Avvocati, AIGA: “Cassa Forense reintroduca agevolazioni per i praticanti”

L’Associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA), con una nota inviata al presidente della Cassa Forense, Valter Militi, ha chiesto di reintrodurre le agevolazioni per i praticanti previste dal vecchio regolamento unico per i giovani avvocati: dimezzamento del contributo minimo soggettivo per i primi sei anni di iscrizione ed esonero contributo integrativo minimo. In alternativa, sarebbe quanto meno opportuno continuare a riconoscere tale agevolazione per gli oltre 3.201 praticanti già iscritti prima dell’entrata in vigore del nuovo regolamento.

Carlo Foglieni, presidente AIGA, afferma: “È evidente che in un periodo storico caratterizzato dall’ormai conclamato disinnamoramento verso la nostra professione da parte dei più giovani, soprattutto a causa delle difficoltà economiche per diventare avvocato, la decisione di eliminare tali agevolazioni appaia irragionevole, tenuto conto altresì della scarsa incidenza dell’eliminazione di dette agevolazioni sul bilancio e sulla sostenibilità del sistema previdenziale. Anzi, al contrario, riteniamo che sia proprio interesse di Cassa Forense incentivare le iscrizioni dei praticanti, ossia i giovani avvocati di domani”.


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Parto o ricovero figli, adempimenti rinviabili per i professionisti

A partire dal 12 gennaio 2025, con l’introduzione del Collegato Lavoro, i professionisti ordinistici potranno chiedere il rinvio delle scadenze fiscali in caso di parto o ricovero dei figli minori, un’estensione che amplia i diritti già previsti per i casi di gravi malattie o ricoveri del professionista stesso.

La norma, voluta dall’emendamento di Andrea de Bertoldi (gruppo Misto), stabilisce che, per il parto, la sospensione degli adempimenti fiscali scatti dall’ottavo mese di gravidanza fino a 30 giorni dopo il parto. Per il ricovero dei figli minori, invece, la sospensione sarà valida fino a 15 giorni dopo la dimissione. La richiesta di rinvio dovrà essere accompagnata da certificati medici e dalla copia dei mandati professionali dei clienti, inviati tramite Pec.

Tuttavia, resta esclusa, almeno per ora, la possibilità di rinviare gli adempimenti contributivi. Un emendamento proposto da de Bertoldi nella Legge di Bilancio 2025, che aveva suscitato interesse, è stato giudicato “meritevole di attenzione” dalla Ministra del Lavoro, Marina Calderone, ma necessita di ulteriori approfondimenti.

Nel frattempo, anche il presidente dell’Int (Istituto Nazionale Tributaristi), Riccardo Alemanno, ha sottolineato la necessità di estendere le tutele anche ai professionisti non ordinistici. Attualmente, infatti, la legge esclude i professionisti iscritti in registri non ordinistici, una situazione che potrebbe evolversi, con diverse proposte già presentate in Parlamento.


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Contratti misti: nuove opportunità per i professionisti, ma con limiti

Dal 1° gennaio 2025, grazie all’introduzione del collegato lavoro (Legge 203/2024), i professionisti possono stipulare contratti misti, combinando un rapporto di lavoro subordinato part-time con un’attività autonoma presso lo stesso datore di lavoro. Una novità che include anche chi opera in regime forfettario, superando il precedente vincolo che escludeva l’accesso al regime agevolato per chi aveva un datore di lavoro prevalente.

Requisiti stringenti per accedere ai contratti misti

La nuova norma, regolamentata dall’articolo 17 della legge, stabilisce però condizioni precise:

  1. L’azienda deve avere almeno 250 dipendenti, restringendo notevolmente il campo di applicazione.
  2. L’orario del part-time deve essere compreso tra il 40% e il 50% dell’orario pieno previsto dal contratto collettivo di riferimento.
  3. Il rapporto subordinato deve essere a tempo indeterminato.
  4. Il contratto autonomo deve essere certificato da enti abilitati, come ordini professionali, enti bilaterali o università.

Oltre a queste condizioni, chi aderisce al regime forfettario deve rispettare i limiti previsti dalla normativa: redditi inferiori a 85.000 euro annui e spese contenute per collaboratori o beni strumentali.

Criticità per alcune professioni regolamentate

Nonostante le opportunità offerte, i contratti misti risultano incompatibili con le normative di alcune categorie professionali. Ad esempio:

  • Avvocati: la legge forense (articolo 18, legge 247/2012) vieta qualsiasi rapporto di lavoro subordinato per l’esercizio della professione.
  • Commercialisti: il Consiglio Nazionale, in una nota del 2014, ha chiarito che un professionista non può operare come dipendente di un’impresa che esercita attività incompatibili con la libera professione.
  • Consulenti del lavoro: il Codice deontologico (articolo 36) prevede che il professionista possa esercitare solo nel contesto di un rapporto subordinato conforme alla normativa.

Anche sul fronte previdenziale emergono complessità: i liberi professionisti con un doppio ruolo devono gestire contributi sia verso la cassa professionale che verso l’INPS, spesso in gestione separata.

Una svolta per i giovani tecnici, dubbi sul futuro dei professionisti

La norma è vista con interesse da alcune categorie, come gli ingegneri. “Per i giovani, che incontrano difficoltà nell’avvio di uno studio, un contratto subordinato può rappresentare un’àncora importante,” spiega Remo Vaudano, vicepresidente del Consiglio Nazionale Ingegneri. Questo modello potrebbe rivelarsi utile, ad esempio, nelle aziende informatiche che richiedono figure interne ma anche esterne per la personalizzazione dei servizi.

Più scettico il presidente di Confprofessioni, Marco Natali, secondo cui la misura rischia di penalizzare i giovani professionisti, già poco tutelati dal punto di vista economico e meno incentivati a dedicarsi pienamente alla libera professione.


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Apple resiste: confermati i programmi DEI contro ogni pressione

Apple ha scelto di andare controcorrente, confermando il suo impegno per i programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion). Mentre aziende come Meta e Amazon hanno recentemente deciso di ridimensionare o eliminare iniziative dedicate alla diversità e all’inclusione, il consiglio di amministrazione di Cupertino ha rifiutato una proposta avanzata dal think tank conservatore National Center for Public Policy Research.

Secondo il think tank, mantenere i programmi DEI esporrebbe Apple a potenziali cause legali e indebolirebbe la sua posizione aziendale. La richiesta si basava su una recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha dichiarato incostituzionali i programmi di discriminazione positiva nelle ammissioni universitarie, ritenendoli in contrasto con il principio di uguaglianza previsto dal 14° emendamento.

Gli azionisti conservatori sostenevano che questi programmi potrebbero rendere vulnerabile Apple a decine di miliardi di dollari in cause legali. Tuttavia, il consiglio di amministrazione della società ha rigettato la proposta, dichiarando che i programmi DEI sono parte integrante delle strategie aziendali e che “Apple dispone già di un programma di conformità consolidato, in grado di gestire al meglio le proprie operazioni e politiche interne.”

Un trend che Apple non segue

La decisione di Apple si colloca in netto contrasto con le scelte di altre big tech. Meta, guidata da Mark Zuckerberg, ha recentemente interrotto ogni iniziativa a favore delle minoranze. Amazon, Microsoft, e persino aziende non tecnologiche come McDonald’s e Walmart, hanno ridotto o eliminato i team dedicati alla diversità e all’inclusione.

Nonostante il contesto sempre più ostile a tali programmi, Apple sembra voler riaffermare un’identità progressista. “Con 80 mila dipendenti, Apple ha più di 50 mila persone che potrebbero essere potenzialmente vittime di discriminazione se questi programmi venissero eliminati,” si legge in una nota diffusa dal consiglio.

L’impatto del ritorno di Trump

Questa svolta culturale nelle politiche aziendali si colloca in un momento di profondo cambiamento negli Stati Uniti, dove il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha scosso le fondamenta ideologiche su cui si basano molti programmi DEI. Il messaggio che sembra emergere è chiaro: le aziende stanno reagendo al nuovo clima politico, adeguandosi a una visione più conservatrice.

Eppure, la decisione di Apple sembra suggerire che esista ancora spazio per un approccio differente, che metta al centro valori come l’inclusione e la parità. Una scelta che potrebbe rivelarsi cruciale in un’America divisa, dove gli elettori sono anche consumatori, e la coerenza dei brand con i loro valori può fare la differenza.


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Caro bollette: per le imprese +13,4 miliardi rispetto al 2024. Penalizzato soprattutto il nord

Quest’anno, le bollette potrebbero costare all’intero sistema imprenditoriale italiano ben 13,7 miliardi di euro in più rispetto al 2024, pari a un aumento del 19,2 per cento. In totale, la spesa complessiva dovrebbe toccare gli 85,2 miliardi: di questi, 65,3 sarebbero per l’energia elettrica e 19,9 per il gas. A pagare il conto più salato dovrebbero essere le imprese del Nord. Questa ripartizione geografica, infatti, “ospita” buona parte dello stock delle imprese presenti nel nostro Paese e, conseguentemente, dovrà farsi carico della quota parte di aumento più consistente; praticamente quasi quasi due terzi dell’aggravio complessivo. Queste stime arrivano dall’Ufficio studi della CGIA e si basano su un’ipotesi del prezzo medio dell’energia elettrica nel 2025 di 150 euro per MWh e del gas a 50 euro per MWh; mantenendo così una proporzione di tre a uno tra le due tariffe, come si è verificato nei due anni precedenti. Per quanto riguarda i consumi, si è fatto riferimento ai dati del 2023 e si è ipotizzato che rimangano costanti anche nei successivi due anni. Se analizziamo questo costo aggiuntivo stimato di 13,7 miliardi di euro per quest’anno, notiamo che quasi 9,8 miliardi (+17,6 per cento rispetto al 2024) riguarderebbero l’energia elettrica e 3,9 miliardi (+24,7 per cento) il gas.

  • In un anno e mezzo abbiamo speso 92,7 miliardi di soldi pubblici per mitigare i rincari

Anche se quest’anno ci aspettiamo un aumento importante dei costi energetici, questo sarà comunque molto inferiore a quanto abbiamo vissuto durante il periodo più critico della recente crisi energetica che ha colpito tutta Europa tra la fine del 2021 e i primi mesi del 2023. È importante ricordare che oggi non abbiamo più quelle misure pubbliche adottate all’epoca che hanno aiutato a contenere gli aumenti delle bollette sia per le famiglie che per le imprese: stiamo parlando di un totale di ben 92,7 miliardi di euro[2]. Solo la Germania ha stanziato una cifra maggiore pari a 157,7 miliardi; va detto, però, che i tedeschi hanno il comparto manifatturiero più importante d’Europa e affrontano inverni più lunghi e freddi rispetto ai nostri.

  • Dobbiamo evitare l’aumento dell’inflazione

Quest’anno gli effetti dell’aumento delle bollette potrebbero farsi sentire pesantemente sui bilanci sia delle imprese che delle famiglie. Ma c’è un altro aspetto negativo da considerare. Così come accaduto negli anni passati, potremmo trovarci davanti a un’impennata dei prezzi del gas e dell’energia che rischiano di provocare una spirale inflazionistica. Ricordiamoci che nel biennio 2022-2023, la crisi energetica ha causato una significativa perdita del potere d’acquisto per lavoratori dipendenti e pensionati; senza contare l’aumento dei tassi d’interesse e quindi il costo maggiore del denaro che ha messo in difficoltà investimenti e crescita del Pil. Ma c’è dell’altro. Gli esperti paragonano l’inflazione a una “tassa ingiusta”: infatti, riduce la quantità di beni e servizi acquistabili da tutti noi ed è particolarmente dura con chi è già economicamente fragile.

  • Difendere i consumi e spendere bene tutti soldi del Pnrr

Per contrastare efficacemente il rallentamento economico in corso, in primo luogo dobbiamo evitare il crollo dei consumi interni, obbiettivo che potrebbe non essere conseguito se l’inflazione, a causa di un forte impennata dei prezzi dei prodotti energetici, dovesse tornare a crescere. In secondo luogo è necessario spendere bene ed entro la scadenza (31 agosto 2026) le risorse del Pnrr ancora a nostra disposizione; praticamente 130 miliardi di euro. Secondo la BCE, l’utilizzo di tutti i prestiti e le sovvenzioni che ci sono stati erogati da Bruxelles farà aumentare in via permanente il nostro Pil nello scenario migliore dell’1,9 per cento fino al 2026 e dell’1,5 per cento fino al 2031 rispetto a un Pil senza questi speciali sostegni post-pandemici.

  • Rincari top al Nord: in particolare in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto

A livello regionale, visto che la maggioranza delle attività produttive e commerciali sono ubicate al Nord, i rincari relativi al 2025 di luce e gas interesseranno, in particolare, le aree che presentano i consumi maggiori: vale a dire la Lombardia con un aggravio di 3,2 miliardi di euro, l’Emilia Romagna con +1,6 miliardi, il Veneto con +1,5 e il Piemonte con +1,2. Sull’incremento di costo previsto per quest’anno che, ricordiamo, a livello nazionale dovrebbe essere pari a 13,7 miliardi, 8,8 (pari al 64 per cento del totale), saranno in capo alle aziende settentrionali.

  • Più cara l’energia del gas

Come dicevamo più sopra, la variazione di spesa rispetto l’anno scorso interesserà maggiormente l’energia elettrica del gas. Gli imprenditori pagheranno le bollette elettriche 9,8 miliardi in più e del gas solo, si fa per dire, 3,9 miliardi. Per l’elettricità gli incrementi più significativi riguarderanno sempre il Nord, in particolare la Lombardia con 2,3 miliardi aggiuntivi, il Veneto con +1 miliardo e l’Emilia Romagna con +986 milioni. Il settentrione dovrebbe farsi carico di oltre il 61 per cento dell’incremento di costo. Per quanto concerne il gas, invece, i costi aggiuntivi interesseranno soprattutto la Lombardia con +887 milioni, l’Emilia Romagna con +660 milioni e il Veneto con +480 milioni. Dei 3,9 miliardi di rincari relativi alle bollette del gas, 2,8 miliardi (pari al 70,8 per cento del totale) dovrebbero gravare sulle imprese del Nord.

  • In Lombardia quasi un quarto dei consumi di energia e gas del Paese

Con 49.331 GW/h di consumi elettrici registrati nel 2023, pari al 23,8 per cento del totale nazionale, la Lombardia è la regione che ha le imprese più energivore d’Italia.  Seguono le realtà produttive del Veneto con 22.578 GW/h (10,9 per cento del totale) e l’Emilia Romagna con 20.934 GW/h (10,1 per cento del totale). Sui 207.434 GW/h consumati a livello nazionale, il 61,3 per cento è attribuibile alle imprese del Nord (vedi Tab. 5).  Anche per quanto riguarda il gas, la regione che nel 2023 ha censito i consumi più elevati è Lombardia con 48.201 GW/h (22,4 per cento del totale nazionale). Seguono l’Emilia Romagna con 35.828 GW/h (16,7 per cento) e il Veneto con 26.057 GW/h (12,1 per cento).

  • Ecco i settori più a rischio rincari

Con un’eventuale impennata dei costi delle bollette elettriche, i settori più “colpiti” potrebbero essere quelli che registrano i consumi più importanti. Riferendoci ai dati dei consumi pre-Covid, essi sono:

  • metallurgia (acciaierie, fonderie, ferriere, etc.);
  • commercio (negozi, botteghe, centri commerciali, etc.);
  • altri servizi (cinema, teatri, discoteche, lavanderie, parrucchieri, estetiste, etc.);
  • alimentari (pastifici, prosciuttifici, panifici, molini, etc.);
  • alberghi, bar e ristoranti;
  • trasporto e logistica;
  • chimica.

Per quanto concerne le imprese gasivore, i comparti che potrebbero subire gli effetti economici maggiormente negativi potrebbero essere:

  • estrattivo (minerali metalliferi ferrosi e non ferrosi, etc.);
  • lavorazione e conservazione alimenti (carni, pesce, frutta, ortaggi, oli e grassi, etc.);
  • produzione alimentare (pasta, pasti, gelati, etc.)
  • confezione e produzione tessile, abbigliamento e calzature;
  • fabbricazione/produzione legno, carta, cartone, ceramica, utensileria, plastica e chimica;
  • fabbricazione apparecchiature elettriche ed elettroniche, macchine utensili e per l’industria, etc.;
  • costruzione di navi e imbarcazioni da diporto.

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Giustizia, Sisto: “Referendum sulla separazione delle carriere nel 2026”

La separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente torna al centro del dibattito politico. Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, intervenuto durante la trasmissione Spin Doctor su Giornale Radio, ha dichiarato che il referendum sulla riforma potrebbe tenersi già nel 2026, se i lavori parlamentari procederanno come previsto.

“Una chiamata alle armi del popolo”
“La riforma? Non so se riusciremo a farla entro il Consiglio Superiore della Magistratura del 2026, ma per il successivo ce la faremo senza alcun dubbio”, ha affermato Sisto. “Il referendum è quasi certo, e mi accontenterei che si tenesse già l’anno prossimo. Se chiudiamo le quattro letture parlamentari entro settembre, potrà partire nel 2026”.

Secondo il viceministro, l’attuazione della riforma richiederà comunque tempo: “Anche se entrasse in vigore oggi, gli effetti concreti si vedranno tra 7 o 8 anni”.

La posizione dell’Anm e la geometria costituzionale
Sisto ha criticato l’atteggiamento dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), definendolo “inspiegabile” e ha rassicurato: “Non c’è un Parlamento che possa prevaricare nessuno, perché sarà il popolo a decidere tramite il referendum. Sembrano voler evitare che i cittadini si pronuncino, ma non si può impedire in alcun modo”.

Il viceministro ha poi sottolineato la necessità della riforma, ispirata a un principio di equidistanza tra le parti del processo: “Il giudice, unico terzo e imparziale secondo la Costituzione, deve trovarsi in cima a un triangolo isoscele, con accusa e difesa alla stessa distanza. La stessa distanza tra giudice e avvocato deve esserci tra giudice e pubblico ministero. Non si è mai visto un arbitro appartenere alla stessa città di una delle squadre”.

Un tema centrale per la riforma della giustizia
La separazione delle carriere è uno dei punti cardine del progetto di riforma della giustizia promosso dal governo. Secondo Sisto, si tratta di un “principio elementare” che garantirà maggiore imparzialità e trasparenza nel sistema giudiziario italiano. La sfida, ora, è ottenere l’approvazione delle quattro letture parlamentari necessarie entro il termine stabilito, aprendo così la strada al giudizio del popolo tramite referendum.


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Abedini torna libero: Nordio blocca l’estradizione e l’ingegnere iraniano vola a Teheran

Roma-Teheran
Mohammad Abedininajafabadi, ingegnere iraniano arrestato il 16 dicembre scorso a Malpensa su richiesta degli Stati Uniti, è stato liberato dal carcere di Opera e già rientrato in patria. La decisione è arrivata direttamente dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha revocato l’arresto prima dell’udienza fissata per il 15 gennaio presso la Corte d’Appello di Milano.

La motivazione del Ministero della Giustizia
La revoca si basa sull’art. 2 del trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti, secondo cui l’estradizione è possibile solo per reati punibili in entrambi gli ordinamenti. “Le accuse mosse al cittadino iraniano non trovano corrispondenza nelle fattispecie previste dal diritto penale italiano”, spiega il Ministero in una nota ufficiale.

Abedini, 38 anni, esperto di droni, era stato accusato dagli Usa di terrorismo per presunti legami con i Pasdaran, che avrebbero utilizzato informazioni sensibili fornite dall’ingegnere per un attacco in Giordania in cui persero la vita tre soldati americani. Tuttavia, il governo italiano ha ritenuto insufficienti gli elementi probatori per procedere con l’estradizione.

La risposta di Teheran
La liberazione di Abedini è stata accolta con soddisfazione dall’Iran. Il portavoce del Ministero degli Affari Esteri iraniano ha espresso gratitudine per la “cooperazione tra le parti coinvolte” e ribadito l’impegno del Paese a tutelare i propri cittadini all’estero.

Il commento del difensore
L’avvocato di Abedini, Alfredo De Francesco, ha espresso sorpresa e sollievo per la decisione del ministro Nordio: “Le motivazioni addotte sposano quanto da noi sostenuto sin dall’inizio: l’assenza dei presupposti per l’estradizione e l’importanza del diritto alla libertà personale alla luce dei principi costituzionali”.

“Il mio cliente ha sempre avuto fiducia nella giustizia. Ora è una persona libera e potrà riprendere a sperare”, ha concluso il legale, ringraziando tutti coloro che hanno sostenuto la difesa.

Un caso diplomatico chiuso
Il caso Abedini, intrecciato a quello della giornalista italiana Cecilia Sala, detenuta a Teheran per 21 giorni e poi liberata, si è risolto grazie ai negoziati tra le autorità iraniane e italiane. La decisione di Nordio non solo mette fine alla vicenda giudiziaria, ma segna un ulteriore passo nelle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.


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Rivolta a Casal del Marmo, feriti due agenti della Polizia Penitenziaria

Ieri pomeriggio, alcuni detenuti del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, hanno aggredito tre agenti della Polizia Penitenziaria, sottraendo loro le chiavi delle celle. L’intervento tempestivo di altro personale ha permesso di recuperarle, ma due agenti sono stati ricoverati con prognosi di 12 e 4 giorni. L’episodio, denunciato dal sindacato Fns Cisl, è solo l’ultimo di una lunga serie che negli ultimi mesi ha portato il penitenziario al centro di polemiche.

Sovraffollamento record e tensioni crescenti
Attualmente, Casal del Marmo ospita 60 detenuti, 51 uomini e 9 donne, superando la capienza massima di 57. Solo tre anni fa, il numero di detenuti era di 25, ma secondo gli esperti non si è registrato un aumento dei reati commessi da minori. Il sovraffollamento, unito a condizioni difficili per agenti e detenuti, alimenta tensioni che sfociano in episodi violenti.

Un anno di episodi gravi
L’ultimo anno è stato particolarmente difficile per il carcere romano. A settembre 2024, una rivolta aveva provocato tre feriti tra gli agenti, seguita pochi giorni dopo da un incendio che ha distrutto due celle. Sempre a settembre, un gruppo di detenuti si è barricato in una sala. A luglio, tre giovani sono evasi scavalcando il muro di cinta, prima di essere rintracciati da Squadra Mobile e Digos.

L’impegno di Papa Francesco
La situazione di Casal del Marmo ha attirato anche l’attenzione di Papa Francesco, che negli anni ha visitato il penitenziario celebrando la lavanda dei piedi per i detenuti. Il pontefice ha più volte ribadito il suo impegno per migliorare le condizioni di vita nei carceri, un tema che a Casal del Marmo appare sempre più urgente.


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Meta abbandona i programmi di diversità e inclusione: “Non più attuali”

Dopo l’eliminazione del programma di fact-checking, Meta ha annunciato che i suoi sforzi per promuovere diversità, equità e inclusione (DEI) sono stati dichiarati superati. Il colosso guidato da Mark Zuckerberg ha confermato, tramite una nota interna riportata da Axios, che il cambiamento riflette “l’evoluzione del panorama giuridico e politico” negli Stati Uniti. Tra i programmi abbandonati figura il Diverse Slate Approach, pensato per favorire la diversificazione dei candidati nelle selezioni aziendali.

Risultati e abbandono dei programmi DEI
Meta, che in passato ha raddoppiato la presenza di dipendenti neri e ispanici negli Stati Uniti (dal 3,8% al 4,9% e dal 5,2% al 6,7%, rispettivamente), ritiene che tali sforzi non siano più necessari. La decisione segue un trend già intrapreso da altre grandi aziende come McDonald’s, Walmart, Ford e Lowe’s, e ora anche Amazon, che ha annunciato una revisione dei propri programmi DEI definiti “obsoleti”.

Un cambiamento dettato dalla politica e dall’etica
Secondo Axios, la scelta di Meta è influenzata dalla recente vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, che ha portato Zuckerberg a riallineare le strategie aziendali per costruire un rapporto con la nuova amministrazione. La Corte Suprema statunitense ha inoltre emesso sentenze che potrebbero compromettere la legittimità di politiche che promuovono la diversità come trattamento preferenziale per determinati gruppi.

Addio fact-checking, spazio alla comunità
Parallelamente, Meta ha eliminato il suo programma di fact-checking affidandosi a un sistema di note comunitarie ispirato al modello adottato da X (ex Twitter) di Elon Musk. “Daremo alla comunità il potere di aggiungere contesto ai post”, ha dichiarato Joel Kaplan, Chief Global Affairs Officer di Meta. La decisione, plaudita dallo stesso Musk, rappresenta una svolta significativa nella gestione dei contenuti, orientata a una maggiore libertà di espressione.


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Non sempre il mancato deposito di documenti da parte di un avvocato determina la sua responsabilità professionale, specie se tale omissione non è la causa diretta del rigetto della domanda di risarcimento. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 475, depositata oggi, in merito al caso di un ex dipendente di Poste Italiane che contestava la gestione legale della sua causa.

La vicenda

Il lavoratore aveva agito in giudizio per la dichiarazione di illegittimità di contratti a termine succedutisi nel tempo. Persa la causa in primo grado, aveva firmato un accordo transattivo con Poste Italiane e, successivamente, citato il suo avvocato per danni, accusandolo di non aver adempiuto correttamente all’incarico.

La richiesta è stata rigettata sia dal Tribunale sia dalla Corte d’appello di Lecce, che ha attribuito al lavoratore la responsabilità della decisione di non proporre appello. Inoltre, secondo la Corte d’appello, il giudizio prognostico escludeva che, anche con il deposito dei documenti mancanti, il risarcimento sarebbe stato riconosciuto.

I motivi del rigetto

Il rigetto della domanda di risarcimento non si basava solo sull’omesso deposito della dichiarazione dei redditi (necessaria a verificare l’esistenza di un’altra attività lavorativa), ma anche sul lungo intervallo temporale — oltre quattro anni — trascorso tra la scadenza del contratto e l’inizio dell’azione legale. Questo periodo, secondo i giudici, era indicativo di una rinuncia al rapporto di lavoro o comunque di una situazione incompatibile con il risarcimento richiesto.

La posizione della Cassazione

La Terza sezione civile ha confermato il ragionamento della Corte d’appello, ritenendo che l’omissione del professionista non fosse la causa determinante del rigetto della domanda. La Corte ha inoltre affrontato una questione relativa alle spese di giudizio, specificando che la condanna del ricorrente a pagarle non poteva essere evitata sulla base della sola “virtuale infondatezza” della domanda di garanzia contro un terzo.

Le spese processuali

Secondo la Cassazione, il rimborso delle spese sostenute dal terzo chiamato in causa è giustificato se la chiamata è necessaria rispetto alla domanda principale, anche se quest’ultima risulta infondata. Diversamente, il costo ricade sulla parte che ha chiamato il terzo solo se l’iniziativa è stata arbitraria, ossia priva di una ragionevole connessione con la causa principale.

Conclusione

Nel caso specifico, il ricorrente non ha dimostrato l’arbitrarietà della chiamata in garanzia, confermando la correttezza delle decisioni delle precedenti istanze. La Suprema Corte ribadisce così i principi di responsabilità dell’avvocato, legati non solo alla condotta professionale, ma anche alla rilevanza causale delle omissioni nel contesto complessivo della controversia.


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