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Il termine quinquennale di continuità professionale

La Corte territoriale aveva erroneamente confermato la pronuncia di primo grado

Avvocatessa fa ricorso in Cassazione per contestazione sulla continuità dell’esercizio professionale

Il 4 novembre scorso la Cassazione pubblica l’ordinanza n. 31754 a seguito di un ricorso per contestazione sulla continuità della professione. Qui, si fa riferimento agli artt. 22 (Iscrizione alla Cassa), 17 (Comunicazioni obbligatorie alla Cassa) e 23 (Comunicazione e pagamento dei contributi per gli anni 1975 e successivi). Con essi, la Cassazione stabilisce che la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza forense non può più contestare il requisito della continuità professionale.

Continuità professionale e pagamento contributi a Cassa Forense

La vicenda risale a circa vent’anni fa, quando ad un’avvocatessa viene chiesto l’accertamento del requisito della continuità professionale per l’anno 2000. Prima, l’avvocatessa aveva chiesto l’annullamento della delibera con la quale la Giunta esecutiva aveva dichiarato inefficace l’importo da lei versato. Dunque, la pronuncia del giudizio origina dalla sentenza della Corte d’Appello di Napoli che nel 2014 confermò la decisione di primo grado di rigettare la domanda dell’avvocatessa.

 

 

La professionista propone ricorso in Cassazione, deducendo tre motivi:

  1. Denuncia “della violazione e falsa applicazione degli artt., 14201372 e 2697 cod. civ. nonché degli artt. 3, I. n. 319/1975, 22, I. n. 576/1980, e 20, 21, 22 e 30 dello Statuto della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense”. Quindi, ella ritenne che la Corte avesse erroneamente dato ragione alla Giunta esecutiva della Cassa, rispetto alla tempestiva contestazione del suddetto requisito. In effetti, la delibera intervenne in data 06.07.2007, molto tempo dopo il termine di cinque anni di cui all’art. 22, I. n. 576/1980;
  2. Lamenta la violazione degli artt. 21 e 1372 cod. civ.I. n. 319/1975I. n. 576/1980, e degli artt. 134293137 e 38 Cost. Infatti, ella fa notare che la propria maternità le consentiva l’esonero dalla relativa prova per due anni, compreso quello di nascita del figlio;
  3. Contesta la violazione degli artt. 21 e 1372 c.c., 2, I. n. 319/1975, 22, I. n. 576/1980, e degli artt. 324 e 111 Cost. e 244 e 245 c.p.c. Qui, la professionista pone l’attenzione sull’omissione dell’esame dei fatti decisivi: la Corte non aveva tenuto conto della difficoltà di accrescimento della figlia e della conseguente flessione nel reddito.

La risposta della Cassazione

Innanzitutto, la Corte in riferimento al primo punto contesta che di tanto in tanto è lecita una periodica revisione degli iscritti. Quindi, la Giunta esecutiva della Cassa può farlo in riferimento proprio al criterio della continuità professionale. Così, si rendono inefficaci (agli effetti dell’anzianità d’iscrizione) i periodi per i quali la continuità non risulta dimostrata. Effettivamente, la Corte dimostra che l’art. 22 u. c., L. n. 576/1980, ha modificato l’art. 3 della L. n. 319/1975.

Quindi, il Collegio richiama la sentenza n. 16252 del 2018. Qui, si specifica che per architetti e ingegneri liberi professionisti iscritti alla Cassa di previdenza professionale, il termine quinquennale per le verifiche del requisito della continuità ha natura decadenziale. Inoltre, il termine decorre dalla data in cui il professionista ha presentato la relativa dichiarazione sostitutiva, funzionale all’esercizio della verifica.

Ora, si fa riferimento alla sentenza delle Sezioni Uniten. 13289/2005. Qui, viene esteso all’Inarcassa il principio di diritto secondo cui, quando:

  • non è esercitata la facoltà di revisione prevista dal citato art. 22;
  • l’interessato ha adempiuto agli obblighi di comunicazione previsti dagli artt., 17 e 23 della L. n. 576/1980

allora la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense non può più contestare il requisito della continuità professionale. In particolare, questo discorso è valido per i periodi anteriori al quinquennio precedente la domanda di pensione.

Perciò, la Corte territoriale ha erroneamente confermato la pronuncia di primo grado, non tenendo conto di tale principio. In conclusione, la Cassazione:

  • accoglie il primo motivo;
  • ritiene assorbiti gli altri;
  • cassa la sentenza impugnata;
  • rinvia la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione.

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