Da alleata invisibile a risorsa quotidiana, l’intelligenza artificiale sta cambiando silenziosamente il volto del lavoro in Italia. Secondo i dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, nel 2025 quasi un terzo dei lavoratori italiani (32%) ha già integrato strumenti di IA nelle proprie attività quotidiane, con un guadagno medio di 30 minuti al giorno, che diventano 50 minuti per chi ne fa un uso regolare.
Un tempo prezioso che viene reinvestito non solo per “fare di più” o “fare meglio”, ma anche per attività extra-lavorative, esigenze personali e familiari. Il tempo recuperato diventa così ossigeno in un contesto organizzativo sempre più esigente e affaticante.
Una rivoluzione dal basso
La diffusione dell’intelligenza artificiale nei luoghi di lavoro non è spinta tanto dalle strategie aziendali, quanto dall’iniziativa individuale. Mentre due imprese su tre forniscono strumenti di IA, ben l’85% dei lavoratori preferisce soluzioni gratuite trovate autonomamente sul web. È il segnale di un cambiamento che parte dal basso, ma che rischia di rimanere frammentato in assenza di una governance chiara.
«Le imprese stanno investendo, ma spesso manca un disegno strategico», avverte Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio. Il rischio è quello di disperdere le potenzialità dell’innovazione tecnologica, senza riuscire a trasformarla in un reale vantaggio competitivo.
I numeri del malessere lavorativo
Accanto alla diffusione dell’IA, lo studio del Politecnico evidenzia anche un dato preoccupante: solo il 17% dei lavoratori italiani si dichiara pienamente ingaggiato e appena uno su dieci si sente bene sul lavoro dal punto di vista fisico, mentale e relazionale. A crescere è invece la quota dei “quiet quitter”: il 14% dei dipendenti dichiara di svolgere solo il minimo indispensabile, emotivamente disinnescato dal proprio ruolo.
In questo contesto, l’IA non è solo uno strumento di efficienza, ma una leva potenziale per restituire significato e sostenibilità al lavoro. Un “cuscinetto” tra alienazione e burnout, come lo definisce il report, che può ridisegnare il modo stesso in cui si lavora.
Il lavoro cambia, ma le aziende non sempre se ne accorgono
Solo un’impresa su sette analizza in modo sistematico l’impatto dell’intelligenza artificiale sulle attività lavorative. E mentre il 78% delle aziende segnala difficoltà nell’assumere personale con competenze digitali adeguate, la metà non monitora nemmeno le skill interne. Il risultato? Mancato allineamento tra domanda e offerta, incomprensioni organizzative e un aumento dei cosiddetti mismatch.
Eppure, i dati parlano chiaro: nelle aziende che hanno adottato un modello “skill-based”, in cui ruoli e percorsi professionali ruotano attorno alle competenze reali e non all’anzianità, il livello di coinvolgimento dei dipendenti sale al 42% e il benessere percepito raddoppia.
L’IA non sostituisce, ma ridisegna
L’intelligenza artificiale, in questo scenario, non va vista come un pericolo ma come un acceleratore di trasformazione positiva. «La vera sfida per le risorse umane nel 2025 è ridare significato al lavoro», sottolinea Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio. «Serve ripensare i ruoli, i carichi e le competenze. E l’intelligenza artificiale, se ben governata, può essere il motore di questo cambiamento».
In altre parole, non basta premere “invio” su ChatGPT per trasformare il lavoro. Serve una visione ampia, una cultura dell’innovazione capace di integrare tecnologia, persone e organizzazione. Perché solo così il tempo guadagnato non sarà solo produttività in più, ma qualità di vita, motivazione e futuro.
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