solo: la decisone include la clausola (“modello Signorini”) da sottoscriversi d’ufficio dai genitori in via di separazione. Si tratta dell’impegno a non pubblicare in rete immagini dei figli e rimuovere tutte quelle già postate. Dunque, anche questa decisione, amplia la tutela della riservatezza del minore e mette il fanciullo al centro, al di sopra delle parti.

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Udienze in video e tecnologie da remoto: rischi e opportunità per la giustizia

Udienze in video e tecnologie da remoto: rischi e opportunità per la giustizia

Con l’arrivo del COVID la giustizia ha dovuto introdurre innovazioni tecnologiche che hanno stravolto le abitudini di tutti gli addetti: udienze in video, deposito telematico, uso delle note scritte, rinvii di procedimenti non urgenti.

Nonostante la ripresa di alcune attività in sede, è altamente possibile che alcune delle novità introdotte dalla pandemia non vengano abbandonate e che la modalità “da remoto” diventi il nuovo standard.

Come interpretare questo nuovo corso della giustizia?

LO STUDIO

A settembre 2020 il Brennan Center for Justice della New York University School of Law ha pubblicato uno studio sugli effetti dell’uso delle tecnologie sui procedimenti giudiziari.
In particolare, ha analizzato come i diritti delle parti possano essere influenzati, e in che modo, dalla modalità in remoto e cosa possano fare i tribunali e gli operatori della giustizia per limitare eventuali differenze di trattamento.

UDIENZE DA REMOTO E VALUTAZIONE DEGLI IMPUTATI

È lo stesso studio a rilevare delle differenze nella valutazione degli imputati in base alla modalità con cui si è svolta l’udienza.

Un primo esempio riguarda le cauzioni.
Nel caso di udienze in video, gli imputati si sono visti imporre somme più elevate rispetto a coloro le cui udienze si sono svolte in presenza (dal 54 al 90% in più).

Un secondo esempio riguarda le espulsioni.
Gli immigrati detenuti le cui udienze si sono svolte in video hanno avuto maggiori probabilità di essere espulsi. Incredibilmente però, in tre dei sei tribunali considerati nello studio, i giudici hanno rivisto la loro valutazione dopo un’udienza di persona.

Se ne potrebbe dedurre che l’uso delle udienze in video possa favorire distorsioni cognitive che influenzano negativamente il giudizio.

TECNOLOGIE E GIUSTIZIA: SOLO EFFETTI NEGATIVI?

I dati appena indicati potrebbero far pensare che la digitalizzazione dei processi abbia solo effetti negativi. Ovviamente, non è così.

Un altro studio americano ha mostrato che l’uso delle tecnologie permette di migliorare l’accesso alla giustizia, permettendo alle organizzazioni di assistenza legale di coinvolgere individui precedentemente esclusi o svantaggiati.

In conclusione, le tecnologie applicate alla giustizia presentano pro e contro, opportunità e rischi.

Come suggerisce lo studio del Brennar Center, è importante coinvolgere gli operatori del settore per arrivare a un’applicazione “sana” dei procedimenti a distanza, sperimentando sistemi diversi e valutandone gli effetti.

[Fonte: Altalex – Procedimenti in web meeting: quanto impattano su equità ed accesso alla giustizia]

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Esami avvocato: tracce fuori linee guida

Tracce lunghe e complesse o riguardanti materie escluse dal novero delle linee guida

Negli scorsi giorni l’Upa (Unione praticanti avvocati) ha denunciato il problema della difficoltà delle tracce d’esame. In effetti, tanto l’Upa quanto la Consulta dei praticanti dell’Aiga, sostengono che i quesiti posti non rientrino nelle linee guida ministeriali.

Non solo: le tracce variano da commissione a commissione, il che potrebbe implicare una disparità di trattamento degli esaminandi.

Tracce troppo lunghe e complesse per il poco tempo a loro disposizione

In questa sessione d’esame particolare, caratterizzata dal covid-19, gli aspiranti avvocati si sono dovuti confrontare anche con difficoltà intrinseche alle tracce. In effetti, secondo l’Unione praticanti avvocati, le tracce date agli esami non corrisponderebbero alle linee guida ministeriali. Nella fattispecie, si fa riferimento a ciò che finora è accaduto nelle Corti di appello di Genova, Firenze, Lecce e Salerno.

A tal proposito, il presidente Upa afferma che talvolta si è trattato di tracce attinenti a materie tassativamente escluse dalle linee guida. Perciò, i candidati non si sarebbero affatto preparati in quelle discipline specifiche e peculiari proprio perché sapevano che erano da escludere. Secondo la Consulta dei praticanti dell’Associazione italiana giovani avvocati, a ciò si aggiunge che le tracce siano troppo lunghe e complesse.

In effetti, in questa sessione, è capitato che ai candidati siano proposti quesiti normalmente sottoposti per la redazione degli scritti classici. Tuttavia, in questo caso non si sono potute avere a disposizione le stesse sette ore di tempo, ma solo 30 minuti. In questo quadro, a poco sembrano valere le rassicurazioni del ministro Cartabia sull’importanza fondamentale da assegnare al doppio orale.

 

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