Grandi Dimissioni: un fenomeno in crescita

Sono sempre di più le persone che scelgono di lasciare il lavoro per diverse ragioni. È un fenomeno globale che cresce sempre più, e che sta prendendo piede anche nel nostro paese.

Si tratta del Great Resignation, letteralmente Grandi Dimissioni, e si stima che più di un lavoratore su due stia cercando un nuovo lavoro o che comincerà a farlo. Questo è quanto emerge dal Randstad Workmonitor, indagine semestrale condotta in 34 paesi.

Insoddisfazione vs felicità personale

Le motivazioni di questo esodo silenzioso sono svariate: potrebbero riguardare l’incapacità del proprio datore di lavoro di soddisfare le ambizioni lavorative e professionali, la scarsa flessibilità, oppure la mancanza di corrispondenza tra i propri valori e quelli dell’azienda.

Si tratta di un fenomeno caratterizzato da un aumento progressivo del numero delle dimissioni dei lavoratori dipendenti dal proprio lavoro. Alla base di tutto questo troviamo un senso d’insoddisfazione: per molti, le proprie esigenze lavorative non riescono ad essere completamente appagate, dunque cercano nuove opportunità di crescita altrove.

La scelta di cambiare lavoro riguarda soprattutto i giovani della Gen Z, che riconoscono che la loro priorità è la felicità personale, non il lavoro. Il fenomeno è collegato al desiderio dei più giovani di cogliere migliori opportunità, anche all’estero.

Disoccupati, ma felici

Il 29% dei lavoratori italiani è alla ricerca attiva di un nuovo impiego. Globalmente, l’Italia è al terzo posto nella classifica di questo nuovo trend. La percentuale sale al 38% se consideriamo soltanto la fascia d’età 25-34.

Il 36% dei lavoratori italiani ha già lasciato il proprio lavoro per l’incompatibilità con la vita privata. Il 38% dei lavoratori ha dichiarato che se il lavoro gli impedisse di godersi la vita, sarebbe disposto a lasciare il proprio lavoro.

Il 32% dei dipendenti preferirebbe essere disoccupato piuttosto che infelice a livello lavorativo. Tra le cause del great resignation troviamo l’insoddisfazione (47%), la demotivazione (34%) e la mancanza di condivisione degli obiettivi (30%).

Le aziende ne risentono

Le aziende, ovviamente, risentono negativamente del fenomeno. Si registra, per esempio, sovraccarico di lavoro, desiderio di emulazione, perdita di punti di riferimento e demotivazione.

Dunque, per evitare complicazioni, molte aziende cercano di mettere in atto azioni al fine di trattenere le risorse. Parliamo di percorsi di formazione, momenti di ascolto e di condivisione delle problematiche, maggior attenzione alle relazioni interne e cambi di mansione.

Under e over 40

I giovani con meno di 40 anni si riconoscono direttamente nel fenomeno delle grandi dimissioni. Queste persone affermano che la decisione di cambiare sia stata dettata proprio dalla ricerca della crescita professionale, unitamente al desiderio di ricomporre i pezzi della propria vita.

I lavoratori con più di 40 anni, invece, vedono il fenomeno dall’esterno, senza sentirsi direttamente chiamati in causa. Riconoscono, tuttavia, la perdita di talenti importanti nell’azienda, e soprattutto comprendono le difficoltà nell’assunzione di nuove figure adeguate.

Le motivazioni principali

Le motivazioni economiche giocano un ruolo importante nella decisione di cercare un nuovo lavoro. Nell’ultimo anno, infatti, soltanto il 19% dei lavoratori ha ricevuto un aumento di stipendio. Siamo al penultimo posto, in questo senso, nella classifica globale.

Siamo all’ultimo posto, invece, per quanto riguarda la distribuzione di benefit, flessibilità e smart working. Ci sono, tuttavia, ragioni ancora più profonde all’origine del great resignation.

Il fenomeno è dovuto in particolar modo ai più giovani, che affermano che il datore di lavoro non è in grado di soddisfare pienamente la realizzazione personale. Il lavoro, per il 48% degli intervistati, non è in grado di offrire uno scopo, mentre il 60% dice che la vita privata è molto più importante rispetto a quella professionale.

Scusa, ma non siamo sulla stessa lunghezza d’onda

Un’ulteriore motivazione che spinge i lavoratori a lasciare il proprio lavoro è il fatto di non sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda tra i propri valori e quelli dell’azienda. Spesso si tratta di temi ambientali o sociali: il 38% non accetta di lavorare in un’azienda che non si impegna in tal senso.

Anche il ruolo della scarsa flessibilità non scherza. Le aziende non offrono flessibilità di orario e luogo, e in molti decidono di lasciare l’impiego perché non consente il lavoro da remoto.

Un altro tasto dolente è l’incapacità delle aziende di assecondare a pieno le ambizioni professionali. Tra i bisogni formativi più “richiesti” troviamo lo sviluppo di competenze tecniche, delle soft skills e la formazione digitale.

Opportunità, non problemi

Nel mondo odierno, le aziende devono prestare più attenzione alla vita privata dei dipendenti.

È importante rivolgere l’attenzione verso un buon work life balance, con flessibilità negli orari e nei luoghi di lavoro, per attrarre i talenti più giovani nel mercato. Smart working. Permessi agevolati, part-time per i neo-genitori e orari flessibili: si combatte così la great resignation.

I dipendenti devono sentirsi valorizzati e assecondati nelle loro ambizioni di crescita professionale. È necessario considerare il fenomeno da un altro punto di vista, ovvero non come un problema ma come opportunità.

Marco Ceresa, amministrazione delegato di Randstad spiega che «sarà una grande sfida per le aziende, che in una situazione di carenza di talenti devono ripensare il loro approccio per attrarre e trattenere il personale».

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Quando è prevista la radiazione per l’Avvocato?

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Quando è prevista la radiazione per l’Avvocato?

Gli avvocati non devono soltanto svolgere con diligenza il proprio lavoro, ma devono anche essere corretti nei rapporti con colleghi, giudici e clienti. Se un legale dovesse venir meno a tali obblighi potrebbe andare incontro ad una sanzione disciplinare proporzionata alla gravità di ciò che ha commesso.

La sanzione massima è la radiazione, ovvero la cancellazione dall’albo professionale. Chiaramente, la radiazione è prevista soltanto per i fatti più gravi in assoluto, come nel caso del legale che al posto di difendere il proprio assistito agisce contro lui, accordandosi con la sua controparte.

La radiazione consiste in una sanzione disciplinare prevista dal Codice deontologico forense. E’ la sanzione più severa in assoluto, che porta l’avvocato all’esclusione dall’albo, impedendogli anche di iscriversi a qualsiasi altro elenco, albo o registro.

Dunque, la radiazione cancella il libero professionista dall’albo, rendendogli impossibile esercitare la professione.

A decidere la radiazione è il Consiglio Distrettuale di Disciplina, che può adottare altri provvedimenti disciplinari, come:

  • l’avvertimento, con il quale l’avvocato viene informato di aver avuto una condotta che va contro le norme deontologiche e successivamente invitato a non commettere ulteriori violazioni. E’ una sanzione disciplinare che interessa le infrazioni minori;
  • la censura, ovvero un avvertimento un po’ più forte rispetto al mero richiamo precedente;
  • la sospensione, che porta l’avvocato ad essere escluso dall’esercizio della professione per un periodo di tempo che va dai due mesi ai cinque anni.

La radiazione, per quanto sia grave, non è per sempre. Un avvocato che è stato cancellato dall’albo potrà ottenere la reiscrizione dopo cinque anni, ma soltanto se si forniscono delle prove di aver mantenuto una condotta impeccabile.

Per la Cassazione, se dopo la radiazione dall’albo a causa di una condanna penale l’avvocato chiede la reiscrizione, il Consiglio dell’ordine valuterà attentamente la richiesta, tenendo conto della gravità del fatto commesso e della condotta successiva.

L’avvocato che voglia ritornare ad esercitare la professione dovrà procedere con la richiesta entro un anno dal termine dei cinque anni di radiazione. Successivamente, non avrà più possibilità di essere reiscritto.

Casi in cui l’Avvocato viene radiato

Secondo il Consiglio Nazionale Forense, un avvocato può essere radiato dall’albo se si fa dare una grandissima somma di denaro da un cliente, garantendo un esito favorevole poiché si conosce il giudice in causa.

Oppure, può essere radiato un avvocato che agisce in conflitto d’interessi con l’assistito. Questo è il caso, per esempio, dell’avvocato che assume la difesa dell’imputato, e al tempo stesso assiste anche la persona offesa.

La radiazione avviene anche se un avvocato utilizza le informazioni riservate che sono state ottenute dal proprio assistito, al fine di utilizzarle per il vantaggio di un altro cliente, come nel caso in cui il legale, dopo aver difeso la moglie nel giudizio di separazione, difende il marito nella causa di divorzio.

Una condotta ancora più grave avviene quando un avvocato si mette d’accordo con la controparte processuale a danno del proprio assistito. In tal caso, non scatta soltanto la radiazione ma anche il reato di patrocinio infedele, punito con la reclusione.

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Il mese di novembre 2022 è stato certamente il peggiore per quanto riguarda il rapporto tra telematica e avvocati. Ci sono stati gravissimi ritardi e malfunzionamenti nel sistema telematico del processo civile, e il Ministero non ha ancora dato spiegazioni.

Tutti gli adempimenti di cancelleria avvengono obbligatoriamente ed esclusivamente secondo modalità telematiche. Dunque, sono affidati al buon funzionamento dei vari servizi. Notificazioni, pagamenti, depositi e consultazione dei fascicoli sono stati, alle volte, completamente impediti, causando un notevole danno per gli studi legali.

Questo è quello che pensa l’Organismo congressuale forense, che scrive in una nota: «Qualche giorno fa, il ministero dell’Interno, in nome della privacy, ha inibito la possibilità di estrarre i certificati anagrafici online: si tratta di un’attività che offre sicuro risparmio di tempo e di denaro, ad esempio per i civilisti, che, prima di procedere alle notifiche, possono verificare gli indirizzi dei destinatari».

Continua la nota: «Né si dimentichi che l’uso giudiziario dei dati personali è consentito dal principio di proporzionalità, garantito dal considerando 4 del Reg. UE 679/2016 (Gdpr), e dunque, dall’equivalenza tra il diritto alla riservatezza del dato personale ed il diritto che si intende reclamare all’autorità giudiziaria».

Ora, invece, è il turno del malfunzionamento del sistema informatico di liquidazione delle spese di giustizia, il sistema SIAMM. «E’ il sistema che dovrebbe servire per i pagamenti in favore degli avvocati, per il patrocinio a spese dello Stato, del pubblico, a fronte delle condanne in virtù della legge Pinto».

Se qualcuno ora chiede di accedere con le sue credenziali viene accolto con un messaggio: “non c’è più spazio”. Tali malfunzionamenti e l’improvvisa decisione del ministero determinano per l’avvocato l’impossibilità di esercitare del tutto le proprie attività.

È evidente la necessità «di aumentare le risorse dedicate alla digitalizzazione, così com’è venuto il momento di riformare completamente il sistema telematico in quanto strumento che consente l’accesso alla giustizia».

La digitalizzazione della Giustizia è la prima tra le missioni che sono state respinte nel PNRR. L’avvocatura invoca da tempo la creazione di un’unica piattaforma in grado di sostituire i canali di consultazione e deposito degli oggetti esistenti (amministrativo, civile, contabile, penale, tributario e sportivo). Inoltre, ci sono «uffici giudiziari incredibilmente ancora oggi esclusi dalla digitalizzazione come il Giudice di Pace».

Secondo l’OCF, le varie modalità di deposito degli atti impongono all’avvocato ulteriori adempimenti, inutilmente complessi. Creando un unico portale si andrebbe a facilitare e a velocizzare il lavoro dell’avvocato nel gestire i depositi, andando anche a diminuire i costi.

Grazie ad una tecnologia adeguata e al superamento del deposito tramite PEC, otterremo «il caricamento diretto dell’atto sulla piattaforma, visibile subito da tutti, fatta salva la verifica da parte del cancelliere. La visibilità a favore di controparte diverrebbe immediata e senza ritardi».

Il mondo dell’avvocatura ritiene da tempo che sia necessaria l’uniformità dell’identificazione e dell’autenticazione elettronica di chi utilizza i sistemi. Bisognerebbe revocare qualsiasi decisione che impedisce l’accesso dell’Avvocato all’Anagrafe Nazionale, proprio in quanto funzionale al pieno esercizio del diritto di difesa.

L’Organismo congressuale forense «manifesta piena disponibilità a contribuire ad ogni iniziativa tecnica e politica volta alla creazione di un sistema integrato di identificazione, di deposito e di consultazione, mettendo a disposizione il notevole bagaglio di esperienza e di conoscenza anche tecnica dell’avvocatura».

L’OCF chiede «che venga prontamente rimosso per gli avvocati ogni impedimento alla consultazione dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente».

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Il gaslighting è una tecnica con cui un soggetto (o un gruppo di persone) cerca di avere maggior potere. Per esercitarlo sceglie una vittima, per manipolarla e portarla a dubitare della realtà.

E’ una tecnica lenta, tant’è che la vittima non si rende conto di vivere un lavaggio del cervello. Il termine prende spunto dal film Gaslight, dove un uomo manipola tantissimo la moglie, al punto da spingerla a credere di essere impazzita.

I soggetti che utilizzano tale tecnica manipolatoria distorcono in modo volontario le informazioni per cercare di affermarsi e per mettere in discussione la salute mentale e l’autostima della vittima.

La violenza psicologica e il gaslighting non corrispondono, in sé, a dei reati, ma sono collegati ad alcune forme di reato, come maltrattamenti familiari, stalking, minaccia e violenza privata. Impariamo a riconoscerlo per aiutare i nostri clienti e noi stessi.

Manipolatori patologici

Ci sono molti libri che forniscono le basi per conquistare la fiducia delle altre persone, costruire nuove relazioni, convincere gli altri a pensarla come te, aumentare la popolarità, rendere più gradevoli i rapporti sociali e aumentare il proprio potere di persuasione.

C’è una differenza, ovviamente, tra chi legge questi libri e un manipolatore patologico. Dunque, per proteggersi è sempre bene conoscere le varie tecniche adottate da un gaslighter. Qualcuno potrebbe anche non farlo consapevolmente, approfittando dei benefici che si ottengono nel momento in cui la vittima diviene dipendente da lui.

Se il gaslighter non è consapevole di esserlo, nessuna delle sue azioni può essere giustificata in alcun modo. Per prima cosa, è opportuno interrompere qualsiasi comunicazione con lui.

Chi è il gaslighter

Il gaslighter è un manipolatore, un narcisista. È una persona intuitiva, calcolatrice, che legge in anticipo le mosse delle sue vittime, che vuole annientare in tutti i modi creando un rapporto di assoluta dipendenza.

Indossa sempre una maschera, facendo credere a tutti di essere lui la vera vittima del mondo. Vive in un perenne stato di recitazione, dove non rivela mai il suo vero sé. A causa della sua auto-alienazione, il gaslighter non è più capace di provare interesse o empatia verso gli altri. Nessuno lo può salvare, se non sé stesso.

Alcuni esempi

Un esempio potrebbe essere il rapporto tra un genitore iperprotettivo o autoritario e il figlio. Il genitore, in questo caso, non consente al figlio di sviluppare a pieno la sua personalità, utilizzando diverse tecniche, tra cui il senso di colpa, l’eccessiva protezione e la deresponsabilizzazione.

In questi casi i genitori lasciano i figli in un limbo, dove non ci sono responsabilità e dove vivono in maniera subordinata rispetto al genitore. Il rapporto con il genitore si basa sulla paura e sul senso di colpa, e non sull’educazione e sull’amore.

Il gaslighting può caratterizzare altre tipologie di relazione, come amore e amicizia, generando un rapporto di dipendenza che esclude l’affetto.

I campanelli d’allarme

Ci sono dei campanelli d’allarme per riconoscere questi manipolatori patologici:

  • utilizzano costantemente piccole bugie, primo indizio di una relazione non sana, tossica. Spesso, anche se le riconosciamo, non diamo loro il giusto peso;
  • un gaslighter nega sempre l’evidenza, anche quando la vittima è la vera vittima, oppure cerca di cambiare versione dei fatti per instillare il dubbio;
  • il manipolatore è una persona molto gelosa, che non concede all’altra persona di vivere la propria vita. Ma quando riguarda se stesso, si concede tutte le libertà del mondo.

Le tappe del gaslighting

Affinché il processo di manipolazione sia funzionale, il gaslighter conduce la vittima attraverso 3 fasi:

  • durante la prima fase la comunicazione passa attraverso una fase di distorsione, al fine di confondere la vittima andando ad alternare momenti positivi e momenti negativi. In una relazione amorosa, il gaslighter all’inizio sarà innamorato e affascinante, portando l’altra persona a vivere situazioni fantastiche, condite, però, da silenzi ostili o da dialoghi destabilizzanti. In questo modo la vittima sarà profondamente disorientata;
  • la seconda fase è quella della difesa, dove la vittima è tutto sommato lucida e non ancora abbastanza sottomessa per capire che c’è qualcosa che non quadra. Tuttavia la confusione che è stata instillata dal manipolatore è tale che la vittima sentirà di dover portare a termine una missione, quella di provare a cambiare il carnefice. Ovviamente, la missione fallisce, e la vittima cade ufficialmente nella trappola del manipolatore;
  • l’ultima fase, invece, è quella della depressione. Qui il manipolatore controlla completamente la vittima, credendo che tutto ciò che dice l’abusante sia vero, piegandosi alla volontà dell’altro.

Dopo di che, la manipolazione raggiunge il suo apice. La violenza, che sia fisica e/o psicologica, diviene cronica, tant’è che la vittima vede il gaslighter come un salvatore.

Altri esempi

  • È utilizzato spesso dalle persone sociopatiche, dato che dispongono di ben poca empatia e sono abili nel raccontare bugie;
  • Viene utilizzato dai mariti violenti che lo utilizzano contro le mogli per nascondere violenze e abusi;
  • Capita che, in alcuni casi di adulterio, il manipolatore utilizza questa tecnica per portare l’altra persona ad un crollo emotivo, talvolta sino al suicidio;
  • Un esempio famoso è quello della famiglia Manson, che entrava nelle case senza rubare, ma lasciando tracce del loro passaggio al fine di seminare inquietudine.

Per concludere

Se si sente la necessità di registrare le conversazioni e gli eventi che accadono per essere sicuri di non essersi inventati le cose è un chiaro sintomo di essere vittima di gaslighting. Si potrebbe provare confusione, sentirsi privi di valore, stanchezza, vergogna, dipendenza, idealizzazione, ansia, isolamento, depressione e trauma psicologico.

È sempre bene chiedere aiuto, a persone amiche o a professionisti. Tuttavia, dato che tale tecnica potrebbe distruggere completamente la percezione della realtà, dovremmo pensare a raccogliere delle prove per sentirci più sicuri: teniamo un diario, registriamo le conversazioni e facciamo fotografie.

Per difendersi e ricostruire la propria identità potrebbe volerci del tempo. Ricordiamoci, però, che non siamo mai responsabili del comportamento abusivo di un gaslighter. Impariamo a riconoscere e ad ascoltare di nuovo i nostri pensieri e i nostri sentimenti, e creiamo un percorso di recupero dal trauma.

Infine, ricostruiamo le relazioni con gli amici e la famiglia.

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Un muro di indifferenza

La carcerazione non comporta la perdita dei diritti, anzi: una persona che si ritrova in tale contesto necessita di maggior tutela. In tale contesto, trovandosi sotto la completa responsabilità dello Stato, quest’ultimo dovrebbe garantire dignità, benessere e salute.

Il carcere dev’essere un luogo di rieducazione, per mettere in sicurezza la nostra società. Se ciò non avviene, quello che resta sono soltanto parole vuote e un muro di indifferenza, che non ci permette di osservare le cose da diversi punti di vista.

Giovani vs anziani

Ogni anno, in Italia, migliaia di persone tra i 18 e i 34 anni transitano negli Istituti Penitenziari. Una tale consistenza di giovani nelle carceri italiane dovrebbe indurci a riflettere attentamente alla strada da intraprendere per contrastare il fenomeno.

In molti hanno studiato gli effetti negativi dell’esperienza in carcere, come ansia, depressione e autolesionismo. Nelle carceri, inoltre, esiste un vero e proprio “trattamento penitenziario” attuato dai più anziani nei confronti dei giovani detenuti.

I giovani, infatti, entrano a contatto con questi soggetti criminali che sembrano dimostrarsi sensibili alle necessità psicologiche, personali e logistiche dei nuovi arrivati, anche se il loro fine è avere facile presa su personalità molto fragili, da sfruttare ai fini della delinquenza.

La detenzione prepara al reinserimento sociale

L’obiettivo, invece, dovrebbe essere trasformare l’esperienza della detenzione da luogo in cui studiare il crimine a momento di riflessione umana e di crescita personale.

Bisognerebbe evitare che i soggetti più giovani finiscano per restare intrappolati nel circuito della devianza, insieme a soggetti che continuano ad entrare e ad uscire dal carcere. Bisognerebbe disegnare differenti canali d’accoglienza, attivando circuiti di inserimento differenziati in base alla tipologia di reato commesso.

Un’applicazione sempre più ampia delle misure alternative di detenzione potrebbe contenere questi fenomeni, offrendo percorsi concreti di risocializzazione a migliaia di soggetti.

Gestione partecipata del carcere

Una cosa fondamentale è far comprendere ai detenuti più giovani che non ci si aspetta da loro soltanto una reintegrazione all’interno del sistema sociale, ma che ci sia anche una nuova base per costruire un miglior sistema sociale.

Un clima di serenità e fiducia favorisce la comunicazione e l’espressione spontanea di pensieri, idee e sentimenti. Bisogna concorrere all’acquisizione e al recupero della dimensione sociale del detenuto, delle sue possibilità, dei suoi diritti e della sua dignità.

Importante anche promuovere la partecipazione attiva dei soggetti detenuti, affinché giungano alla gestione partecipata del carcere. Non devono più essere soggetti passivi, ma protagonisti della vita che si svolge all’interno delle mura.

Fondamentale educare, informare, sensibilizzare, per modificare un comportamento individuale che si ritiene sia stato causa di condotta antisociale.

La duplice funzione del carcere

Il carcere racchiude in sé un duplice mandato: quello della custodia e quello del trattamento. Deve essere orientato, dunque, verso l’interazione adeguata dei due aspetti, delineando una configurazione istituzionale tesa ad una gestione corretta dei problemi che riguardano i giovani reclusi.

Dovremmo incamminarci verso un carcere con una fisionomia trattamentale, non soltanto custodiale. Creare un luogo dove ogni operatore partecipa attivamente alla soddisfazione dei bisogni e delle necessità dei giovani detenuti, che dovranno diventare coscienti e consapevoli della propria soggettività, gestendo responsabilmente la propria detenzione e il rientro nella società.

Dovranno essere in grado di autodeterminarsi e riscoprire le proprie potenzialità, senza ricorrere a mezzi illeciti.

Guardare al futuro

Il carcere equivale alla società. Dunque, come può la società non sentirsi chiamata in causa? Come può non essere consapevole che il suo interesse è quello di occuparsi di quello che avviene o che non avviene all’interno del carcere?

Volenti o nolenti, esiste un dopo, che noi tutti auspichiamo che sia positivo. Ma tale positività dipende da un percorso costruttivo, solidale e non indifferente.

La ricostruzione dell’individuo nella sua relazione con la società è una scommessa di solidarietà sociale. Più vicini ci poniamo al condannato – che prima di tutto deve essere visto come essere umano – più efficacemente si potrà attivare il processo di valorizzazione della sua individualità.

La pena non deve infliggere tormento o vendetta per il male commesso dal condannato. Non deve guardare al passato, ma al futuro, in ottica di prevenzione, affinché la persona non commetta altri crimini.

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Studio Legale: come gestire i conflitti

La fiducia gioca un ruolo fondamentale nel successo di qualsiasi impresa. Tuttavia, è qualcosa di estremamente difficile da costruire e da mantenere.

È l’ingrediente che sta alla base della prosperità di un’attività e di un team. Se impariamo a coltivarla e a mantenerla, avremo effetti positivi sulla qualità del nostro lavoro e della nostra vita.

Secondo Ranjay Gulati, professore di Economia all’Harvard Business School, la fiducia deve essere “lo scopo profondo” di un leader o di una società. Chi riesce in questo intento, ottiene migliori risultati non soltanto in termini economici, ma anche dal punto di vista sociale.

La fiducia ci consente di ridisegnare l’organigramma aziendale, in modo tale da incentivare la crescita individuale ma anche la collaborazione. Ma cosa succede quando la fiducia viene a mancare dopo un conflitto? Come dovremmo comportarci?

La paura del conflitto

Lo Studio legale è un organismo vivente, composto da più persone, ognuna con la propria personalità. La pulsione vitale dell’organizzazione è alimentata dalle interazioni delle persone, che siano professionali o personali.

Le interazioni relazionali portano sempre in sé la paura dell’esplosione di un conflitto. Tuttavia, il conflitto è condizione naturale di qualsiasi interazione umana, dal momento che, quando due idee opposte si incontrano, nasce un conflitto.

Il termine conflitto deriva dal latino cum-fligere. Il suo significato è duplice, così come lo è il suo uso. Se utilizziamo il verbo in modo transitivo significa “far incontrare”, mentre, se usato in modo intransitivo, significa “urtare”.

Dunque, il conflitto è come la natura: non è né buona né cattiva in sé. L’accezione positiva o negativa deriva dall’esperienza che ne facciamo e dal modo in cui lo affrontiamo.

La gestione del conflitto

Secondo quest’ottica, in un’organizzazione complessa, il conflitto non deve essere temuto o evitato. Deve essere gestito! Per farlo, sarebbe utile affidarsi ad alcune regole per influire in modo positivo sull’esperienza conflittuale.

I conflitti all’interno delle organizzazioni richiedono un differente approccio rispetto ai conflitti personali. Il leader deve agire da mediatore, accantonando il suo ruolo da boss. Il conflitto, infatti, non deve essere affrontato su base gerarchica.

Se si impone una soluzione, non si fa altro che “nascondere la polvere sotto il tappeto”. Da un lato, infatti, si impedisce che vengano incanalate le energie in maniera efficace. Mentre dall’altro, lo scontro, prima o poi riemergerà più forte di prima.

Cosa fare, quindi?

Prima di tutto: affrontiamo la situazione di crisi! Spesso, infatti, la crisi non viene affrontata e la soluzione viene affidata alla maturità dei confliggenti.

Bisogna affrontare tempestivamente le situazioni di crisi. Se ignoriamo incomprensioni o disagi che potevano essere gestiti subito, con effetti positivi, potrebbero aggravarsi, arrivando al punto in cui le parti coinvolte siano disposte a pagare qualsiasi prezzo pur di distruggere l’altra persona.

Affrontare tempestivamente una crisi significa indagare le cause reali del conflitto, cioè qualsiasi elemento che gli attori, durante l’interazione conflittuale, nascondono dietro alle proprie posizioni o pretese.

Per far ciò, il capo mediatore dovrebbe affidarsi all’ascolto attivo, utilizzando domande aperte e offrendo ai contendenti uno spazio dove potersi esprimere liberamente. Uno spazio sicuro dà importanza al valore a tutte le parti coinvolte, che si sentiranno ancora più parte attiva del team e dello Studio.

E in men che non si dica, ecco tornare la fiducia.

Soluzioni, non problemi

Una buona abitudine e un’abilità da acquisire e la capacità di disinnescare le emozioni negative attraverso la “pulizia” del linguaggio. Le persone tendono a reagire a queste situazioni parlando senza alcun filtro.

Non è raro imbattersi in concetti normalissimi, espressi con dei toni che stimolano risposte emotive negative, come risentimento e sarcasmo. Sono modalità che non aiutano di certo ad una gestione efficace del conflitto.

Il leader deve essere capace di riformulare termini ed espressioni negative, andando a ripulire la situazione da tutto quello che potrebbe alimentare un conflitto. Il leader traduce e trasporta le informazioni, in modo tale che tutti siano messi nella condizione di comprendere gli altri.

In questo modo si sposta l’attenzione degli attori verso la soluzione del problema, e non sul problema stesso.

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Portale Servizi Telematici: accesso agli atti dei procedimenti penali

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Da lunedì’ 14 novembre in tutte le Procure della Repubblica è attiva la funzionalità di accesso agli atti dei procedimenti penali da parte dei difensori mediante il portale del Processo Penale Telematico. La funzionalità è riservata ai soggetti iscritti nel Registro degli Indirizzo Elettronici (ReGindE) con il ruolo di avvocato.

Sarà possibile accedere al servizio cliccando sulla sezione “servizi”, che si trova sulla home page del PST. Successivamente bisognerà cliccare su “Area Riservata” ed infine, previa autenticazione, si potrà accedere al servizio Portale Deposito atti Penali – deposito con modalità telematica di atti penali.

I difensori, dopo aver effettuato il login, dovranno selezionare il procedimento di interesse dall’elenco dei procedimenti autorizzati, cliccare su “Deposita Atto Successivo” e richiedere l’atto in “richiesta di accesso”.

Sul portale esiste anche un servizio di consultazione dei registri di Cancelleria in forma anonima, disponibile anche sotto forma di app gratuita disponibile per tutti i sistemi operativi. Il servizio non richiede iscrizione a autenticazione (accedendo ai registri di cancelleria in forma anonima non si può accedere alle sezioni documentali).

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Avvocato, sai prendere la vita con filosofia?

Sono in molti a pensare che la filosofia sia qualcosa di astratto e che non può essere applicata alla vita di tutti i giorni.

È quella cosa che rende una persona in grado di dire tutto e il contrario di tutto, oppure che ti fa estraniare dal mondo reale per farti occupare soltanto dei massimi sistemi. Ma la realtà non è così. Oggi più che mai la filosofia è essenziale per comprendere chi siamo, dove siamo, dove stiamo andiamo, dove vorremmo andare e il modo in cui arrivarci.

La nostra società

Viviamo nella società delle performance, ovvero dentro un sistema che ci porta a dover dimostrare a tutti che siamo sempre in movimento, perfetti e positivi, capaci di rendere il massimo in tutti gli ambiti della vita.

Conseguenza naturale di ciò è l’ansia da prestazione, che diventa normalità, alimentando l’inadeguatezza e i sensi di colpa. Questo modello suscita la paranoia da confronto (comparanoia), impedendo di sentirsi pienamente soddisfatti di quello che stiamo facendo o dei nostri risultati.

Nulla è mai abbastanza. Bisogna andare avanti, senza mai fermarsi.

Viviamo in una società ipercompetitiva, dove tutto è questione di sconfitta o vittoria. L’altro, che sia conoscente o sconosciuto, è un nostro competitor. Tutte le nostre relazioni si basano sull’idea per la quale vivere significa combattere senza interruzioni, sconfiggendo tutti i nemici che si interpongono tra noi e il nostro futuro.

Ma tutto questo non vuol dire che le colpe siano soltanto del mondo esterno. Chiediamoci, prima di tutto, che cos’è realmente in nostro potere e come distinguere i desideri autentici da quelli inautentici.

La fioritura personale

La filosofia ci può accompagnare in quest’opera di discernimento, per comprendere il modo in cui dobbiamo agire per riuscire a disegnare la strada della nostra esistenza. Questa è la fioritura personale, un processo fondamentale della filosofia antica, che consente lo sviluppo armonico di una persona.

Pierre Hadot, un filosofo francese, chiamava tutto ciò arte di vivere, ma già per Aristotele questa era l’arte di esistere. La filosofia antica non era soltanto teoria. Nasceva, infatti, come pratica trasformativa, con esercizi psicofisici e tecniche molto semplici ma altrettanto potenti. Ancora oggi risultano efficaci per coloro che sono capaci di appropriarsene.

La chiamiamo fioritura personale poiché ogni persona è dotata di un fiore diverso, anche se il mondo ci porta a pensare di doverci adeguare a standard eccessivamente rigidi, percorrendo strade pre-determinate. Ogni persona può far fiorire innumerevoli parti di sé, con fiori sempre nuovi e soprattutto secondo i propri tempi personali.

Tuttavia, solitamente siamo spinti a pensare che le cose debbano accadere immediatamente, o con tempi uguali per tutti. Per questo ci sentiamo sempre in ritardo sulla tabella di marcia, più deboli e lenti rispetti agli altri.

L’attrito che rivela chi siamo

Il processo di fioritura è un movimento che necessita di continue rielaborazioni. Lo scopo non è correre dritto verso il traguardo, e nemmeno rispettare la tabella di marcia – ma scoprire che non esiste nessun traguardo e nessuna tabella di marcia.

C’è soltanto un labirinto creato mentre viviamo, scegliamo e cerchiamo di realizzare i nostri desideri. Visto dall’alto, alla fine, il labirinto prenderà l’immagine del nostro volto.

Abbiamo la certezza di essere in fioritura quando sentiamo che dentro noi si sta muovendo qualcosa. In alcuni momenti ci sono dei segnali esterni e tangibili, come risultati personali o lavorativi. In altri, invece, apparentemente non appare nulla di quello che sta accadendo dentro noi. Ma il movimento c’è, ed è ancora più autentico e profondo.

Questo processo richiede attenzione, riflessione, contemplazione e azione. Ci deve provocare attrito, un attrito che libera la nostra energia vitale, che ci consente di scoprire chi siamo. Non è violenza, perché accade con urgenza, ma senza alcuna fretta.

E vissero per sempre felici e contenti

Di solito, le fiabe si concludono con “e vissero per sempre felici e contenti”. Anche se questa conclusione da piccoli poteva offrici un senso di serenità e sollievo, quando cresciamo cominciamo a capire che la vita delle favole non è possibile. Crederci significa vivere in un’illusione, pagando il caro prezzo del sogno ad occhi aperti. È qui che nascono la disillusione e il cinismo.

Tuttavia, come scritto da Gilbert K. Chesterton: “Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere”.

Da sempre, le fiabe aiutano le persone a riconoscere il proprio potenziale e a non accontentarsi di ciò che hanno già visto e conosciuto. Sono uno strumento fondamentale di educazione emozionale, e il modo in cui finiscono rappresenta un profondo insegnamento da non trascurare.

Differenza tra felicità e contentezza

Ma che cosa significa, veramente, vivere felici e contenti? Siamo di fronte a due termini molto diversi tra loro.

Felice deriva da felix, che ha la stessa radice di fecundus, ovvero, fertile. Sei felice, dunque, quando ti metti al mondo, quando realizzi la tua natura, quando fai qualcosa che ti mette in movimento e che tira fuori da te qualcosa che ancora non era emerso.

Di solito associamo alla felicità l’idea di una grande scorpacciata, anche se è più collegata ad un senso di fertilità che si prova quando si scopre qualcosa di nuovo di sé stessi e del mondo. È il momento in cui attraversiamo il ponte tra chi siamo e chi vogliamo essere.

Contento, invece, proviene da contentus, che indica l’essere pieni, appagati, riempiti. Sei contento quando sei soddisfatto, appagato.

Dobbiamo riconoscere la differenza tra essere felici ed essere contenti, dato che rispondono a bisogni necessari ma differenti.

La giusta via di mezzo

E tu, sei felice o contento? Quali sono le cose che ti danno felicità e quelle che ti danno contentezza?

Prendi un foglio e dividilo in due parti. Nella colonna di sinistra scrivi quello che ti rende felice, in quella di destra quello che ti rende contento.

Lo scopo non è l’analisi razionale della tua esistenza per riuscire a controllarla, ma anzi a prestare attenzione a quello che ora stai mettendo da parte, per lasciar emergere quello che influisce sulla tua vita.

Non devi nemmeno decidere se è meglio la felicità o la contentezza. Il segreto è trovare la giusta via di mezzo, che crea uno stato di meraviglia.

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Il dramma del suicidio nelle carceri italiane

Il 2022 si preannuncia essere l’anno con il più alto numero di suicidi in carcere dal 2009. Da gennaio ad oggi sono già avvenute 77 morti per suicidio.

Il 4 ottobre, gli attivisti di Antigone hanno tenuto un sit-in davanti al tribunale di Palermo. «Basta morti in carcere. Si è fatta una campagna elettorale nel silenzio perché nessuno dei leader nazionali ha toccato questo tasto, nonostante fosse un periodo molto caldo per i suicidi in carcere».

Il tema della salute mentale

Michele Miravalle, dell’osservatorio nazionale di Antigone, rivela: «Ci sono stati casi di suicidio pochi mesi prima dell’uscita dal carcere». Inoltre, la maggior parte delle persone erano in attesa di giudizio e ed erano affette da patologie psichiatriche.

Il problema della salute mentale in carcere «è forse la grande emergenza del carcere di oggi in Italia. Il 40% delle persone detenute fa uso sistematico di psicofarmaci», continua Miravalle. Il carcere «non ha strumenti per affrontare molte di queste situazioni perché c’è un’emorragia di personale professionale sanitario e di operatori di salute mentale che sistematicamente mancano e quindi, spesso, si ricorre allo psicofarmaco senza poter fare null’altro».

Le richieste alle istituzioni

Il tema della salute mentale era tra quelli trattati durante il sit-in di Palermo. «Chiediamo di evitare la detenzione per i soggetti fragili, identificati come malati psichiatrici o con gravi problemi psicologici».

Hanno chiesto anche di «creare le condizioni affinché i detenuti in attesa di giudizio possano scontare a casa il periodo che li vede lontani dalla condanna» e «un intervento svuota-carceri che metta fuori i ragazzi dai 20 ai 30 anni che sono negli istituti penitenziari per reati minori», che rappresentano la seconda fascia d’età nei casi di suicidio.

L’inadeguatezza dello Stato e delle carceri

Il suicidio di una persona che è stata privata della propria libertà rappresenta il fallimento del ruolo punitivo e riabilitativo del nostro Stato. Se uno Stato non riesce ad impedire la morte di un condannato, dovrebbe perdere le funzioni che ne giustificano la potestà punitiva.

I suicidi delle persone detenute provocano sempre scalpore e indignazione. Le loro storie sono testimonianze dell’ultimo step di vicende personali drammatiche, che nella carcerazione raggiungono il loro culmine.

Dopo notizie di questo genere, è evidente l’inadeguatezza delle carceri nell’affrontare i disagi delle persone che si trovano al loro interno per scontare una pena. Anzi, spesso la carcerazione diventa uno shock letale per le persone più fragili, incapaci di adattarsi alla drammaticità della situazione che devono affrontare.

La fragilità nelle nostre prigioni

Il nostro paese ha i più bassi tassi di suicidio. Ma da alcuni dati diffusi dall’OMS è emerso come in Italia, il divario tra l’incidenza del suicidio tra le persone incarcerate e quelle libere, sia il più alto in tutta Europa. La distanza ci porta inevitabilmente a ragionare sulla qualità delle nostre prigioni e sull’efficacia dei programmi di prevenzione.

Da non sottovalutare nemmeno gli episodi di autolesionismo e di tentato suicidio. La popolazione detenuta, infatti, si compone sempre più da soggetti fragili ed emarginati. La rivendicazione dei propri diritti, di conseguenza, viene sostituita dai corpi feriti e dalle condotte autolesioniste come richieste di supporto e attenzione.

Una telefonata allunga la vita

Il mondo del carcere si sta riprendendo dalla pandemia in maniera più lenta rispetto alla società. I progetti di volontariato sono andati avanti a singhiozzo e alcuni si sono interrotti definitivamente. Risulta evidente come il carcere rappresenti un luogo di abbandono e di solitudine, oggi più che mai.

La scorsa estate Antigone ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”. Spiega Miravalle: «Ovviamente le telefonate non sono risolutive del problema, ma sono un importante strumento di prevenzione».

È recente la circolare del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che affida ai direttori delle carceri le decisioni nelle autorizzazioni dei colloqui telefonici o delle videochiamate. L’intervento, tuttavia, dovrà essere stabilizzato dal nuovo governo.

Il Dap «ha scelto una strada abbastanza prudente suggerendo ai direttori di avere un’applicazione meno restrittiva del regime delle telefonate che era stato allargato durante il Covid e che noi auspicavamo diventasse legge. Non siamo ancora a quel punto, ma è un primo risultato di percezione di un disagio che va affrontato».

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Come conseguenza del processo di dematerializzazione che interessa tutti i settori della nostra società, sono stati introdotti alcuni dispositivi di firma che riescono a catturare a e registrare dei parametri del gesto grafico, in modo tale da restituire un’esperienza di scrittura verosimile.

Si è favorito in tal modo il passaggio del mondo dell’analogico a quello del digitale. Questa innovazione, in campo forense, ha accelerato dei cambiamenti che interessano sia la parte tecnica dell’accertamento che la prassi procedurale.

Nel 2020, l’Associazione grafologica Italiana (A.G.I.), grazie al Dipartimento Peritale, si è impegnata nella stesura delle Linee guida operative per la verifica della firma biometrica con tecnologia grafometrica. L’operazione ha coinvolto anche la Polizia Scientifica di Roma e Namirial.

Un nuovo punto di riferimento

Siamo di fronte ad un documento unico nel suo genere, che diventa punto di riferimento non soltanto per i grafologi forensi, ma anche per pubblici ministeri e giudici.

Il codice di procedura civile, infatti, non contempla nessuna norma di riferimento per quanto concerne le procedure di acquisizione dati da parte dell’Esperto.

Il giudice, sostanzialmente, non dovrà più consegnare all’Esperto incaricato un documento analogico con la firma da verificare, ma un documento informatico con i dati biometrici della firma (strutturato adeguatamente in quanto a requisiti di conservazione e sicurezza).

Questa innovazione ha fornito un nuovissimo strumento di indagine per i grafologi, chiamati ad acquisire delle nuove competenze per restare aggiornati nei rapidi e costanti sviluppi che coinvolgono il settore digital.

Nel 2017 il primo documento

Da tempo, A.G.I. si occupa di scrittura biometrica, non soltanto con iniziative di ricerca, ma proponendo anche corsi di approfondimento che portano alla formazione di professionisti specializzati.

Già nel 2017, anno in cui si è tenuto il primo corso A.G.I. di formazione di grafometrica, era stato elaborato un primo documento con alcune indicazioni per il trattamento dei dati biometrici nelle sue fasi operative. Il documento è stato discusso, condiviso ed integrato con altri attori del progetto di cui oggi parliamo.

Nelle nuove Linee guida, invece, troviamo i dettagli dei percorsi operativi, con tutti i possibili scenari che nascono nell’ambito di una verifica, che ha per oggetto un documento sottoscritto con tecnologia grafometrica.

Le nuove linee guida

I dati che vengono acquisiti durante la scrittura, con l’aiuto di uno stilo e del tablet, divengono oggetto di analisi per il grafologo forense. Nelle linee guida ci sono le informazioni che possiamo rilevare dalla firma grafometrica, come:

  • pressione;
  • durata;
  • posizione in termini di coordinate;
  • tratti aerei a pressione zero;
  • rappresentazione grafica.

Tali dati vengono cifrati tramite la componente pubblica di una coppia di chiavi asimmetriche. La componente privata, tuttavia, può essere utilizzata soltanto previa autorizzazione del magistrato, poiché grazie ad essa si decifrano i dati biometrici della firma.

La firma cifrata, durante l’operazione di sottoscrizione, è contenuta nel documento informatico PAdES.

Una terza parte fidata, che ha l’incarico di conservare la propria chiave privata al fine di decifrare i dati biometrici del firmatario, gioca un ruolo chiave in caso di contenzioso.

Dati biometrici di base non standard

Aggiornare le Linee guida qui descritte era una necessità nata a causa della difficoltà di elaborare i dati biometrici di base non standard, prendendo come standard di riferimento l’ISO/IEC 19794-7. Quest’ultimo tratta nello specifico i formati di interoperabilità dei dati biometrici in relazione alle sottoscrizioni.

Utile sottolineare come venga utilizzata anche una versione non aggiornata dello standard, fatto non critico rispetto all’interoperabilità dei prodotti di mercato, dato che lo standard più recente non viene adottato dai fornitori.

Non gestire dati in questo formato non rappresenta una violazione delle regole, ma contribuisce a creare difficoltà a livello di interazione con i vari strumenti di perizia grafologica, che elaborano fisiologicamente i dati proprietari acquisiti attraverso un prodotto specifico.

Sono le stesse linee guida a proporre una metodologia best effort, con il vantaggio di essere condivisa anche dalla polizia scientifica nazionale.

Per concludere

Risulta utile dire che lo scenario operativo varia in base alla verifica, che può essere richiesta in ambito stragiudiziale o giudiziale.

In ambito giudiziale, l’Esperto può utilizzare i dati biometrici previa autorizzazione del magistrato, sui quali saranno possibili elaborazioni quantitative e qualitative. In ambito stragiudiziale, invece, l’esperto non dispone di dati biometrici, in quanto chiamato ad esprimersi su una firma flat, ovvero la semplice rappresentazione grafica della firma.

Nelle linee guida ci sono chiare indicazioni sull’acquisizione di un campione comparativo e su tutto quello che riguarda il report finale. Si descrivono, inoltre, possibili modalità operative che riguardano l’acquisizione di dati biometrici da parte dell’Esperto, che avvengono sia in presenza o tramite PEC.

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