Bando per l’assegnazione di contributi per l’acquisto di strumenti informatici per lo Studio Legale

Cassa Forense ha indetto un bando per l’assegnazione di contributi per acquistare strumenti informatici per l’esercizio della professione legale, sino allo stanziamento di 1.600.000,00 euro.

Destinatari del bando Avvocati e Praticanti regolarmente iscritti alla Cassa oppure con procedimento d’iscrizione in corso. Esclusi, invece, i percettori del contributo messo a disposizione dai bandi III/2020, 4/2021 e 1/2022.

Il contributo corrisponde al 50% della spesa complessiva per l’acquisto di strumenti informatici destinati all’esercizio della professione legale, dal 1° gennaio 2022. Non vengono riconosciuti contributi inferiori a 300 euro o superiori a 1.500 euro.

Vengono rimborsate le spese per l’acquisto di:

  • desktop pc;
  • monitor;
  • notebook;
  • tablet;
  • cuffie, auricolari e microfoni;
  • webcam;
  • stampante laser;
  • sistema audio e video per videoconferenze;
  • lavagne interattive;
  • antivirus;
  • software per gestione degli Studi Legali, come Service1;
  • firewall;
  • abbonamenti per l’utilizzo di piattaforme di videoconferenze;
  • dispositivi di archiviazione, protezione e/o condivisione dei dati dello Studio;
  • abbonamento/acquisto di servizi di cybersecurity per la protezione di reti professionali nello Studio Legale, come AVG Business Antivirus.

La domanda per l’assegnazione del contributo dovrà essere inviata entro la mezzanotte del 15 giugno 2023. Per farlo bisognerà utilizzare la procedura online disponibile sul sito di Cassa Forense.

Insieme alla domanda, il richiedente dovrà fornire, in modalità telematica, una copia delle fatture e delle ricevute di pagamento relative all’acquisto dei sopracitati strumenti nel periodo dal 1 gennaio 2022 al giorno precedente alla pubblicazione del bando.

I contributi verranno erogati fino ad esaurimento dell’importo complessivo previsto, seguendo una graduatoria con questi criteri:

  1. domande di iscritti in regola con il pagamento integrale dei contributi minimi dal 2015 a 2022 e che non abbiano percepito contributi per l’acquisto di strumenti informatici del 2018 o nel 2019;
  2. domande di iscritti in regola con il pagamento integrale dei contributi minimi dal 2015 al 2022 che hanno percepito contributi per acquistare strumenti informatici nel 2018 o nel 2019;
  3. domande di iscritti non in regola con il pagamento integrale dei contributi minimi dal 2015 al 2022.

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Nessun accordo con Siae: eliminata la musica italiana dai social

Meta, la società che possiede Facebook, Instagram e WhatsApp, ha comunicato che non è riuscita a raggiungere un accordo con Siae per rinnovare la licenza sul diritto d’autore, che era scaduta l’anno scorso. In queste ore sono già stati rimossi e/o silenziati i contenuti che contengono tracce depositate in Siae. La maggior parte dei brani italiani, insomma.

Secondo Siae, non c’è stata una trasparenza sufficiente nel corso delle trattative con Meta, colosso di Zuckerberg. Siae avrebbe richiesto a Meta di quantificare i ricavi che provengono dai contenuti provvisti di musica soggetta alla tutela di Siae, al fine di stabilire la somma da corrispondere agli editori e agli autori italiani.

Tuttavia, Meta, come la maggior parte delle Big Tech, ha deciso di non fornire verticalizzazioni nazionali sul proprio giro d’affari. Un muro contro un altro muro, insomma, che ha condotto Siae alla decisione di far saltare gli accordi con Meta.

Il caso italiano rischia di diventare un autentico caso internazionale, dato che, secondo alcune fonti, il mancato accordo è un caso unico a livello europeo, dove sembra che Meta abbia raggiunto una stretta di mano con tutti gli organismi.

Un portavoce di Meta ha fatto sapere: «Purtroppo non siamo riusciti a rinnovare il nostro accordo di licenza con Siae. La tutela dei diritti d’autore di compositori e artisti è per noi una priorità e per questo motivo da oggi avvieremo la procedura per rimuovere i brani del repertorio Siae nella nostra libreria musicale».

«Crediamo che sia un valore per l’intera industria musicale permettere alle persone di condividere e connettersi sulle nostre piattaforme utilizzando la musica che amano», continua il portavoce. «Abbiamo accordi di licenza in oltre 150 Paesi nel mondo, continueremo a impegnarci per raggiungere un accordo con Siae che soddisfi tutte le parti».

Siae, invece, dichiara: «La decisione unilaterale di Meta di escludere il repertorio Siae dalla propria library lascia sconcertati autori ed editori italiani. A Siae viene richiesto di accettare una proposta unilaterale di Meta prescindendo da qualsiasi valutazione trasparente e condivisa dell’effettivo valore del repertorio. Tale posizione, unitamente al rifiuto da parte di Meta di condividere le informazioni rilevanti ai fini di un accordo equo, è evidentemente in contrasto con i principi sanciti dalla Direttiva Copyright per la quale gli autori e gli editori in tutta Europa si sono fortemente battuti».

E’ una decisione che non lascia indifferenti, «considerata la negoziazione in corso, e comunque la piena disponibilità di Siae a sottoscrivere a condizioni trasparenti la licenza per il corretto utilizzo dei contenuti tutelati. Tale apertura è dimostrata dal fatto che Siae ha continuato a cercare un accordo con Meta in buona fede, nonostante la piattaforma sia priva di una licenza a partire dal 1 gennaio 2023».

«Siae», conclude la nota, «non accetterà imposizioni da un soggetto che sfrutta la sua posizione di forza per ottenere risparmi a danno dell’industria creativa italiana».

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LinkedIn: attenzione ai malware sulle offerte di lavoro

Siamo sempre più vicini all’identità digitale europea. È la fine di Spid?

LinkedIn: attenzione ai malware sulle offerte di lavoro

È in corso una nuova campagna malevola su LinkedIn, da parte del gruppo criminale nordcoreano UNC2970. La campagna di phishing si nasconde tra le finte offerte di lavoro. Il target principale sono gli specialisti in cybersecurity, principalmente in occidente.

La campagna malevola è stata scoperta dalla società di sicurezza informatica di Google, Mandiant. Fino ad ora, la cyber gang criminale era stata individuata principalmente per le sue azioni malevole contro target sudcoreani, ma da un po’ di tempo l’operazione criminale è uscita dai propri confini per rivolgersi al mondo occidentale.

Secondo i ricercatori, la campagna è attiva almeno dallo scorso mese di giugno. Il fine è quello di spingere le vittime ad aprire link malevoli di phishing, camuffati da finte offerte di lavoro o finti test di valutazione delle proprie competenze.

Si tratta, in linea generale, di un file Word che contiene alcune funzioni che, se vengono abilitate, fanno partire il download malevolo che infetta il pc della vittima.

I profili fake dei criminali si spacciano per aziende e brand noti, al fine di cominciare una conversazione con le vittime. I cybercriminali inducono le vittime a spostare la conversazione da LinkedIn a WhatsApp, convincendo i loro obiettivi a scaricare file ZIP molto dannosi.

Secondo Mandiant, questi finti account LinkedIn «sono ben progettati e curati professionalmente per imitare le identità degli utenti legittimi». Il malware in questione è stato denominato LidShift, ed è capace di eseguire il keylogging (ovvero registrare i tasti premuti dall’utente sulla tastiera) e di comunicare con i server di controllo e comando.

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I criminali informatici, nel corso degli ultimi anni, hanno cominciato ad utilizzare sempre di più i vari social, con lo scopo di diffondere malware e di rubare i dati sensibili degli utenti; LinkedIn fa parte delle piattaforme preferite dai cybercriminali.

Questi criminali creano dei falsi profili su LinkedIn, che sembrano appartenere a persone in carne ed ossa, con titoli prestigiosi, quali CEO, CFO e responsabili delle Risorse Umane. Tuttavia, sono profili che servono semplicemente ad entrare in contatto con potenziali vittime su LinkedIn, offrendo loro allettanti (ma inesistenti) opportunità di lavoro.

L’obiettivo, infatti, non è quello di fare affari, ma soltanto di diffondere virus e rubare informazioni personali, nomi utente e password, sino ad arrivare a bloccare completamente il sistema operativo. In alcuni casi, i criminali si fingono interessati ad un’offerta di lavoro, chiedendo alla vittima di inviare il CV o di fornire informazioni precise sul background lavorativo.

Tutte informazione necessarie a rubare le identità delle vittime oppure per compiere frodi. Se vogliamo evitare di cadere vittime di questi attacchi, è fondamentale assumere delle precauzioni durante l’utilizzo di LinkedIn come strumento di ricerca di lavoro.

Verifichiamo sempre, dunque, se il profilo che ci ha contattato ha una foto profilo autentica, con una descrizione di lavoro in linea con il suo titolo professionale. Evitiamo di cliccare su link sospetti, o, peggio ancora, di scaricare file inviati da sconosciuti su LinkedIn.

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Siamo sempre più vicini all’identità digitale europea. È la fine di Spid?

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Siamo sempre più vicini all’identità digitale europea. È la fine di Spid?

È cominciata la resa dei conti sull’identità digitale unica europea. Il Parlamento Ue ora dovrà decidere se dare l’ok all’avvio dei negoziati con Consiglio e Commissione riguardo la riforma del regolamento Eidas, ovvero il regolamento che fornisce una base normativa sui servizi e sui mezzi di identificazione elettronica all’interno dell’Ue.

Una riforma che avrà delle conseguenze pratiche, dato che si occupa dei dati personali dei cittadini europei, del loro uso e della loro archiviazione. La via che si intende percorrere è quella di un sistema comunitario di identità digitale, basato su un’app per smartphone che permette di condividere soltanto le informazioni necessarie. Per esempio, se devo semplicemente dimostrare di essere maggiorenne, l’app esibirà soltanto la mia data di nascita.

La riforma Eidas, per l’Italia, confluisce nel sistema pubblico di identità digitale e della carta d’identità elettronica – rispettivamente, Spid e Cie. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni vorrebbe mettere mano su questo duopolio, anche in prospettiva del futuro sistema europeo.

La soluzione ideale sarebbe l’Identità Digitale Nazionale, un progetto che mescola Spid e Cie in un unico sistema. Sono molti, tuttavia, i punti interrogativi e i nodi ancora da sciogliere.

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Il sistema comune di identità digitale, che la Commissione Ue vorrebbe rendere reale entro il 2025, ha mosso ben 63 milioni di euro per la realizzazione di sperimentazioni che aiutano il processo di progettazione di servizi e app.

Ci sono ancora molti dubbi sul livello di garanzia da adottare per il wallet europeo. Alto, sostanziale e basso: questi i tre livelli contesi. Alto è il livello della CIE, mentre il livello di Spid è sostanziale. Per il Consiglio e il Parlamento Ue, il livello desiderato è quello alto.

Spinge verso questa direzione la Germania, che ha investito molto sulla CIE, assegnandola a tutti i cittadini. Tuttavia, Bitkom, associazione di categoria tedesca, che rappresenta ben 2.700 aziende di economia digitale, si schiera contro la scelta del livello di sicurezza alto.

Anche l’italiana Assocertificatori è di questa opinione: un livello alto, infatti, necessita di lettori di smart card oppure di alcuni requisiti tecnici che ostacolerebbero l’esperienza dell’utente. Dati Agid del 2022 certificano che, nonostante il numero di iscritti a Spid e Cie sia praticamente identico, gli italiani preferiscono Spid per accedere ai servizi online

Anche la Germania, nonostante le 60 milioni di CIE, ha contato soltanto 11 milioni di accessi nel 2021.

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La Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia del Parlamento europeo (Itre) avrebbe proposto di garantire FEQ (firme elettroniche qualificate) gratis per tutti i cittadini. Ma Bitkom ed European Signature Dialog, un’altra associazione di categoria, hanno contestato la scelta.

Per garantire la gratuità a tutti della FEQ, infatti, dovranno essere i vari Stati a finanziare l’intera Infrastruttura informatica. Dunque, se il cittadino non paga in maniera diretta, si compenserà con maggiori tasse.

Bitkom chiede anche di fare chiarezza su chi riceverà l’autorizzazione a gestire il wallet europeo. Ad oggi, l’art. 6 del regolamento prevede tre diversi casi: la gestione diretta dello Stato, il mandato del Governo ad un fornitore e il libero mercato.

Non è ben chiaro se queste tre condizioni possano coesistere o se l’una esclude l’altra.

Il regolamento Eidas viene combattuto anche a livello politico. In un attimo si potrebbe trasformare nel cavallo di Troia per la schedatura digitale o per la sorveglianza su larga scala.

Tuttavia, sottolinea l’eurodeputato Patrick Breyer, come la proposta del Parlamento prevede che «i dati nel wallet devono essere archiviati sul dispositivo dell’utente, salvo che non scelga esplicitamente che sia creata una copia esterna sul cloud» e che «protegge il diritto a usare i servizi digitali in modo anonimo».

Il codice sorgente del wallet, in ogni caso, sarà open source (trattasi di un software libero da copyright e modificabile dagli tutti gli utenti).

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L’attuale impasse sui negoziati impatta anche sull’Italia, in particolar modo su Spid. Certo, sembra ormai consolidato che il governo voglia trovare un nuovo accordo con i gestori al fine di rinnovare le convenzioni già scadute lo scorso dicembre e prorogate fino al prossimo aprile.

Sembra che al Dipartimento per la Trasformazione Digitale si stia lavorando molto duramente all’Identità Digitale Nazionale, al fine di far confluire insieme Spid e Cie: una specie di antipasto verso l’identità europea.

Il governo crede molto nel progetto, forse troppo: il rischio è quello di ritrovarsi con un doppione dell’app Ue, dato che Bruxelles ha già assegnato l’appalto per la realizzazione del wallet europeo.

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Durante il concorso per entrare in magistratura (GU del 10 dicembre 2021), un candidato si sarebbe messo d’accordo con uno dei componenti della Commissione esaminatrice al fine di superare l’ultima prova scritta.

La truffa consisteva nel rendere riconoscibile, tramite un segno, l’elaborato del partecipante al concorso. Tuttavia l’imprevisto, come spesso accade, è sempre dietro l’angolo. Il candidato, infatti, invia la parola chiave al commissario sbagliato; quest’ultimo, tuttavia, non perde tempo e denuncia il fatto.

Ed ecco che cominciano le indagini, coordinate da Francesco Lo Voi, procuratore capo di Roma. Ci si chiede, però: come mai un candidato ha a disposizione i numeri di telefono di alcuni esaminatori? «Abbiamo cercato i profili penali, e se non avessimo avuto il reato di tentato abuso d’ufficio su un fatto come questo, che a me appare grave, non avremmo potuto fare nulla».

Le reazioni, soprattutto sui social, non sono tardate ad arrivare. In molti si sono chiesti, infatti, come il candidato, “superato” il concorso, avrebbe svolto il suo lavoro, in veste di pm o di giudicante. Interviene sulla vicenda anche Stefano Cavanna, avvocato ed ex componente del Csm: «Il procuratore Lo Voi ha evidenziato l’evento straordinario dell’errore nell’invio di sms, che ovviamente ha reso palese la situazione».

Continua Cavanna ai microfoni del Dubbio: «Quando facevo parte del Csm, aprii una pratica in Terza Commissione. Avevo letto sulla stampa e poi ricevetti le segnalazioni di alcuni candidati al concorso in magistratura. Riguardavano diversi casi di elaborati che si presentavano in maniera molto singolare. Per esempio scritti saltando una pagina, scritti sulle pagine solo pari».

Ci sono stati anche «elaborati scritti a mezza pagina. Tutte modalità di redazione che non sono consuete quando una persona scrive su un protocollo, sostenendo una prova d’esame. La mia iniziativa fece all’epoca un certo scalpore».

Ma tutto finì su un binario morto. Aggiunge Cavanna: «Con l’apertura della pratica ci si soffermò sui poteri in capo al Csm, considerato che la materia è di competenza prettamente ministeriale. I togati presenti a Palazzo dei Marescialli apprezzarono la mia iniziativa. Riuscimmo a convocare il Presidente della commissione esaminatrice dell’epoca, il quale fu ascoltato e mandò alcune memorie».

In seguito «emerse una situazione che per un cittadino è molto curiosa, non così, però, per un giurista. Il presidente della commissione del concorso sostenne che vennero adottati alcuni criteri conformi alla giurisprudenza del Consiglio di Stato».

A questo punto, l’analisi si fa sempre più sconsolata. «Palazzo Spada ha rilevato che un compito, anche se scritto in maniera strana, non è riconoscibile, salvo che non abbia un contenuto e non abbia niente a che fare con l’oggetto dell’esame. Mi colpì un elaborato in cui venne annotata a margine una norma che non c’entrava niente. Quello fu ritenuto un segno di riconoscimento, perché esulava dalla traccia dell’esame».

«La giurisprudenza del Consiglio di Stato e del Tar mi sembra molto permissiva. E’ ovvio che se io scrivo un compito su una pagina sì e una no, oppure a metà pagina o iniziando quattro righe dopo, posso indicare al commissario di turno certi riferimenti per il riconoscimento dell’elaborato. Quanto emerse dalle verifiche che feci avviare mi indussero successivamente a mollare la presa».

«Il messaggio», conclude, «inviato a chi non doveva riceverlo, ha fatto emergere quanto abbiamo appreso in queste ore. Tutto il meccanismo, come possiamo ben notare, si trasferisce da un piano amministrativistico ad uno penalistico, con le discussioni che ne sono conseguite sull’abuso d’ufficio. Da ex consigliere del Csm, avendo già sollevato una questione analoga, purtroppo, non mi meraviglio di niente».

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Se un ricorso risulta tardivo in quanto depositato poco dopo la mezzanotte dell’ultimo giorno utile, per un problema di lentezza di caricamento del sistema, viene riconosciuta la sussistenza dell’ipotesi della causa non imputabile e di errore fatale, con rimessione in termini.

Questo secondo quanto affermato, con l’ordinanza 6944 dell’8 marzo 2023 dalla Corte di Cassazione.

Bisogna ricordare che la remissione in termini è possibile soltanto a condizione che il ritardo dell’impugnazione sia causato da un fatto incolpevole ed oggettivo, senza rilevare difetti di comunicazione o ulteriori motivazioni che non hanno un reale fondamento.

Interviene sul punto anche l’ordinanza 9945/2020 della Corte di Cassazione, con la quale si stabilisce che il soggetto, se deposita una richiesta di rimessione a causa di tardiva impugnazione, dovrà dimostrare che il ritardo in questione non poteva essere a lui imputabile.

In questo caso, il Tribunale di Napoli, con decreto dell’11 maggio 2021, aveva dichiarato l’inammissibilità della rimessione in termini, visto il ricorso messo in atto contro il provvedimento della Commissione territoriale, proposto oltre il termine dei 30 giorni, così come stabilito dal DL 25/2008, art. 35-bis.

Il ricorrente, contro la sentenza, ha adito la Corte di Cassazione, illustrando e proponendo tre motivi differenti di ricorso. In particolar modo, il ricorrente afferma che l’istanza di remissione depositata dal legale era meritevole di accoglimento, poiché i pochissimi minuti di ritardo nel deposito del ricorso erano completamente imputabili ad un problema di tipo informatico.

Con l’ordinanza 6944/2023, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, rinviando allo stesso tribunale per un nuovo esame per la decisione impugnata e per regolamentare le spese di giudizio di legittimità. Il Collegio ribadisce che il deposito telematico di un atto processuale, se soggetto ad un errore fatale non a carico del mittente, è riconducibile all’impossibilità del sistema di caricare l’atto all’interno del fascicolo telematico.

Il cancelliere, dunque, vedendosi impedita l’accettazione del deposito, non determinerà alcun effetto invalidante, poiché non è presente il pieno raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c. comma 3).

E’ necessaria la dimostrazione della decadenza in quanto determinata da una causa non direttamente imputabile alla parte e cagionata da fattori estranei alla sua volontà. Dunque, si conclude che la tardività del deposito, in quanto causata da un problema di tipo informatico, renda ammissibile il ricorso per la rimessione in termini.

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Da sempre, i brand, per attrarre nuovi clienti, utilizzano persone come testimonial, attingendo dal mondo dello sport e dello spettacolo.

Tuttavia, è da diversi anni che si sta affermando una nuova tendenza all’interno di Studi Legali e aziende, in maniera parallela alle nuove dinamiche di comunicazione sul web e alle nuove istanze sociali attente all’ambiente, ai diritti e alla gender equality.

Ma chi meglio potrebbe veicolare al pubblico determinati messaggi se non gli stessi collaboratori? Siamo in una nuova epoca di branding e di comunicazione: siamo nella employee advocacy.

Il concetto di valore

Nel corso degli anni, il concetto del valore di prestazioni e servizi è cambiato radicalmente. Prima era limitato al prestigio del prodotto, mentre ora ha un’accezione più ampia, andando ad abbracciare la filosofia e lo stile dello Studio Legale.

Oggi, la percezione del valore di un brand passa dal suo impatto sociale, dal rispetto che ha dei collaboratori, dal work-life-balance, dalla tutela della parità di genere, dal clima lavorativo che si respira, dalle attività pro bono e  filantropiche e dall’impatto ambientale.

In altre parole, un prodotto o un servizio assume valore se aiuta la collettività, se non inquina, se cerca di porre rimedio all’impatto che genera e se garantisce condizioni lavorative che seguano un’etica del benessere e del rispetto.

I collaboratori, i migliori brand ambassador

Dunque, abbiamo detto che sono gli stessi collaboratori a divenire i migliori brand ambassador. Divengono i migliori portavoce, danno un volto umano all’azienda o allo Studio Legale e attivano anche una catena di passaparola.

I collaboratori raccontano della propria esperienza e ci mettono la faccia: ed ecco che gli Studi si ritrovano con i testimonial in casa. I clienti vedranno i prodotti e i servizi umanizzati grazie ai volti delle persone, si immedesimano nelle loro storie e partecipano, inconsapevolmente, al backstage dei servizi offerti.

La employee advocacy risulta molto efficace sul brand, sul mercato e sui clienti, ma anche e soprattutto per attrarre i giovani talenti (talent attraction).

Viva i social

Le testimonianze dei collaboratori offrono un vero e proprio sostegno ad aziende e Studi Legali, diventando un reale patrimonio per il brand.

Ma in che modo i collaboratori supportano la diffusione dei valori e della filosofia dello Studio? I canali social dello Studio, per esempio, rappresentano senza alcun dubbio uno strumento importantissimo in questa operazione. Bisognerà procedere, dunque, alla creazione di un programma interno allo Studio, che i tutti i collaboratori dovranno seguire rigorosamente.

Lo Studio utilizzerà i propri collaboratori, che condivideranno online esperienze, storie e opinioni. Ci sono diversi ricerche, infatti, che certificano che l’affidabilità viene riposta proprio nei collaboratori e nei dipendenti delle aziende, molto di più rispetto agli Studi in sè.

Invece di assumere attori per le pubblicità, saranno i collaboratori stessi a prestare il loro volto, mentre parlano apertamente del loro ruolo nello Studio. Nulla di nuovo, se ci pensiamo bene: è come entrare in un negozio di calzature e osservare i dipendenti indossare le calzature che devono vendere. Anche questa è una forma di employee advocacy!

Oggi il marketing viaggia principalmente nel web: come riprodurre queste dinamiche mutatis mutandis? Ricordiamoci che le persone si fidano delle opinioni dei pari (peer), e non di ciò che afferma la pubblicità dello Studio: il 90% della fiducia nei confronti di prodotti e servizi deriva proprio da ciò che pensano e dichiarano i peer!

I collaboratori, quindi, sono percepiti come più vicini, e sono loro che avvicinano i clienti attivando il passaparola. Ma per ottenere dei risultati non si può procedere in maniera occasionale e casuale: bisogna affidarsi ad una strategia ben mirata, investendo anche su una precisa politica aziendale.

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Non sono previste sanzioni per il praticante avvocato che è stato indotto dal proprio dominus, con un atto scritto, a sostituirlo dinanzi al Tar di Salerno. Questo è quanto stabilito dal CNF con la sentenza 201/2022, accogliendo in tal modo il ricorso nel quale si lamentava l’assenza dell’illecito disciplinare, poiché non ci sarebbe stata condotta volontaria e cosciente.

Il Consiglio di disciplina, lo avrebbe ritenuto responsabile non della violazione dell’art 36 CDF, ma dell’art. 12 CDF, poiché avrebbe esercitato un’attività di patrocinio illegittima e non consentita, idonea, quindi, a invalidare gli atti processuali.

Ma vista l’assenza di pregiudizi per la parte e il carattere «lieve e scusabile dell’infrazione» e di una «prognosi positiva» nei confronti di un comportamento futuro, aveva optato per un richiamo verbale.

Il CNF ricorda che secondo l’art. 41, co.12, legge 247/2012, il praticante può svolgere un’attività per cinque anni senza limiti territoriali ed esclusivamente per sostituire il proprio dominus, «sotto il controllo e la responsabilità dello stesso anche se si tratta di affari non trattati direttamente dal medesimo», dinanzi ad uffici giudiziari indicati dalla Legge, tra i quali non è presente il Tar ma soltanto il Giudice di Pace e il Tribunale ordinario.

Il CNF, nell’accogliere il ricorso, afferma che in questo caso non esisteva una «specifica e chiara consapevole volontà del ricorrente», che «non ebbe a sottoscrivere atti, ma semplicemente a presenziare in sostituzione del suo dominus all’udienza di merito innanzi al Tar» senza svolgere, dunque «alcuna difesa propria della parte».

Inoltre, il praticante avrebbe agito «in forza di delega scritta da parte del suo dominus, nei confronti del quale non poteva non nutrire profonda ed illimitata fiducia e stima non solo personale ma soprattutto professionale per essere il suo “maestro”, il quale proprio con il conferimento della procura scritta lo invitava a sostituirlo».

Si tratta di una circostanza nella quale è presente «un evidente elemento di affidamento e rassicurazione, né può tacersi che proprio il sentimento di grande rispetto che il ricorrente nutriva nei confronti del delegante lo ha indotto ad eseguire quanto richiesto con evidenza di metus reverentialis».

Quindi, aderendo al principio del favor rei, il Collegio dovrebbe ritenere carente l’elemento psicologico della condotta, poiché il futuro avvocato è «stato tratto in errore dal proprio dominus».

In via definitiva, non è responsabile a livello deontologico e non può essere sanzionato disciplinarmente il praticante che, essendo stato indotto in errore dal dominus, lo sostituisca durante l’udienza di un processo.

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Martedì 15 marzo 2023, al Senato, la commissione che si occupa delle politiche europee, ha bocciato una proposta Ue che mirava a rendere più uniformi le procedure di riconoscimento dei figli negli stati Ue.

Parliamo di un voto privo di valore legislativo, poiché la proposta Ue è attualmente in discussione e verrà votata, in futuro, dal Consiglio Ue. Tuttavia, è un voto con un chiaro significato politico, che ha permesso alla maggioranza del governo di prendere una posizione su un tema molto discusso riguardo ai diritti civili nel nostro Paese.

La proposta Ue consentirebbe alle famiglie che hanno deciso di avere figli in qualsiasi Stato Ue di avere diritto ad un riconoscimento automatico della genitorialità anche nel proprio Paese grazie ad un certificato europeo di filiazione.

In Italia la misura sarebbe qualcosa di fondamentale sia per le famiglie omogenitoriali ma anche per le coppie eterosessuali che hanno avuto figli con tecniche di procreazione assistita, nelle quali la gestazione è “a carico” di una persona esterna alla coppia.

Tali tecniche, in Italia, sono vietate. Dunque, chi ha intenzione di avere figli in questo modo dovrà concepirli all’estero e, soltanto successivamente, il genitore non biologico potrà procedere a richiedere in Italia il riconoscimento del legame di parentela, che avviene a discrezione delle varie amministrazioni locali.

Nella maggior parte dei casi, al fine di ottenere un riconoscimento, si attraversano delle lunghe (quanto costose) controversie legali. Di solito il genitore non biologico viene considerato formalmente come estraneo per il bambino o per la bambina. Di conseguenza, per andare a prendere i figli a scuola ci sarà bisogno di una delega, creando discriminazioni che colpiscono i figli stessi.

Che cosa prevede la proposta Ue

La proposta Ue prevede che i genitori di un minore, che vengano riconosciuti come tali da uno Stato Ue, vengano automaticamente riconosciuti come genitori in tutti gli altri Stati Ue. Il certificato europeo di filiazione, nel concreto, potrebbe essere richiesto volontariamente dai figli, da un rappresentante legale o da un genitore.

Ma per la commissione del Senato, questa proposta Ue andrebbe a violare il principio di sussidiarietà, rappresentando, quindi, un’invasione delle istituzioni Ue all’interno della politica nazionale.

Secondo la maggioranza, se dovesse essere approvata la proposta di regolamento Ue, verrebbe riconosciuta implicitamente la legittimità delle forme di procreazione assistita, attualmente vietate in Italia. Secondo Claudio Borghi della Lega, approvare questa proposta equivarrebbe ad uno «sdoganamento della compravendita di bambini».

Per il Pd, invece, «il parere della maggioranza mette l’Italia accanto a Polonia e Ungheria, restringendo l’ambito dei diritti».

Il voto su questa proposta è arrivato proprio quando il governo ha deciso di adottare una misura restrittiva sulle famiglie italiane non tradizionali. Questo basandosi su una recente sentenza della Corte di Cassazione che andava ad escludere «l’automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero».

Sempre basandosi sulla sentenza, il ministero dell’Interno aveva deciso di inviare una circolare alle prefetture nella quale si richiedeva che i sindaci rispettassero tale sentenza, smettendo, dunque, di trascrivere tutti i certificati esteri.

E’ per questo che martedì 14 marzo 2023 il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha annunciato che non verranno più registrati i genitori non biologici negli atti di nascita dei bambini con due padri o due madri. In quest’ultimo caso ci si riferisce soltanto ai bambini nati in Italia, poiché non esistono indicazioni sui parti delle coppie di donne all’estero.

Milano era una delle pochissime città italiane che riconosceva automaticamente l’omogenitorialità tramite fecondazione eterologa oppure tramite gestazione per altri.

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Addio al Reddito di Cittadinanza: le novità sulla nuova misura Mia

Mia, acronimo di Misura di Inclusione Attiva, è il sussidio che il governo introdurrà al fine di sostituire l’attuale reddito di cittadinanza. Quest’ultima misura, infatti, a causa della legge di bilancio, era stata prorogata soltanto fino al prossimo luglio.

In teoria, la Mia dovrebbe essere attivata già da quest’anno, e sarà possibile richiederla da agosto/settembre. Il governo, che ha accolto la proposta che era stata avanzata tempo fa dal sottosegretario al Lavoro Durigon, dovrebbe escludere la possibilità che il nuovo sostegno, a differenza del reddito di cittadinanza, possa essere richiesto a ripetizione.

Con la riforma del reddito e della pensione di cittadinanza, e l’assorbimento di questa nella Mia, il governo andrebbe a risparmiare una cifra tra i 2 e i 3 miliardi di euro ogni anno.

Una condizione per ottenere la Mia, probabilmente, sarà la sottoscrizione di un patto personalizzato all’interno di un centro per l’impiego. Una delle novità più importanti riguarda le agenzie di lavoro private, che potrebbero ottenere degli incentivi per tutte le persone occupabili che riescano a firmare un contratto, anche a tempo determinato o part-time.

Nuclei con occupabili e con non occupabili

L’esecutivo avrebbe richiesto di dividere i beneficiari potenziali della Mia in due fasce differenti, ovvero in nuclei con persone non occupabili e nuclei con persone occupabili. Nel primo tipo di nucleo sono presenti minorenni, over 60 oppure persone con disabilità.

All’interno delle famiglie senza occupabili, la durata massima della misura ammonterà a 18 mesi dalla prima domanda e 12 mesi dalla seconda. Prima di poterla richiedere ancora bisognerà attendere un altro mese.

Nei nuclei con persone occupabili, invece, il sostegno scadrà dopo 12 mesi dalla prima richiesta e 6 mesi dopo la seconda. L’eventualità di una terza richiesta potrà essere ripresentata soltanto dopo uno stop di un anno e mezzo. Il governo, infatti, vorrebbe spingere in tal modo gli interessati alla ricerca attiva di un impegno.

Importo base

Per gli occupabili che beneficiano del reddito di cittadinanza dovrebbe essere presente la possibilità di presentare domanda per un nuovo sostegno, meno remunerativo rispetto al reddito di cittadinanza ma anche della Mia destinata a nuclei con persone non occupabili.

L’importo base del sostegno, per i nuclei familiari con una sola persona, resta identico ai 500 euro già previsti dal reddito. Non è ancora certo l’ammontare della somma extra destinata all’affitto: il reddito arrivava sino a 280 euro al mese, ma questa quota potrebbe essere abbassata. Per le persone occupabili, invece, il sostegno base viene ridotto a 375 euro.

Tetto Isee

Ma anche i requisiti Isee necessari per l’accesso al beneficio dovrebbero essere rivisti. Il tetto necessario per individuare i beneficiari della Mia dovrebbe scendere dagli attuali 9.360 euro a 7.200 euro.

Secondo il Corriere, il taglio potrebbe escludere un terzo degli attuali percettori del reddito, incidendo positivamente sulla scala di equivalenza. L’importo corrisposto aumenterebbe, dunque, rispetto al singolo componente del nucleo, e quelli più numerosi verrebbero assistiti meglio.

Per evitare di correre il rischio di censura da parte dell’Ue o della Consulta, il governo potrebbe portare il requisito di residenza in Italia da 10 a 5 anni, aumentando di poco la platea dei beneficiari.

Piattaforma online nazionale

Il ministero del Lavoro dovrebbe realizzare una nuova piattaforma nazionale online, alla quale gli occupabili dovrebbero iscriversi obbligatoriamente e tramite la quale ricevere offerte congrue: il diritto alla prestazione dovrebbe cadere al primo rifiuto.

L’offerta, in questo senso, si ritiene congrua poiché in linea con il profilo della persona occupabile se la sede di lavoro si trova all’interno della provincia di residenza della persona beneficiaria, oppure in una delle province confinanti.

Vengono considerate congrue anche le offerte con contratti brevi, se superiori ai 30 giorni.

Per riuscire a combattere il fenomeno del lavoro in nero congiunto al reddito di cittadinanza, il governo consentirà di cumulare alla nuova misura fino a 3.000 euro all’anno, non solo con redditi da lavoro intermittente o stagionale, ma anche con altri tipi di lavoro dipendente.

Dopo aver superato tale soglia, l’erogazione della misura di inclusione attiva verrà sospesa per tutta la durata del rapporto di lavoro per poi essere riattivata al termine.

Maggiori controlli

Per il Corriere, la nuova riforma andrebbe a rafforzare le norme sui controlli, sul lavoro in nero, sulle dichiarazioni di falso e sulla decadenza del beneficio per le persone che non rispettano gli impegni previsti.

Per confermare l’importanza di tali norme possiamo contare sul totale dei percettori del reddito, calato drasticamente in seguito al rafforzamento dei controlli stabiliti dai governi Draghi e Meloni. A gennaio 2023, le famiglie beneficiarie di reddito e pensione di cittadinanza erano 1.160.714, ovvero 200mila in meno rispetto all’anno precedente.

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