Vite in corsa: 11 lavori in una sola esistenza

Cosa definisce davvero la nostra epoca? Per il sociologo tedesco Hartmut Rosa, che già nel 2013 pubblicava Accelerazione e alienazione (Einaudi), la risposta è netta: viviamo immersi in un’accelerazione continua. Dodici anni fa sembrava già un cambiamento epocale, ma allora non c’erano né pandemia né intelligenza artificiale a dare ulteriore slancio a questo vortice.

La velocità non è un effetto esclusivo delle innovazioni tecnologiche, ma il frutto di una lunga storia: dal passaggio dai cavalli al treno, fino alla sostituzione delle lettere scritte a mano con la posta elettronica, ogni passo avanti ha compresso spazi e tempi. Con l’IA capace di fare in secondi ciò che un essere umano compie in ore, il ritmo si è ulteriormente impennato.

Eppure, avverte Rosa, il vero motore non è la tecnologia, ma l’organizzazione sociale e produttiva che spinge a sfruttare ogni minuto guadagnato… per fare ancora di più. Se una volta due ore bastavano per rispondere a venti lettere, oggi quello stesso tempo serve per smaltire sessanta email. Il tempo liberato non diventa mai tempo libero: viene subito riempito.

La logica è quella di una competizione permanente. Restare fermi, o rallentare, significa perdere terreno. E allo stesso tempo, la promessa è seducente: un ventaglio di esperienze e opportunità prima impensabile. Viaggi, attività, oggetti – tutto a portata di mano, purché si sappia correre abbastanza per afferrarli.

Ma il cambiamento non riguarda solo il ritmo: modifica anche la traiettoria delle nostre vite. Nelle società agricole, il lavoro passava di padre in figlio; in quelle industriali, si restava nella stessa azienda per decenni. Oggi, invece, gli studi indicano che un lavoratore con buona istruzione cambierà impiego fino a undici volte nel corso della sua vita.

È un segno di libertà o una condanna all’instabilità? Forse entrambe le cose. Di certo, la domanda resta aperta – ed è una di quelle che meritano di accompagnarci, che sia in ufficio o sotto l’ombrellone.


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L’Oriente è il nuovo Occidente: i giovani italiani migrano dove c’è futuro

Dimenticate New York, Londra e Berlino. Per i giovani italiani la nuova terra promessa è a Oriente: Sydney, Singapore, Jakarta, Brisbane. Secondo le ultime rilevazioni, il 78% dei laureati italiani vuole lasciare il Paese, e non per inseguire sogni americani o nostalgie europee, ma per costruire altrove un futuro che qui appare irraggiungibile.

Il dato più sorprendente? L’Est, fino a pochi anni fa percepito come “altro”, oggi incarna il dinamismo e l’innovazione che un tempo appartenevano all’Occidente. L’area del Pacifico, con l’Australia come faro e le metropoli del Sud-Est asiatico in rapida ascesa, sta ridefinendo i confini geografici delle ambizioni giovanili.

Il fascino dell’altrove: non solo fuga, ma scelta razionale

Non si tratta di una fuga istintiva, ma di una decisione ponderata, organizzata, quasi progettuale. I giovani italiani – e soprattutto le giovani – non si muovono per capriccio, ma per rispondere a bisogni precisi: mobilità, benessere, accesso a un mondo del lavoro flessibile e creativo, qualità della vita, sostenibilità.

L’Australia, con le sue sette grandi città costiere, le università accessibili, le opportunità professionali e il forte equilibrio tra lavoro e tempo libero, sta diventando il nuovo punto di riferimento. Il Working Holiday Visa, in particolare, rappresenta un trampolino strategico per chi cerca un’esperienza formativa, ma anche un’ipotesi di radicamento.

Quando il futuro cambia latitudine

Non è solo l’attrazione per paesaggi mozzafiato o per uno stile di vita rilassato. Il vero punto di svolta è culturale. L’Asia-Pacifico, spiegano i sociologi, concentra oggi l’energia che un tempo apparteneva alla civiltà occidentale: la tensione verso il nuovo, l’idea che le discontinuità siano opportunità, il bisogno di reinventarsi, di costruire e scoprire.

Per molti under 30, il futuro è un luogo fisico, e si trova da un’altra parte del globo. Dove si sperimenta, si rischia, si cresce. In Indonesia, Thailandia, Vietnam, Corea del Sud. Dove l’idea stessa di società appare più mobile, più aperta, meno bloccata da vincoli generazionali o burocratici.

Dati, tendenze e una generazione che non si ferma

Le statistiche parlano chiaro: anche tra i ragazzi che hanno vissuto brevi esperienze all’estero durante gli anni scolastici, due su tre vorrebbero ripartire. E il dato si consolida tra chi ha già avviato un percorso lavorativo in Italia, spesso frustrato da stipendi bassi, rigidità contrattuali e mancanza di prospettive.

Interessante è anche il comportamento dei giovani stranieri che studiano in Italia: la maggior parte non intende restare, soprattutto per ragioni economiche. Un segnale inequivocabile che il sistema Paese non riesce più ad attrarre né a trattenere talenti.

L’Oriente che cambia le regole del gioco

Il quadro che emerge è quello di un vero e proprio ribaltamento simbolico: l’Occidente che guarda con nostalgia al passato e l’Oriente che incarna la novità. Ciò che un tempo era prerogativa dell’Europa rinascimentale – la scoperta, il movimento, l’innovazione – oggi si trova dall’altra parte del mondo.

La mobilità non è solo geografica, ma esistenziale – osservano gli studiosi –. I giovani cercano contesti in cui sia possibile cambiare, reinventarsi, crescere. E l’Oriente, oggi, lo permette più dell’Occidente.”

Una nuova geografia generazionale

Questo spostamento di orizzonte non è solo migratorio, ma culturale. Cambia la geografia delle aspirazioni, delle scelte, delle identità. Cambia il modo di guardare il mondo e di abitarlo. Cambia, in fondo, l’idea stessa di “futuro”.

Così, mentre l’Occidente si interroga sul proprio declino, una nuova generazione si affaccia su un’altra sponda del pianeta, pronta a riscrivere la propria storia. E forse anche quella globale.


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Trump può sbagliare, l’America no: perché l’economia USA continuerà a correre

Il “Giorno della Liberazione” proclamato da Donald Trump – quello in cui ha annunciato dazi a tappeto contro alleati e rivali – è stato per molti analisti il simbolo del declino americano. Previsioni allarmistiche hanno dipinto un’America destinata al collasso: fine dell’eccezionalismo, recessione globale, fuga dal dollaro, impennata del debito. Eppure, a distanza di mesi, l’economia USA si dimostra più solida che mai.

Non perché le politiche dell’ex presidente abbiano funzionato, ma proprio nonostante esse.

L’economia resiste agli strappi della “Trumponomics”

Le tariffe commerciali, la stretta sull’immigrazione, i tentativi di influenzare la Federal Reserve, il deficit fiscale galoppante: tutto faceva presagire una tempesta perfetta. Ma il sistema americano ha mostrato un equilibrio di fondo che ha saputo contenere gli eccessi. I dazi, per esempio, sono rimasti perlopiù sulla carta o sono stati ammorbiditi da accordi negoziati.

Trump – spesso aggressivo nella retorica (TALO: Trump Always Lashes Out) – ha dimostrato nei fatti un atteggiamento più cauto (TACO: Trump Always Chickens Out). Quando i mercati hanno iniziato a tremare, ha scelto di ritirarsi piuttosto che spingere fino in fondo.

Il motore invisibile: innovazione e capitale umano

La vera forza degli Stati Uniti, tuttavia, non risiede nelle decisioni della Casa Bianca, ma nella capacità straordinaria del settore privato di innovare. In campi cruciali come l’intelligenza artificiale, la biotecnologia, la robotica e l’energia pulita, gli USA sono ancora leader assoluti.

Questa supremazia tecnologica compensa – e in prospettiva supera – gli effetti negativi delle politiche protezionistiche. Se da un lato i dazi frenano lo scambio globale, dall’altro l’innovazione americana aumenta la produttività e spinge verso una crescita potenziale superiore.

Secondo alcune proiezioni, entro la fine del decennio il tasso di crescita potenziale del PIL USA potrebbe salire dal 2% al 4% annuo, con un ulteriore balzo atteso negli anni Trenta.

Il debito? Sostenibile se la crescita accelera

Un altro tema spesso agitato come spauracchio è il debito pubblico. Ma anche qui, lo scenario cambia se si riconsidera la variabile crescita. Se l’economia accelera – come suggeriscono i trend tecnologici – il peso del debito in rapporto al PIL tenderà a stabilizzarsi e poi a diminuire.

I calcoli più allarmanti, infatti, si basano su previsioni conservative: il Congressional Budget Office ipotizza una crescita stagnante all’1,8%, ma se la spinta dell’innovazione si concretizzerà, quel parametro sarà superato ampiamente.

Il dollaro resta centrale, l’America resta centrale

Chi preconizzava la fine del “privilegio esorbitante” del dollaro come moneta di riserva globale potrebbe doversi ricredere. Finché gli Stati Uniti restano all’avanguardia per stabilità finanziaria, peso economico e supremazia tecnologica, il dollaro continuerà a essere il punto di riferimento dei mercati.

L’America quindi continuerà a crescere e a influenzare il mondo. Non perché immune agli errori politici, ma perché dotata di anticorpi robusti: una democrazia resiliente, un’economia aperta, e soprattutto un settore privato capace di reinventarsi continuamente.


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Giustizia e migranti, è scontro frontale: Meloni accusa le toghe di sabotaggio politico

La miccia si è accesa con l’archiviazione del caso Almasri da parte del Tribunale dei ministri. Ma l’esplosione politica è arrivata ieri sera, in diretta al Tg5, con parole destinate a lasciare il segno: “Vedo un disegno politico attorno ad alcune decisioni della magistratura, soprattutto su immigrazione e sicurezza. Qualcuno vuole frenare l’azione del governo”.

È un attacco diretto e senza precedenti, quello lanciato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La scintilla, oltre all’archiviazione della sua posizione nel caso del giovane libico rimpatriato, è stata la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di tre esponenti del suo governo: i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano. Una decisione che Meloni definisce “surreale”.

“Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie”

Nel suo intervento, la premier difende i suoi ministri e rivendica la collegialità delle scelte: “Hanno agito secondo legge per tutelare la sicurezza nazionale. Non governano a mia insaputa. Io non sono Alice nel Paese delle Meraviglie e neanche un Conte qualsiasi che faceva finta di non sapere cosa facesse il suo ministro dell’Interno”.

Il riferimento, chiarissimo, è al leader del Movimento 5 Stelle e allora premier Giuseppe Conte, coinvolto all’epoca nella vicenda Open Arms insieme a Matteo Salvini. Una vicenda giudiziaria ancora aperta, con la Procura di Palermo che ha recentemente presentato ricorso in Cassazione contro l’assoluzione dell’attuale vicepremier leghista.

Il sospetto: toghe contro la riforma

Al centro del sospetto di Meloni, un tema scottante: la riforma della giustizia, e in particolare il disegno di legge sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Un testo osteggiato dalla magistratura associata, ma che ha già superato due dei quattro passaggi parlamentari previsti. Se tutto procederà secondo i piani del governo, la legge potrebbe essere definitiva entro novembre.

“Non mi sfugge – sottolinea la presidente – che la riforma procede a passo spedito. Ho messo in conto possibili reazioni, ma non accetterò condizionamenti mascherati da atti giudiziari”.

Conte e l’Anm replicano: “Un attacco pericoloso”

Non si è fatta attendere la risposta dell’opposizione. “Il governo mente – afferma secco Giuseppe Conte – e lo fa per nascondere le proprie responsabilità. Attaccare i magistrati per difendere se stessi è un pericoloso scivolamento istituzionale”.

A difesa della magistratura è intervenuta anche l’ANM, l’Associazione Nazionale Magistrati, che ha bollato come “inaccettabili” le dichiarazioni della premier, respingendo con fermezza ogni insinuazione circa intenti politici nelle decisioni delle toghe.

Un conflitto tra poteri?

Il caso Almasri, dunque, si trasforma in qualcosa di più: non solo un contenzioso giudiziario, ma un banco di prova per i rapporti tra governo e magistratura. Un conflitto che si consuma sullo sfondo della riforma costituzionale e del dibattito, sempre più teso, sul ruolo della giustizia in Italia.

Nel frattempo, la premier rivendica il calo degli sbarchi, “già diminuiti del 60%”, e assicura che l’azione del governo continuerà con determinazione.


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Welfare in crisi? Tremonti rilancia: via le tasse sulle donazioni al Terzo Settore

Giulio Tremonti torna alla ribalta politica non solo come presidente della Commissione Esteri della Camera, ma soprattutto come economista e legislatore. Con un disegno di legge che punta dritto al cuore del sistema sociale, l’ex ministro dell’Economia propone una misura destinata a far discutere: l’esenzione totale da ogni tassa per le donazioni, presenti e future, a favore degli enti del Terzo Settore.

L’iniziativa, assegnata con tempismo record alla Commissione Finanze di Montecitorio, arriva in un contesto che lo stesso Tremonti definisce “preoccupante”: un’Italia in cui, complice la denatalità e l’invecchiamento della popolazione, si rischia non solo un “autunno demografico” ma anche – e soprattutto – un “autunno democratico”, in cui solo le fasce più ricche della popolazione potranno permettersi un welfare privato.

Il futuro secondo Tremonti: meno Stato sociale, più società civile

La visione è netta: se non si interviene oggi, la progressiva riduzione dell’assistenza pubblica porterà a una società spaccata. Da un lato, pochi in grado di garantirsi servizi essenziali come sanità e previdenza; dall’altro, la maggioranza costretta ad assistere al crollo del welfare pubblico senza alternative.

Per arginare questa deriva, Tremonti propone di rafforzare il ruolo del volontariato e del Terzo Settore, intercettando le grandi eredità che i baby boomers – nati tra il 1946 e gli anni ’60 – si apprestano a lasciare. Non si tratta di sostituire lo Stato, ma di affiancarlo attraverso meccanismi incentivanti che stimolino l’impegno privato a beneficio collettivo.

Il cuore della proposta: donazioni esenti, rendite esenti

Il disegno di legge – firmato anche da altri 18 deputati di Fratelli d’Italia, tra cui Sara Kelany e Ylenja Lucaselli – introduce una detassazione totale per tutte le liberalità a enti civili e religiosi che si occupano di assistenza, ricerca, educazione, studio e utilità pubblica. La norma riguarda sia le donazioni in vita sia quelle testamentarie, e prevede l’esenzione perpetua anche su rendite e proventi derivanti dai beni oggetto della donazione.

Un esempio pratico: un immobile donato a un’associazione di volontariato non sarà tassato né al momento della donazione né in futuro, salvo che cambi proprietà. Il beneficio si applicherà solo a enti già esistenti alla data di entrata in vigore della legge, mentre per le nuove realtà sarà necessario un periodo di almeno tre anni di attività.

Il costo stimato per le casse pubbliche è di circa 500 milioni di euro l’anno, cifra che Tremonti considera un investimento strategico nella resilienza sociale del Paese.

L’appello all’impegno civico

“Non basta incentivare natalità e famiglie – spiega Tremonti nella relazione introduttiva – bisogna anche valorizzare la crescente disponibilità all’impegno civile che vediamo emergere in tante aree del nostro Paese”. Lo dimostrerebbe, secondo lui, anche il proliferare di campagne televisive e iniziative sociali incentrate sulla solidarietà e sul dono.

Non è un caso, del resto, che questa proposta arrivi proprio da colui che, anni fa, ideò il celebre meccanismo del 5 per mille. Ora, la nuova sfida è intercettare e canalizzare quella “grande eredità” che può diventare linfa per la tenuta sociale futura.

Una misura tampone o un cambio di paradigma?

Il ddl Tremonti si colloca in un momento in cui cresce la consapevolezza di un lento ma inesorabile arretramento del welfare pubblico. In questo scenario, la proposta rappresenta un tentativo di rendere strutturale un nuovo patto tra Stato, cittadini e società civile.

Resta da vedere se l’idea sarà accolta con favore trasversale o si scontrerà con chi vede nel rafforzamento del Terzo Settore una “fuga” dalle responsabilità pubbliche.


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Professioni, svolta digitale: il lavoro autonomo entra nel sistema Siisl

Il mondo delle professioni autonome entra nel cuore delle politiche attive del lavoro. È quanto emerso dal tavolo sull’occupazione autonoma, riconvocato dal Ministero del Lavoro dopo oltre un anno e mezzo di pausa e presieduto dalla ministra Marina Calderone. Una riunione densa di proposte e aperture concrete, tra cui l’estensione al lavoro autonomo della piattaforma Siisl (Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa), pensata per l’orientamento e l’avvicinamento al lavoro dei giovani, soprattutto dei cosiddetti Neet.

L’obiettivo è ambizioso: costruire un sistema moderno ed efficace per connettere i professionisti – attuali e futuri – alle opportunità del mercato, anche attraverso strumenti innovativi. Tra questi, AppLI, l’Assistente personale per il Lavoro in Italia, già operativo per l’orientamento dei giovani, che sarà oggetto di approfondimenti tecnici a partire da settembre. Una delle piattaforme previste, ha sottolineato Calderone, sfrutta l’intelligenza artificiale per incrociare domanda e offerta in tempo reale, favorendo il matching professionale anche per chi opera fuori dal tradizionale circuito del lavoro dipendente.

Una strategia condivisa e partecipata

Nel corso dell’incontro, cui hanno preso parte le rappresentanze del sistema ordinistico, delle associazioni professionali e delle organizzazioni sindacali, la ministra ha raccolto proposte in vista della legge di bilancio 2026. Tra i temi in evidenza, il rafforzamento delle tutele per i professionisti iscritti alla gestione separata INPS, con particolare attenzione all’Iscro – l’indennità straordinaria di continuità reddituale – per cui si chiede l’introduzione della contribuzione figurativa, come già previsto per gli altri ammortizzatori sociali.

Anna Rita Fioroni, presidente di Confcommercio Professioni, ha inoltre rilanciato la proposta di incentivare l’adesione a forme di sanità integrativa, in un contesto in cui il servizio pubblico fatica a garantire una risposta sufficiente alla domanda di cure.

Previdenza e investimenti: il confronto con le Casse

Importanti sviluppi anche sul fronte previdenziale. Dopo un confronto tra il sottosegretario all’Economia Federico Freni e i vertici delle Casse professionali, è stato concordato che, dopo la pausa estiva, eventuali modifiche al regolamento sugli investimenti (ancora in fase di definizione) saranno condivise con gli Enti coinvolti. Il testo, è stato chiarito, dovrà offrire linee guida di indirizzo, non prescrizioni vincolanti, lasciando autonomia a ciascuna Cassa nella definizione delle proprie strategie coerenti con le specificità settoriali.

La proposta di aprire le Casse anche a professionisti non iscritti agli Albi – avanzata dall’Adepp, nella persona della vicepresidente Tiziana Stallone – ha invece diviso i partecipanti: favorevoli alcuni enti per ragioni di sostenibilità, contrari altri, soprattutto tra le componenti associative regolamentate dalla legge 4/2013.

Il commento politico

Sul coinvolgimento degli enti nella costruzione delle nuove regole si è espresso anche l’on. Andrea De Bertoldi (Lega), che ha sottolineato la necessità di evitare un eccesso di burocratizzazione: “Serve partecipazione e condivisione, non imposizioni. Solo così si possono rispettare l’autonomia e la missione delle Casse”.


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Dopo anni di incertezze, cambia il meccanismo per ottenere l’indennizzo nei casi di “processo lumaca”. Con l’approvazione del decreto legge Giustizia da parte del Consiglio dei Ministri, arriva una stretta sui termini, ma anche una maggiore flessibilità per i cittadini che subiscono procedimenti giudiziari di durata irragionevole.

Una delle novità principali è la possibilità, in determinati casi, di chiedere la riparazione anche mentre il processo è ancora in corso, senza dover attendere la conclusione definitiva. Una modifica importante, che ripristina in parte quanto previsto dal testo originario della legge Pinto, prima della riforma del 2012.

Quando e come si può chiedere l’indennizzo?

Secondo la nuova disciplina, la domanda di riparazione può essere proposta anche “in itinere”, ovvero durante lo svolgimento del processo, se si è già superato il termine ragionevole di durata, come stabilito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Tuttavia, se si sceglie di aspettare la fine del procedimento, resta il termine tradizionale: sei mesi dalla definitività della sentenza, pena la decadenza del diritto.

Una doppia opzione, dunque, ma con limiti temporali precisi, pensati per evitare contenziosi infiniti e responsabilizzare le parti.

Ma non è tutto semplice

La riforma, pur ampliando le possibilità di azione, lascia ancora margini di incertezza. In molti casi, la valutazione sull’irragionevolezza dei tempi dipende dall’esito stesso del processo. Ad esempio:

  • se una causa si conclude con una condanna per lite temeraria, la riparazione può essere esclusa;
  • se il ricorrente perde la causa in maniera evidente, il quantum dell’indennizzo può essere ridotto o annullato.

Spetterà ai giudici, caso per caso, valutare il diritto all’indennizzo e la sua misura effettiva.

Termini e obblighi per incassare: attenti alla tagliola

Una delle innovazioni più rilevanti riguarda la fase successiva al riconoscimento del diritto alla riparazione.
Chi ha ottenuto un decreto favorevole dovrà presentare, a pena di decadenza, una dichiarazione con l’ammontare da ricevere e le modalità di pagamento prescelte, entro un anno dalla pubblicazione del provvedimento.

Chi non adempie a questo obbligo entro i 12 mesi, perde il diritto all’indennizzo, anche se riconosciuto. È il principio della cosiddetta “tagliola”, che punta a evitare lungaggini anche nella fase esecutiva.

Le disposizioni transitorie: attenzione alle scadenze

Per chi ha ottenuto somme da liquidare fino al 31 dicembre 2021, la nuova norma fissa un termine chiaro: entro il 31 dicembre 2026 dovranno presentare la dichiarazione per l’incasso, altrimenti decadranno dal diritto.

Nel frattempo, e fino al 21 gennaio 2027, non potranno essere avviate azioni esecutive o ricorsi per ottemperanza, e quelle eventualmente in corso saranno sospese.

Anche i creditori di somme riconosciute tra il 1° gennaio 2022 e l’entrata in vigore del nuovo decreto dovranno presentare l’apposita dichiarazione entro un anno dalla data di entrata in vigore, sempre a pena di decadenza.


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Savona (Consob): “Criptovalute senza regole? Un attentato alla democrazia”

Dietro l’illusione del progresso tecnologico si nasconde, secondo Paolo Savona, presidente della Consob, una minaccia profonda e sistemica. Non solo per la stabilità finanziaria, ma per la tenuta stessa della democrazia. In un intervento, pubblicato su Milano Finanza, l’economista lancia un monito sull’attuale corsa alla legittimazione delle criptovalute, definendole senza mezzi termini un “salto nel buio per la società intera”.


Il vero nodo: chi ha il diritto di battere moneta?

Savona parte da un principio cardine della dottrina democratica: il potere monetario è una prerogativa pubblica, legata alla responsabilità verso i cittadini e alla stabilità del sistema. Eppure, osserva, “le criptovalute sono state sdoganate senza un vero dibattito pubblico, senza che gli elettori fossero avvisati di questa scelta cruciale”.

«Kant ci ha insegnato che la democrazia consiste nel sostituire il dominio di pochi con il governo delle leggi votate da molti. Ma in questo caso, si è legittimato un potere di creazione monetaria a soggetti privati, al di fuori di un chiaro mandato democratico».


Registrazioni senza valore reale, ma con enormi conseguenze

Per Savona, le crypto non sono né oro digitale né strumenti neutri: sono registrazioni contabili senza controparte, prive di scarsezza intrinseca e soprattutto senza alcuna garanzia pubblica. A differenza delle monete legali, le criptovalute non sono sostenute da crediti reali o titoli di Stato, né da alcun sistema di protezione del risparmio.

Le cosiddette stablecoin cercano di compensare questa mancanza, legandosi ad asset reali e cercando una copertura normativa, come previsto dal Genius Act statunitense o dal regolamento europeo MiCAR. Ma, avverte Savona, l’apparente stabilità normativa non ne cancella la natura privatistica, e anzi può contribuire a una pericolosa confusione tra mercato e democrazia.


Il precedente storico: i subprime del 2008

Il paragone con la crisi finanziaria del 2008 non è casuale. Allora furono i crediti subprime, mascherati da titoli prime, a innescare un disastro sistemico. Oggi, secondo Savona, le criptovalute rischiano di replicare lo stesso schema, mescolandosi al risparmio tradizionale e ottenendo una legittimità che ne occlude i rischi reali.

«Finché ci sarà qualcuno disposto a comprare, attratto dalla speranza di guadagno facile, il sistema reggerà. Ma è un meccanismo fragile, che alimenta bolle e sposta ricchezza verso chi non produce valore, ma lo estrae».


Una nuova ingiustizia sociale

Il punto più controverso dell’analisi di Savona riguarda l’effetto redistributivo delle crypto.
Secondo il presidente della Consob, attribuire potere d’acquisto a chi crea o possiede ricchezza digitale equivale a minare il patto sociale, penalizzando chi lavora, risparmia o investe nell’economia reale.

«La democrazia ne uscirebbe ferita. Si creerebbe una nuova élite, non fondata sul merito o sull’innovazione reale, ma sulla capacità di speculare in un contesto senza regole».


Regolare o rinunciare?

Il messaggio è chiaro: senza una regolamentazione solida e condivisa, le criptovalute possono trasformarsi in un fattore di disgregazione istituzionale. Un appello, quello di Savona, che arriva in un momento decisivo per i legislatori europei e italiani, impegnati nel recepimento delle norme MiCAR e nella definizione di un perimetro chiaro per l’uso delle crypto nei mercati finanziari.


Una sfida di civiltà

Chiude con una provocazione inquietante:

“Riusciremo a frenare l’orda dell’homo insipiens?”, evocando la responsabilità collettiva di affrontare un fenomeno che rischia di travolgere i pilastri dell’economia, della politica e della fiducia pubblica.


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Caso Almasri, Nordio contro l’Anm: “Parodi cita notizie riservate?”

Il caso Almasri continua a infiammare il dibattito tra magistratura e politica, generando nuove frizioni istituzionali. All’indomani dell’archiviazione delle indagini per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e della trasmissione alla Camera della richiesta di processo per tre esponenti del governo – i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e il sottosegretario Alfredo Mantovano – il focus della polemica si è spostato sulle parole del presidente dell’ANM Cesare Parodi.

Intervenuto a Radio anch’io, Parodi ha sottolineato come un eventuale processo potrebbe avere ricadute politiche anche significative. Ma a far infuriare il governo è stato un presunto riferimento – poi smentito – al capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giusi Bartolozzi, il cui ruolo è emerso nelle comunicazioni interne al Ministero subito dopo l’arresto del generale libico Almasri.


La reazione di Nordio: “Affermazioni inaccettabili”

Immediata la replica del ministro della Giustizia, che ha bollato le parole di Parodi come “improprie e sconcertanti”:

“Non so come Parodi si permetta di citare la mia capo di gabinetto, il cui nome – per quanto mi risulta – non è presente negli atti. Se così fosse, dovrei presumere che abbia accesso a informazioni riservate. È un’invasione di campo che considero istituzionalmente inaccettabile”.

Anche il vicepremier Antonio Tajani ha espresso stupore: “È una reazione incomprensibile, sembra una vendetta”.

Nel pomeriggio, è arrivata la precisazione dello stesso Parodi, che ha negato qualsiasi riferimento diretto a Bartolozzi, spiegando di aver fatto un “ragionamento generale” e ribadendo di non voler entrare nel merito dell’inchiesta.


Il nodo Bartolozzi e il ruolo del Ministero

Il nome di Giusi Bartolozzi è emerso nei giorni scorsi in alcune email interne al Dipartimento affari di giustizia, nelle quali – poche ore dopo l’arresto del generale – si suggeriva di non protocollare nulla e di usare una chat cifrata su Signal per comunicare sul caso. Una scelta che, per gli inquirenti, dimostrerebbe la consapevolezza dell’esistenza del mandato della Corte penale internazionale (CPI) e una possibile volontà di non darvi seguito, in contrasto con le prime smentite ufficiali.

Bartolozzi non rientra però tra i soggetti per cui è richiesta l’autorizzazione a procedere: eventuali indagini nei suoi confronti seguirebbero un canale ordinario, distinto da quello riservato ai membri del governo, soggetti alla procedura del Tribunale dei ministri.


Le accuse: omissione, favoreggiamento, peculato

Per Nordio, Piantedosi e Mantovano la Procura ipotizza i reati di:

  • Omissione di atti d’ufficio, per non aver eseguito il mandato della CPI;

  • Favoreggiamento personale, per aver consentito il rimpatrio di Almasri;

  • Peculato, per l’utilizzo del volo di Stato destinato al generale libico.

La posizione di Giorgia Meloni è stata invece archiviata: secondo il Tribunale dei ministri non è emersa alcuna prova che dimostri una partecipazione attiva alla gestione del caso. La sua generica informazione sulla vicenda, e la successiva rivendicazione politica, non bastano a sostenere una responsabilità penale.


Le reazioni politiche: attacchi dalle opposizioni

Le parole della premier – che ha parlato pubblicamente di una scelta politica consapevole – hanno dato ulteriore carburante alle critiche dell’opposizione.
Elly Schlein, segretaria del PD, ha chiesto a Meloni di riferire in Aula “sulla responsabilità politica che si è assunta”.
Più diretto Matteo Renzi (IV): “Non mi interessa il profilo giudiziario. Il governo ha mentito e ha gestito con superficialità una questione di sicurezza nazionale. Siamo di fronte a dilettanti”.
L’avvocato Francesco Romeo, difensore di una delle vittime, ha rilanciato: “Le dichiarazioni della premier sono una confessione. Le indagini possono riaprirsi”.


Prossimi passi: la parola al Parlamento

Gli atti del Tribunale dei ministri sono stati trasmessi dal Procuratore di Roma Francesco Lo Voi al presidente della Camera, che dovrà ora inoltrarli alla Giunta per le autorizzazioni a procedere.
Per Meloni, invece, l’archiviazione segue un canale separato e non richiede alcun passaggio parlamentare.


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Difesa, infrastrutture e industria: Meloni convoca le partecipate per il piano da 15 miliardi

“Produrre in Italia” è la parola d’ordine con cui il governo Meloni apre la partita strategica dell’utilizzo dei fondi Safe – il nuovo programma europeo dedicato al rafforzamento della sicurezza comune dell’Unione Europea. In ballo ci sono 15 miliardi di euro, da impiegare in progetti con ritorni tangibili sull’economia nazionale, evitando che le risorse si disperdano in interventi slegati dall’interesse produttivo e infrastrutturale del Paese.

Il vertice si è svolto a Palazzo Chigi, presieduto dalla premier Giorgia Meloni con la presenza del vicepremier Antonio Tajani, del ministro della Difesa Guido Crosetto e del titolare dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Invitati al tavolo i vertici delle principali partecipate pubbliche: Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia.


Difesa e dual use: la strategia del doppio impiego

Sul tavolo del governo non c’è solo la questione sicurezza in senso stretto. L’obiettivo è attivare un circuito virtuoso: impiegare i fondi europei in progetti “dual use”, cioè capaci di coniugare le esigenze militari con applicazioni civili e industriali. Un modo per rafforzare il consenso attorno alla spesa per la difesa, spostandone l’immagine da “costo” a motore di sviluppo nazionale.

«La strategia – spiegano fonti di Palazzo Chigi – dovrà identificare priorità chiare e garantire una piena compatibilità tra gli investimenti italiani e quelli avviati dagli altri Paesi Ue».

Il messaggio è chiaro: niente investimenti scollegati, ma progetti sinergici e sostenibili, capaci di generare occupazione, know-how e ritorni economici concreti. In cima alla lista: elicotteri, navi e tecnologie strategiche, da sviluppare in Italia attraverso le filiere industriali nazionali.


Il Ponte sullo Stretto entra in partita

Tra le ipotesi in discussione anche l’inserimento del Ponte sullo Stretto di Messina nell’elenco dei progetti finanziabili con fondi Safe. L’opera, dal costo stimato di 13,5 miliardi di euro, potrebbe beneficiare del programma europeo in virtù della sua valenza logistica e strategica “dual use”: un’infrastruttura pensata per il traffico civile, ma con potenziale utilizzo anche in ambito difensivo.

Il governo starebbe valutando l’ipotesi di coprire una parte del finanziamento europeo, riducendo l’impatto sulla finanza pubblica e liberando risorse del Fondo di sviluppo e coesione.

Meloni presiederà oggi la riunione del CIPESS per l’approvazione del progetto definitivo dell’opera, con un cronoprogramma che prevede fino a 470 giorni per la stesura del progetto esecutivo.


Coordinamento permanente e clausole ReArm

Nel corso del vertice è stata decisa l’istituzione di un tavolo di coordinamento permanente per il monitoraggio dell’avanzamento dei progetti. Un segnale di attenzione alla governance delle risorse e alla necessità di evitare ritardi e frammentazioni operative.

Si è discusso anche della clausola di salvaguardia nazionale per l’aumento della spesa militare nell’ambito del programma europeo ReArm. Tuttavia, il governo ha chiarito che non intende attivarla finché l’Italia non sarà uscita dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo. L’asticella resta chiara: rapporto deficit/PIL sotto il 3%, obiettivo che – secondo le previsioni – potrebbe essere raggiunto già in autunno, ma solo se l’andamento dell’economia lo consentirà.


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