Vietare i social ai minori di 13 anni: se ne riparla dopo il caso Chiara Ferragni

In Francia, per potersi iscrivere ad un social network, d’ora in poi bisognerà avere 15 anni. Si tratta di una proposta di legge approvata praticamente all’unanimità dall’Assemblea Nazionale in prima lettura, con 82 voti contro 2.

L’idea sarebbe quella di ricalcare il modello parigino, fissando dei paletti anche in Italia. Il piano è stato annunciato da Carlo Calenda, leader di Azione. L’obiettivo sarebbe l’introduzione di un divieto di iscrizione per le persone che hanno meno di 13 anni, consentendo a coloro che non hanno ancora raggiunto i 15 anni d’età di utilizzare un account social soltanto tramite il consenso dato dai genitori.

I social, in questo modo, saranno tenuti a verificare minuziosamente l’età degli utenti per consentire la registrazione dei minori.

Il caso Ferragni

Se ne ritorna a parlare dopo l’accesa discussione degli ultimi giorni, che ha visto come protagoniste la famosa imprenditrice digitale Chiara Ferragni e una ragazzina di 11 anni, che ha commentato una foto condivisa su Instagram da Ferragni, che la ritraeva seminuda davanti ad uno specchio.

L’undicenne ha commentato: «A parte che in questa foto non fai vedere vestiti o costumi da bagno, ma praticamente te stessa nuda. Qual è il messaggio per noi ragazzine? Che per farci notare dobbiamo metterci nude? Io non lo trovo un bel messaggio da mandare».

La risposta di Ferragni non è tardata: «Il messaggio per tutte, ragazzine e non, da parte mia è molto semplice: nessuno ci può giudicare o farci sentire sbagliate. Pubblicare una foto così non dovrebbe far vergognare nessuno e anzi dimostrare che ognuno è libero di essere se stesso e celebrarsi quando si sente di farlo».

In molti hanno preso le difese della ragazzina, criticando la scelta di Ferragni. Racconta la madre dell’undicenne a Repubblica: «Ho dovuto disattivare le notifiche ai suoi post per evitare che leggesse commenti poco piacevoli».

Il profilo della ragazzina è stato cancellato, e per alcuni sarebbe vittima di censura online, visto che, sempre secondo alcuni, il commento non sarebbe stato particolarmente gradito da Ferragni. La tesi è sostenuta anche dalla madre, che dichiara ai microfoni del Corriere della Sera: «Io non posso accettare che mia figlia, per aver espresso un’opinione, peraltro condivisa da tante persone, sia stata messa a tacere, bannata, eliminata».

Tuttavia, le regole di Instagram sono chiare: non ci si può iscrivere al social se si ha meno di 13 anni.

Utilizzare i social in maniera consapevole

Secondo la nuova legge, saranno previsti controlli e sanzioni nei casi di inadempienza per le piattaforme che non andranno a verificare correttamente se i dati anagrafici sono esatti. Spiega l’ex ministro dello Sviluppo economico durante la trasmissione di Rai 3 Mezz’Ora in più: «Ci dovrà essere anche un riconoscimento dell’identità».

Attualmente, la proposta di legge si trova in fase di costruzione. Secondo alcune fonti parlamentari di Azione, il progetto mira ad un utilizzo più consapevole dei social: «E’ una questione di responsabilità. I minori non sentono più la necessità di incontrarsi, ma soprattutto rischiano di essere assuefatti dagli smartphone. Non si può lasciare il compito di educarli solo alla scuola e alle famiglie, occorre una regolamentazione».

Il tema è molto sentito anche dai genitori. Durante il Safer Internet Day, evento promosso dalla Commissione Europea per un utilizzo migliore e consapevole di Internet, Telefono Azzurro ha presentato un progetto alla Camera, per poter innalzare l’età minima per utilizzare i social da 14 a 16 anni: «il primo scopo è quello di preservare la salute mentale dei minori, evitando un’esposizione ai social network in età troppo giovane».

Calenda sta cercando di replicare il modello francese con gli esperti del settore, per «ridurre i fenomeni di cyberbullismo». In Francia, la soglia era già stata inserita nel 2018, anche se non è stata realmente applicata e non c’è stato alcun impatto: sui social è stato accertato che la prima registrazione avviene circa a 8 anni e mezzo, e la fascia d’età più presente nei social è quella 10-14.

In Italia ci sono tantissimi giovani tra gli 11 e i 12 anni ad avere un profilo TikTok, Snapchat o Instagram. Circa 4 ragazzi su 10 dichiarano inoltre di avere un profilo pubblico, ovvero aperto e accessibile a tutti.

Le associazioni dei genitori contro gli smartphone

Ma non solo Francia o Italia discutono circa l’utilizzo dei social da parte dei minori: anche in altri Paesi il dibattito sull’utilizzo degli smartphone da parte dei più giovani prende sempre più piede. Nella città irlandese di Greystones, per esempio, i genitori hanno fatto in modo che i figli non possano avere uno smartphone almeno fino alla scuola secondaria.

Nelle otto scuole elementari presenti nella zona, le associazioni dei genitori hanno deciso di evitare che i figli, non ancora adolescenti, utilizzino uno smartphone. Riferisce una mamma al Guardian: «Se lo facciamo tutti insieme non ti senti come se fossi strano. Più a lungo riusciremo a preservare la loro innocenza, meglio sarà».

Alla base della scelta di questi genitori, molto probabilmente c’è la preoccupazione che gli smartphone alimentino l’ansia dei bambini, esponendoli a materiale per persone adulte. Infatti, per Rachel Harper, preside della scuola di San Patrizio a capo dell’iniziativa, «l’infanzia sta diventando sempre più breve».

Probabilmente, la molla è scattata nel momento in cui bambini di nove anni hanno cominciato a chiedere ai genitori di avere uno smartphone. L’unica soluzione alle quale sono giunti, in questo caso, è stato un patto collettivo, che diventa anche un esperimento sociale molto interessante.


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Braccialetto elettronico e processi rapidi: in arrivo una procedura più rigorosa per applicare il braccialetto elettronico, la revisione della distanza minima di avvicinamento alla vittima di violenza di genere e domestica.

Verso anche una valutazione più stringente dell’esito dei corsi di recupero destinati ai sex offenders, finalizzati alla sospensione condizionale della pena ma anche dell’eventuale diritto di restare in Italia se i responsabili della violenza di genere sono persone straniere.

“Un tagliando alla normativa attuale”

Sta arrivando la revisione delle norme per poter fronteggiare la violenza contro le donne: l’approfondimento era già cominciato a febbraio, dapprima con la convocazione dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne da parte del Dipartimento Pari Opportunità, al quale hanno partecipato le associazioni, e successivamente un tavolo interministeriale avvenuto tra Eugenia Roccella, ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità, Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno e il Guardasigilli Carlo Nordio.

La ministra Roccella definisce l’operazione come un tagliando alla normativa attuale, che nel prossimo consiglio dei ministri si concretizzerà, visti gli ultimi casi eclatanti di femminicidi. Nel pacchetto si prevede di rafforzare le tutele per le vittime di violenza domestica e di genere per quanto riguarda l’accesso ai percorsi di giustizia riparativa e per la formazione degli operatori, come le forze dell’ordine, che devono relazionarsi con le vittime.

Un aspetto importante è la reale attuazione della legge 53/2022 relativa alla raccolta dati che permette il monitoraggio dei reati spia. Tra i vari obiettivi delle misure relative all’esame del Governo troviamo anche la velocizzazione dei processi di tali reati. La nuova normativa sulla violenza contro le donne, dunque, punta tutto su tre punti base, ovvero: prevenzione, sicurezza e giustizia.

Bisogna velocizzare i tempi

Nel frattempo, le associazioni chiedono a gran voce alla politica di fare presto: Differenza Donna, per esempio, gestore del 1522, il numero nazionale antistalking e antiviolenza, ha rivolto un appello al premier Meloni e alla ministra Roccella, poiché il piano nazionale antiviolenza è ormai «fermo da troppo tempo».

Differenza Donna chiede anche dei fondi straordinari in supporto alla rete dei centri antiviolenza per aprire delle nuove case rifugio, visto che il fenomeno sembra aumentare sempre più. Telefono Rosa dice che l’esigenza più immediata è quella della realizzazione di una gran campagna informativa che, come puntualizza la presidente Maria Gabriella Cernieri Moscatelli, «deve essere fatta a tappeto su tv e giornali, per far acquisire alle stesse donne la consapevolezza di che cosa sia la violenza di genere, per capire da subito i primi segnali e non sottovalutarli».

Assolutamente fondamentali, per Telefono Rosa, corsi di formazione per operatori che procedano ad educare i giovani nelle scuole: soltanto così si riesce ad intervenire sul cambio culturale che tutti richiedono.

Qualche dato

Dall’inizio del 2023 ci sono già state 23 donne che, dopo aver deciso di porre fine alla loro relazione violenta, sono state uccise dal loro partner. Si pensi anche al recente caso di Giulia Tramontano, una giovanissima donna incinta uccisa dal fidanzato.

Nel 2022 sono avvenuti 319 omicidi. 120 di questi casi, erano femminicidi. Nonostante il numero degli omicidi volontari sia diminuito dagli anni ’90 ad oggi, il numero di donne uccise sembra aumentare.

L’Italia presenta il secondo dato più basso in tutta Europa per quanto riguarda l’incidenza degli omicidi, 0,48 ogni 100mila abitanti, contro una media europea di 0,89, ma anche per quanto riguarda i femminicidi la media è inferiore rispetto a quella europea, ovvero 0,38 contro 0.66.

In ogni caso, i dati non sono rassicuranti. Nel 2020, in Italia, l’85,3% degli omicidi di donne sono stati commessi da familiari oppure da partner ed ex partner, mentre nel 2012 la quota era del 74%.

Nel 2022, ci sono state 33.000 ricerche su Google con le parole “uomo violento”, che comprendevano anche “uomo violento cosa fare”, “come allontanare un uomo violento” e “come comportarsi con un uomo violento”.

Riportiamo di seguito il numero di ricerche effettuate relative a situazioni coniugali e relazionali, come:

  • 3.840 ricerche per “mio marito quando beve diventa cattivo”;
  • 2.520 ricerche per “mio marito ha scatti d’ira”;
  • 2.040 ricerche per “mio marito mi picchia”;
  • 7.080 ricerche per “è normale che il mio ragazzo mi picchi”.

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Due maxi multe ad Amazon: ha violato la privacy degli utenti

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Efficienza e ambizione: questi gli elementi che caratterizzano il nuovo strumento di assistenza legale, GiuriMatrix, completamente basato sull’intelligenza artificiale. GiuriMatrix è uno strumento ambizioso, visto che vuole essere utile per qualsiasi operatore del mondo del diritto, e non soltanto per gli avvocati.

Inoltre, GiuriMatrix vuole essere uno strumento di supporto innovativo per tutti i professionisti del diritto che hanno intenzione di svolgere il proprio lavoro in maniera efficiente e precisa. Il software alla base è dotato di una tecnologia avanzata, che permette ai professionisti del settore di migliorare la qualità del lavoro svolto, risparmiando tempo prezioso e aumentando la produttività.

A fondare GiuriMatrix ci hanno pensato l’avvocato Luigi Viola, esperto di giustizia predittiva e di intelligenza artificiale, gli ingegneri Francesco Cozza e Pierluigi Casale e il professor Michele Filippelli.

Il metodo di lavoro utilizzato dall’assistente legale di IA prevede che le risposte vengano individuate nella legge, citando la fonte, mentre giurisprudenza e dottrina vengono utilizzate in quanto mezzi per poter trovare la risposta corretta.

«GiuriMatrix non si vuole sostituire in alcun modo al giurista, ma potenziarlo. Non a caso sulle questioni più articolate suggerisce di consultare sempre un avvocato. Il software è totalmente gratuito e capace di rispondere a domande di diritto civile poste con linguaggio naturale: è il primo caso in Italia, tra i primi al mondo», spiega Viola.

In una prova eseguita con GiuriMatrix è stato chiesto al chatbot: «E’ ammissibile la donazione di cosa altrui?». Dopo una ventina di secondi GiuriMatrix ha risposto: «No, non è ammissibile la donazione di una cosa altrui. La donazione può essere fatta solo dal legittimo proprietario della cosa. La donazione di una cosa altrui è nulla e non produce alcun effetto giuridico (Codice Civile, articolo 769)».

Continua Viola: «GiuriMatrix cita sempre la fonte della sua risposta, al fine di restare controllabile confutabile, come si ritiene siano le questioni di diritto».

Sono diversi gli elementi che caratterizzano il software: «Sono presenti dottrina e giurisprudenza, ma al solo fine di agevolare l’individuazione della disposizione codicistica. Ciò in ragione del profondo convincimento che la risposta ad una questione giuridica può venire dalla sola legge, che è vincolante per tutti, e non già dalla giurisprudenza, che al più è arginata dai limiti del giudicato o dalla dottrina che ha funzione orientativa-evolutiva».

GiuriMatrix non è un servizio offerto da Servicematica. Per avere maggiori informazioni in merito, potete cliccare qui sopra per accedere al sito di GiuriMatrix.


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Due maxi multe ad Amazon: ha violato la privacy degli utenti

Netflix: abbonamenti in vendita a 2 euro nel dark web

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Amazon ha violato la privacy degli utenti per quanto riguarda la gestione dei dispositivi di sorveglianza Ring e dell’altoparlante Alexa. Dopo attente indagini, l’azienda è stata multata per più di 30 milioni di dollari, e dovrà pagarli direttamente alla FTC, la Federal Trade Commission, agenzia indipendente degli Stati Uniti.

Anche se per Amazon questa è una cifra irrisoria, d’ora in poi dovrà assolutamente rispettare le nuove regole che sono state imposte dalla Commissione in tema di privacy.

Per Amazon Ring, brand di citofoni smart di Amazon, sono stati disposti 5,8 milioni di dollari. Per la FTC, Amazon avrebbe concesso ai suoi dipendenti «pieno accesso a tutti i video dei clienti», disponibili anche per alcuni appaltatori di terze parti, che hanno potuto scaricare e condividere i video.

Si tratta di un’accusa pesante, che la Commissione riconduce ad «un atteggiamento lassista nei confronti della privacy e della sicurezza» da parte di Amazon. Ring, dopo le accuse, ha licenziato i dipendenti incriminati.

Ma la FTC accusa anche la compagnia di facilitare il lavoro dei cybercriminali consentendo agli utenti di utilizzare semplici password, quali 123456, che rendono possibile forzare in modo semplice l’account.

La Commissione fa notare che più di 55.000 utenti statunitensi hanno subito una violazione del profilo in un periodo compreso tra gennaio 2019 e marzo 2020, dimostrando scarsa attenzione della compagnia nei confronti della privacy dei clienti.

Per poter risolvere la situazione, dunque, Ring ha accettato il pagamento della multa, con l’istituzione di un programma per la tutela della sicurezza dei dati e per rivelare l’accesso che hanno avuto dipendenti e appaltatori alle informazioni sensibili.

La seconda multa, di 25 milioni di dollari, è stata disposta nei confronti di Alexa. La FTC ha sollevato la questione relativa all’utilizzo delle registrazioni delle voci dei bambini che interagiscono con il dispositivo.

Amazon Alexa, infatti, sembra essere molto utile per i bambini con disabilità o per bambini che non sanno scrivere. Per la Commissione, le trascrizioni delle conversazioni dei minori potevano essere conservate per un tempo ragionevolmente necessario, ma la FTC rivela che Amazon «ha conservato le registrazioni dei bambini a tempo indeterminato».

Con queste sanzioni, la Commissione spera di mandare un segnale forte ad Amazon, che si dimostra poco attenta alla privacy e alla sicurezza degli utenti.


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Netflix ultimamente ha fatto molto parlare di sé, a causa del blocco della condivisione delle password. Si tratta di una scelta controversa, che in Spagna ha portato alla perdita di più di un milione di abbonati soltanto nel primo trimestre dell’anno.

Sembra che siano tantissimi gli utenti, dunque, che non hanno intenzione di pagare per sottoscrivere ad un piano individuale. I cybercriminali non hanno perso tempo e hanno colto la palla al balzo: infatti, come riportato da Check Point Software, nel dark web sembrano esserci tantissimi siti che vendono illegalmente gli abbonamenti a Netflix.

Riferisce un portavoce della compagnia: «I criminali informatici spesso sfruttano i bisogni e i desideri degli utenti, allineando i loro attacchi con le tendenze in corso». I ricercatori di Check Point Software, infatti, hanno scovato alcuni canali Telegram che offrono l’accesso all’abbonamento Premium mensile disponibile nella piattaforma, a partire da 190 rupie indiane.

Si tratta di poco più di due euro, promettendo anche «piena efficacia e legittimità dell’accesso», per poter attirare al meglio potenziali clienti. Come possiamo facilmente immaginare, in realtà, gli account in vendita sono collegati ad ulteriori crimini informatici, che derivano principalmente dall’acquisizione illecita delle credenziali oppure dalla violazione degli account.

Dobbiamo considerare, comunque, che l’acquisto di un abbonamento Netflix nel dark web potrebbe essere semplicemente un’azione controproducente. La ricerca mette in evidenza come alcuni utenti non riescano affatto ad ottenere l’accesso all’account acquistato, mentre altri hanno riscontrato un blocco dopo qualche giorno, settimana o mesi.

Ora più che mai risulta fondamentale mettere in sicurezza il proprio account Netflix, riparandosi dai malintenzionati ed evitando che le proprie credenziali vengano vendute nel dark web. Scegliere una buona password, per esempio, aiuta moltissimo, oltre al monitoraggio degli accessi non autorizzati al proprio profilo ma dobbiamo anche prestare attenzione alla riproduzione insolita dei contenuti.


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Sono passati quasi 100 anni dal 2 giugno 1926, il giorno in cui nacque Augusta Bassi, meglio nota come Tina Lagostena Bassi. Si faceva chiamare Avvocata, un titolo conquistato dopo tanti anni di battaglie.

Tina Lagostena Bassi nasce nel 1926 a Milano, da una famiglia agiata, anche se la guerra cambiò le carte in tavola. Infatti, la famiglia Bassi lascia l’Italia nel 1943 per rifugiarsi in Svizzera.

A 19 anni, Tina sposa un avvocato, Vitaliano Lagostena, un uomo che non intralcia affatto lo spirito anticonformista dell’avvocata. Si dice che Lagostena, dopo avere assaggiato i suoi “manicaretti”, abbia constatato che fosse meglio sostenerla nel suo percorso di studi.

Tina Lagostena Bassi decide di iscriversi all’Università di Genova per studiare Legge. Il carico di studio è intenso, e lo condivide con Paolo Villaggio, che lei definisce «un secchione nel vero senso della parola».

Durante gli studi, diventa mamma per due volte. «Pensavo che tutte le donne avessero gli stessi diritti, gli stessi privilegi di cui ho goduto io. Volevo studiare, ho chiesto di studiare, mio marito mi ha detto di sì, era contento, i miei mi aiutavano con i bambini. Era una vita felice, facilissima. Poi ho scoperto che non era così per tutte».

Una vita speciale

Nel 1951, Tina Lagostena Bassi si laurea in diritto penale, e diviene allieva di Giuliano Vassalli, il futuro presidente della Corte Costituzionale, ricordato anche per aver ideato l’evasione di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini dal carcere di Regina Coeli durante la Resistenza romana.

A Parma, le viene offerta la cattedra di diritto della Navigazione, ma dopo un anno decide di lasciare l’incarico per dedicarsi a tempo pieno alla professione. «Ho pensato che era giusto che i miei privilegi venissero messi al servizio delle donne che privilegi non ne avevano, per aiutarle a conquistare i loro diritti».

Tuttavia, Tina si rende immediatamente conto del maschilismo presente nelle aule di giustizia. Nella sua autobiografia, Una vita speciale, racconta degli episodi emblematici. Durante un’udienza, per esempio, un collega asserì, dopo averla guardata con disprezzo, che «le donne dovrebbero stare a casa a fare la calzetta».

Il massacro del Circeo

Ma il trattamento peggiore era riservato alle donne vittime di violenze sessuali, considerate colpevoli a prescindere, sbagliate, adescatrici, libertine. Tina decide di combattere per loro, e crede fermamente nella necessità di riformare il codice Rocco.

Lo stupro, per l’avvocata, non deve assolutamente più essere considerato come reato contro la morale comune, ma come reato contro la persona.

In quegli anni ci fu il processo per il massacro del Circeo, e Lagostena Bassi assiste Donatella Colasanti, che si costituì parte civile. Un processo che si concluse con una sentenza storica, nonostante durante le udienze si sia tentato di screditare più volte la reputazione di Colasanti.

«Donatella ha avuto una vita così difficile da farmi pensare che forse era stata più fortunata Rosaria, la sua amica uccisa al Circeo», disse l’avvocata.

Il processo per il massacro del Circeo fu il primo in cui le donne erano presenti in aula, partecipando, interagendo, mobilitandosi. «Per me è stato un grande momento di presa di coscienza, sentire il modo in cui in tribunale venivano trattate le donne da quel mondo di avvocati e magistrati uomini. Sembravano quasi solidali con i violentatori perché cercavano di addossare la colpa alle vittime».

Processo per stupro

Da qui, nasce l’idea di documentare per la prima volta in assoluto un processo per stupro, per poter denunciare tutte queste aberrazioni. Il documentario fu trasmesso dalla Rai, e l’impatto sull’opinione pubblica fu fortissimo.

La vittima del processo era Fiorella, una giovane che accusò quattro uomini di averla violentata per un pomeriggio intero, dopo essere stata attirata in un casolare per sostenere un colloquio di lavoro.

Gli imputati dissero che Fiorella era una ragazza di facili costumi, che si offrì a pagamento: ma nulla di tutto questo era vero. «Se questa ragazza se ne fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente», sostenne la difesa.

Le arringhe di Tina Lagostena Bassi si infuocarono sempre più. «E’ una prassi costante: il processo alla donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale».

«Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliante venire qui a dire che non è una puttana. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare i processi per violenza».

I quattro imputati ricevettero una condanna irrisoria, per poi venire quasi subito rilasciati con la libertà condizionata. Ma l’avvocata ripara quei torti nel 1994, quando viene eletta alla Camera dei deputati con il Polo per le Libertà.

Dopo essere diventata membro della Commissione Giustizia e coautrice della legge contro la violenza sessuale nel 1996, continua a combattere contro il maschilismo e a lottare per la dignità delle donne, processo dopo processo, norma dopo norma.


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La professione dell’avvocato è in retromarcia: complice il reclutamento di professionisti nel mondo della PA, che avviene all’interno del quadro del Pnrr.

Nel primo trimestre del 2023, infatti, ci sono stati 2.336 provvedimenti di cancellazione da Cassa Forense, al quale dobbiamo aggiungerne 293 deliberati di recente. Gli associati sono scesi a 237.000: nel 2022 erano 240.000.

Bisognerà attendere la fine dell’anno per avere un quadro ben preciso per quanto riguarda l’andamento della platea, tenendo anche conto delle nuove iscrizioni legali, che potrebbero anche far risalire il numero complessivo.

Tuttavia, il fenomeno dell’abbandono dell’attività porta a riflettere anche sulle occasioni che derivano dall’implementazione di altri percorsi di lavoro, visto che «l’ambito di espansione risiede prevalentemente nell’area stragiudiziale e nella consulenza alla clientela», commenta Valter Militi, il presidente di Cassa Forense.

«Presumiamo che il dato degli abbandoni sia principalmente legato alle opportunità d’impiego nell’ambito pubblico», anche se le cifre trimestrali riguardo le uscite «non possono farci parlare di un cattivo stato di salute della categoria», continua Militi.

Nel dossier realizzato da Cassa Forense, in collaborazione con il Censis, leggiamo che al 31 dicembre 2022 la platea era composta da 240.019 professionisti, ovvero 4,1 per 1000 abitanti, con 8.257 nuove iscrizioni e con 8.698 cancellazioni.

Davanti ai dati del 2023, Francesco Greco, il numero uno del CNF, individua ben «due fattori all’origine di questa discesa: da un lato c’è l’insoddisfazione che, in questo momento, domina gli avvocati, e dall’altro, l’indizione dei concorsi per accedere ai ranghi della Pubblica Amministrazione. Quello che ci preoccupa, e su cui vogliamo intervenire, è il primo».

Prosegue Greco: «Le specializzazioni devono diventare un valore aggiunto per la professione, ma occorre rivedere quelle esistenti, permettendo, ad esempio, ai colleghi di dedicarsi compiutamente alla consulenza alle imprese, colmando la limitate esperienza in materia contabile».

L’impegno che si assume Greco è «far sì che il ceto forense riacquisti fiducia nel futuro. Gli avvocati rappresentano il seme della democrazia. E, se non ci sono, vuol dire che i diritti non vengono tutelati».

Francesco Paolo Perchinunno, invece, guida dell’Aiga, l’associazione italiana giovani avvocati, ritiene che l’ideale sarebbe la compensazione delle defezioni con delle «nuove iscrizioni, e soprattutto, con l’aumento della capacità reddituale dei legali, inseriti in ulteriori spazi di mercato».

Tale obiettivo si può ottenere con «la riconversione delle competenze, sui cui auspichiamo la nostra Cassa di previdenza investa di più per meglio intercettare le esigenze del mercato».

Sia Militi che Greco concordano sulle aggregazioni professionali: tuttavia, la tassazione funge da disincentivo. Per Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, dovrebbero essere sottoposte ad una «fiscalità di vantaggio, così come previsto per le start-up».


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Perché in Italia avvocati e magistrati indossano la toga nera? Perché lo dice la legge. Anzi, lo stabilisce un regio decreto, il n. 1683 del 1926, che recita:

Nelle pubbliche udienze delle corti e dei tribunali gli avvocati patrocinanti indossano le seguenti divise: toga di lana nera alla foggia di quella prescritta per i funzionari giudiziari, ma abbottonata sul davanti con maniche orlate di un gallone di velluto nero, rialzate e annodate sulle spalle con cordoni e nappine di seta nera; hanno il tocco di seta nera fregiato di un gallone di velluto nero, e il collare di tela batista.

I procuratori vestono toga di lana nera, abbottonata sul davanti, con maniche rialzate e annodate sulle spalle con cordoni di lana nera; hanno tocco di seta nera senza gallone, e collare di tela batista.

Firmato: Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della nazione.

Un po’ di storia

La storia della toga nera, in realtà, sembra essere ancora più antica, risalente all’epoca romana. I cittadini maschi e liberi del tempo, ovvero i cittadini non schiavi, quelli che svolgevano alcune funzioni di rilevanza sociale, avevano un drappo sopra la tunica. Questo era annodato sopra la spalla sinistra e passato al di sotto dell’ascella: un simbolo di potere, visto che chi la indossava esercitava funzioni pubbliche di grande importanza.

La toga bianca, invece, era indossata da chi si candidava alle elezioni, mentre la toga orlata, di color porpora, era indossata da cavalieri, senatori e magistrati. Il bordo inferiore era largo per i senatori e stretto per i cavalieri, che successivamente formarono la classe dei finanzieri e dei commercianti.

La toga virilis indicava la maggiore età, mentre la toga purpurea veniva indossata solo dall’imperatore; la toga marrone o grigia, quella più scura, veniva indossata nelle giornate di lutto.

Nel corso del Medioevo, invece, la toga diventò quasi un’uniforme: era indossata da professori, medici, notai e avvocati. Nel corso del tempo, la maggior parte delle professioni ha abbandonato l’uso della toga, eccezion fatta per gli avvocati.

Gli avvocati, infatti, dovrebbero indossare la toga durante le udienze pubbliche dei tribunali e delle corti, ma anche di fronte ai consigli degli organi rappresentativi del mondo dell’avvocatura: la pena è una sanzione disciplinare.

Fu scelto il colore nero principalmente per una questione pratica, visto che le tele colorate non erano così semplici da reperire.

Cordoniera

Anche la cordoniera ha un preciso significato simbolico: quella color oro e nero è esclusiva di avvocati cassazionisti, tutti gli altri ne hanno una color nero e argento. Gli avvocati non possono indossare cordoniere color oro puro, in quanto riservate soltanto ai magistrati. I magistrati di prima nomina hanno una cordoniera color argento, mentre quella rossa è riservata per gli avvenimenti accademici.

Ma la toga, per gli avvocati, va oltre il mero obbligo di legge. Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori udienza, disse Piero Calamandrei.

Parrucche

Nel Regno Unito, gli avvocati, dal 1660, devono indossare anche le parrucche: le impose re Carlo II, dopo il restauro della monarchia a seguito del taglio della testa a Carlo I. Le parrucche, allora, venivano utilizzate da diversi membri dell’alta società: quelle più costose erano fatte di capelli umani.

Oggi sono in crine di cavallo, sono state eliminate nei paesi del Commonwealth come Canada e Australia ma resistono in alcuni paesi dell’Africa, così come nel Regno Unito, nonostante siano in molti a combattere contro la tradizione, sostenendo che la parrucca dà l’idea di un’eccessiva distanza tra avvocati e cittadini comuni.


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La Riforma Cartabia, come ben sappiamo, ha introdotto cambiamenti importanti per quanto riguarda l’applicazione del diritto all’oblio.

Secondo il nuovo art. 64 ter, sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, prevede che la persona per cui è stata pronunciata una sentenza di proscioglimento, oppure di non luogo a procedere, possa richiedere che venga preclusa l’indicizzazione oppure che venga disposta la deindicizzazione online dei dati personali che vengono riportati nel provvedimento o nella sentenza, attenendosi dunque all’art. 17 del Regolamento generale per la protezione dei dati.

Deindicizzare non significa cancellare

La procedura non è affatto complicata: la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento annota che è titolo esecutivo per «la sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante»

La disposizione, tuttavia, non deve generare false illusioni, visto che deindicizzare non vuole dire cancellare. Dunque, in altri termini, il risultato ottenuto sarà soltanto quello che i dati personali che vengono inseriti nei motori di ricerca non verranno più associati a parole chiave inerenti al reato contestato.

Risulta sufficiente, infatti, eseguire una diversa ricerca, inserendo il nome di un coimputato, oppure quello del magistrato che ha condotto le indagini del caso: et voilà, ecco che la notizia deindicizzata ricompare. La normativa ha creato un bel mercato di società, infatti, che cancellano completamente dal web le notizie.

Dichiara Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che ha lavorato moltissimo alla norma: «Non si poteva ottenere di più. È evidente che di un personaggio pubblico, coinvolto in una vicenda giudiziaria, anche se assolto, si troverà sempre traccia della notizia».

Anche Google parla chiaro in merito alla questione: se la notizia viene aggiornata agli sviluppi recenti della vicenda giudiziaria, dunque, all’assoluzione, potrà difficilmente essere “deindicizzata”. Inoltre, bisogna sempre valutare l’interesse alla reperibilità delle informazioni che vengono riportate, se si riveste un ruolo pubblico.

Anche la Corte di Giustizia e il Comitato europeo per la protezione dei dati indicano «la prevalenza dell’interesse generale ad avere accesso alle informazioni quando l’interessato esercita un ruolo pubblico, anche per effetto della professione svolta o delle cariche ricoperte».

Il Comitato europeo per la protezione dei dati chiarisce che «a titolo di esempio, politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti possono essere solitamente considerati come coloro che svolgono un ruolo nella vita pubblica. Vi è un argomento a favore del diritto del pubblico a ricercare le informazioni rilevanti rispetto al loro ruolo e alle attività pubbliche».

Per le Linee Guida del Comitato europeo per la protezione dai dati, invece, riguardo la natura giornalistica di un’informazione e dal fatto che venga pubblicata da un giornalista, che come lavoro deve informare, «costituiscono elementi a conferma del sussistente interesse pubblico alla notizia».


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Avvio della sperimentazione del PCT presso tutti gli Uffici dei Giudici di Pace

È cominciata la sperimentazione del deposito telematico presso i Giudici di Pace. L’attività coinvolgerà giudici, avvocati e cancellieri, al fine di sperimentare l’intero flusso del deposito telematico per gli Uffici del Giudice di Pace.

Come da circolare ministeriale, la sperimentazione verrà svolta con doppio canale, ovvero telematico e cartaceo.

Gli avvocati sperimentatori potranno procedere con il deposito telematico ed il perfezionamento dello stesso con la produzione del deposito cartaceo entro i termini previsti dal procedimento.

All’atto dell’accettazione del deposito telematico la cancelleria dovrà scaricare l’evento di deposito sull’applicativo di registro, SIGP. In questo modo l’evento risulterà associato al deposito telematico che verrà prodotto anche in cartaceo dagli avvocati.

Nell’atto depositato telematicamente deve essere attestata in calce la conformità all’originale cartaceo nella segreteria della cancelleria di pertinenza.

I depositi dovranno poi essere trasmessi attraverso gestionali o redattori atti che utilizzano gli schemi atto (xsd), come Service1.


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