Fideiussioni bancarie: confermata la nullità delle clausole ABI

Le fideiussioni bancarie “a fotocopia” continuano a essere bocciate nei Tribunali italiani. Con la sentenza n. 1432 del 6 maggio 2025, il Tribunale di Lecce ha dichiarato la nullità parziale di alcune clausole presenti in contratti di garanzia fideiussoria, confermando l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che censura le condizioni contrattuali riprese dallo schema ABI del 2003, già sanzionato dalla Banca d’Italia per violazione della normativa antitrust.

Il caso: fideiussioni e clausole viziate

Protagonisti della vicenda, alcuni garanti che, opponendosi a una richiesta di pagamento avanzata dalla banca, hanno eccepito la nullità di specifiche clausole (le nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI) contenute nel contratto fideiussorio. Clausole che, secondo i fideiussori, riproducevano pedissequamente quelle già ritenute contrarie alla libertà di concorrenza dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55/2005. Il giudice ha dato loro ragione, accertando la nullità parziale dei contratti e dichiarando la banca decaduta dal diritto di agire in giudizio, non avendo rispettato i termini previsti dall’art. 1957 c.c.

Nullità di protezione estesa anche ai contratti “specifici”

Il Tribunale salentino ha ribadito che la nullità delle clausole oggetto di censura non riguarda soltanto le fideiussioni “omnibus” — riferite a obbligazioni future e indeterminate — ma si estende anche a quelle “specifiche”, stipulate per singole obbligazioni. La ragione? La violazione antitrust non risiede nel tipo di fideiussione, bensì nella diffusione di condizioni contrattuali standardizzate che limitano la concorrenza.

Il nodo dell’art. 1957 c.c. e la decadenza del creditore

Uno degli aspetti più rilevanti della pronuncia riguarda l’applicazione dell’art. 1957 c.c., che impone al creditore di agire giudizialmente contro il debitore principale entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione. Nel caso in esame, il Tribunale ha accertato che la banca aveva avviato l’azione monitoria solo nel 2023, mentre l’obbligazione era scaduta già nel 2019. Una comunicazione inviata nel 2018 e la pendenza di una procedura di sovraindebitamento sono state ritenute inidonee a interrompere il termine decadenziale.

La prova dell’intesa anticoncorrenziale

Non essendo in presenza di una fideiussione omnibus — e quindi formalmente esclusa dall’accertamento della Banca d’Italia — i garanti hanno dovuto fornire la prova dell’esistenza e persistenza dell’intesa illecita attraverso il deposito di modelli contrattuali utilizzati da più banche a livello nazionale, contenenti le medesime clausole contestate. Il Tribunale ha ritenuto sufficiente tale documentazione per dimostrare la continuità della pratica anticoncorrenziale.


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Phishing e home banking: se il cliente è incauto, la banca non paga

Il Tribunale di Bari ha messo un punto fermo in materia di truffe informatiche e responsabilità bancaria. Con la sentenza n. 544 del 13 febbraio 2025, il giudice ha respinto la domanda risarcitoria di un cliente che aveva denunciato accessi non autorizzati al proprio conto corrente tramite home banking, frutto di un attacco di phishing. A far pendere la bilancia a favore dell’istituto di credito è stato il comportamento poco diligente del correntista, che non aveva tempestivamente informato la banca di aver perso il controllo del proprio numero di telefono certificato per l’accesso online.

Il caso: bonifici sospetti e il cellulare disabilitato

La vicenda ha preso il via quando il cliente si è accorto che tra il 19 e il 23 luglio 2019 erano stati disposti numerosi bonifici a sua insaputa tramite home banking. Le credenziali di accesso non erano mai state condivise con terzi, ma il correntista aveva trascurato un dettaglio fondamentale: già dal 18 luglio il proprio cellulare – abilitato al sistema di autenticazione forte e necessario per autorizzare le operazioni online – era stato disattivato. Invece di avvertire la banca e bloccare l’utenza, il cliente aveva semplicemente cambiato operatore e numero di telefono, senza comunicare nulla all’istituto.

Le regole sulla sicurezza digitale e la ripartizione delle responsabilità

Il giudice ha ricordato i principi cardine in materia di operazioni di pagamento elettronico: spetta alla banca garantire la sicurezza del sistema e prevenire accessi non autorizzati, ma il cliente deve agire con diligenza, proteggendo le proprie credenziali e informando tempestivamente di eventuali smarrimenti o anomalie. In presenza di condotte gravemente imprudenti, come nel caso in esame, il prestatore di servizi di pagamento può essere esonerato da responsabilità.

Colpa grave e oneri a carico del cliente

Il Tribunale ha qualificato la condotta del correntista come colpa grave, sottolineando che l’interruzione della funzionalità del cellulare certificato equivale alla perdita di uno strumento di pagamento. La normativa di settore – in particolare il d.lgs. n. 11/2010 – impone infatti all’utente l’obbligo di comunicare senza indugio ogni smarrimento o uso non autorizzato, pena l’assunzione del rischio di eventuali perdite.

La decisione e le sue implicazioni

Alla luce di questi elementi, il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda risarcitoria, ritenendo legittimo l’esonero di responsabilità della banca. La sentenza si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che pur riconoscendo una forte tutela per i clienti dei servizi di pagamento, non esonera gli utenti dall’adottare comportamenti diligenti e tempestivi a tutela dei propri strumenti digitali.


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Assegno di mantenimento: contano le condizioni reali, non solo i redditi dichiarati

La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema del mantenimento tra coniugi separati, chiarendo un principio già affermato ma ancora spesso trascurato nei giudizi di merito: per determinare l’assegno di mantenimento, il giudice non può limitarsi ai redditi ufficialmente dichiarati, ma deve accertare il tenore di vita effettivo tenuto durante il matrimonio e le condizioni economiche reali delle parti.

Con l’ordinanza n. 11611 del 3 maggio 2025, la Prima Sezione Civile ha accolto il ricorso di un marito, contestando alla Corte d’appello una valutazione troppo generica e priva di un’adeguata ricostruzione della vita matrimoniale e del contesto patrimoniale. L’errore del giudice di merito è stato quello di fondare la decisione su presupposti non verificati, senza analizzare concretamente lo stile di vita condotto dalla coppia e le variazioni patrimoniali successive alla separazione.

Oltre le carte fiscali: la verifica concreta del tenore di vita

Il principio affermato dalla Suprema Corte è chiaro: la misura dell’assegno deve rapportarsi non solo alle dichiarazioni fiscali, ma a tutto ciò che compone il reale assetto economico delle parti, includendo proprietà, disponibilità finanziarie, redditi non dichiarati e fonti di sostentamento abituali durante il matrimonio.

Il giudice, quindi, può e deve servirsi di strumenti istruttori anche d’ufficio — come consulenze tecniche o indagini tributarie — per far emergere la reale situazione economico-patrimoniale, superando eventuali reticenze o opacità dei documenti ufficiali.

Un principio di equità nel post-separazione

Come già sancito da una consolidata giurisprudenza di legittimità, la quantificazione dell’assegno deve garantire un equilibrio economico tra i coniugi dopo la separazione, commisurando le necessità di chi lo richiede alle possibilità effettive dell’altro. Ciò richiede un’indagine attenta e concreta, che tenga conto anche di elementi presuntivi e di tutte le risorse che hanno consentito il tenore di vita durante la convivenza.


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Cassazione: sull’oblazione penale decide l’imputato, non il giudice

Con la sentenza n. 17523, depositata il 9 maggio scorso, la Corte di Cassazione ribadisce un principio ormai consolidato in materia di oblazione penale: spetta esclusivamente all’imputato sollecitare il giudice a riqualificare il fatto in una fattispecie che consenta l’accesso al beneficio, presentando contestualmente la relativa istanza. In mancanza di tale iniziativa, il diritto a fruire dell’oblazione viene meno, anche qualora il giudice, di propria iniziativa, dovesse procedere a una diversa qualificazione del reato.

La questione è stata affrontata dalla Terza sezione penale nell’esaminare il ricorso di tre imputati condannati per sversamento colposo di nafta in mare. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, rilevando che i ricorrenti non avevano mai richiesto la riqualificazione del fatto durante la discussione del processo, rendendo così la loro censura generica e priva di fondamento.

Il principio, si legge nella motivazione, è pacifico: quando il reato contestato non consente l’oblazione ordinaria o speciale, l’imputato deve attivarsi, chiedendo una diversa qualificazione giuridica del fatto e presentando contemporaneamente istanza di oblazione. Se ciò non avviene e il giudice procede comunque a una riqualificazione ai sensi dell’articolo 521 del codice di procedura penale, il beneficio resta inaccessibile.

La Corte ha richiamato anche precedenti in materia, ricordando che un ricorso per Cassazione fondato sulla sola mancanza di un meccanismo automatico che consenta di fruire dell’oblazione a seguito di una riqualificazione d’ufficio, senza che l’imputato abbia mai avanzato istanza, è da considerarsi inammissibile perché volto a sollecitare una pronuncia di mero principio.

Infine, viene ribadito che la nullità della sentenza potrebbe sussistere solo se l’imputato avesse presentato regolare istanza subordinata a una diversa qualificazione del fatto e il giudice non si fosse pronunciato, oppure avesse applicato erroneamente la legge penale. Circostanza, questa, non verificatasi nel caso di specie, motivo per cui il ricorso è stato respinto.


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Avvocati romani compatti per la riforma della legge professionale: l’assemblea COA Roma guarda al Congresso di Torino

Si è svolta oggi l’assemblea del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, convocata per l’approvazione del bilancio consuntivo. L’aula, gremita da 310 presenti, ha approvato l’operato della Tesoreria con oltre il 90% dei consensi, un risultato che testimonia solidità amministrativa e condivisione diffusa all’interno del foro romano.

Ma, come ha evidenziato Massimiliano Cesali, consigliere dell’Ordine capitolino e già presidente di Movimento Forense, la notizia più rilevante emersa dall’assemblea non riguarda soltanto i numeri del bilancio. Cesali ha sottolineato come il momento più significativo della giornata sia stato il confronto sul prossimo Congresso Nazionale Forense, in programma a Torino.

Durante l’incontro sono intervenuti candidati delle due liste in competizione per il rinnovo del Consiglio, past president dell’Ordine e numerosi iscritti, tutti concordi — ha riferito Cesali — sulla necessità che, archiviata la competizione elettorale, i delegati romani si presentino uniti alla massima assise dell’avvocatura italiana per sostenere che il testo della proposta di riforma della legge professionale venga portato all’attenzione del Congresso come avvenne nel 2012 a Bari con quella che diventò poi la legge n. 247.

L’assemblea di oggi, dunque, non è stata soltanto un adempimento contabile, ma il segnale di un foro romano determinato a recitare un ruolo da protagonista nella stagione di riforma che attende l’avvocatura italiana.


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Ipm Treviso, Sangermano (Dgmc): “Denuncia dei Radicali non vera; sovraffollamento diminuito, istituto prossimo alla chiusura”

Roma, 12 maggio 2025 – Con riferimento alle notizie di stampa relative ad alcuni esponenti del Partito Radicale che, in esito alla visita effettuata presso l’Istituto penale per i minorenni di Treviso questa mattina, avrebbero annunciato di voler denunciare il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ed il Sottosegretario Andrea Ostellari per le condizioni gravemente critiche in cui avrebbero trovato l’Ipm e tali da compromettere la dignità dei detenuti,  il Capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità, Antonio Sangermano, dichiara quanto segue:

“Presso l’Ipm di Treviso il Dipartimento per la giustizia minorile è intervenuto già da tempo con un sensibile sfollamento del numero dei detenuti, che oggi sono 20, purtuttavia ancora in esubero rispetto alla capienza (si è passati da 29 a 20 detenuti), e ciò in conseguenza del sovraffollamento del comparto detentivo minorile, causato dall’enorme aumento di minori stranieri non accompagnati detenuti (pari al 49 per cento della popolazione carceraria minorile).

La chiusura dell’Ipm di Treviso è stata già programmata per il mese di dicembre 2025, quando verrà aperto il nuovo Istituto di Rovigo, per il quale si sta accelerando al massimo la ultimazione dei lavori. Presso l’Ipm di Treviso è stato aumentato il numero dei funzionari pedagogici, sono stati nominati un nuovo direttore ed un nuovo comandante.

In Veneto, come in altre Regioni italiane, sono in corso avanzato le procedure per aprire nuove comunità socio-terapeutiche, vera priorità del Dipartimento, secondo gli indirizzi politici dati dal  Ministro Nordio e dal Sottosegretario Ostellari. La magistratura di sorveglianza visita regolarmente l’Ipm, avendo il compito istituzionale che la Legge le conferisce. La rappresentazione effettuata dal comunicato stampa dei Radicali non descrive pertanto la realtà dei fatti.

Va anche evidenziato come il Ministro ed il Sottosegretario non abbiano alcuna competenza sulla gestione dell’Ipm di Treviso, che spetta ai ruoli preposti ed al Dgmc. Il Guardasigilli e il Sottosegretario Ostellari hanno impartito chiare direttive politiche per chiudere al più presto l’Ipm di Treviso e per adottare ogni soluzione logistica a tutela della dignità delle persone detenute, circostanza della quale, come Capo Dipartimento, do personalmente atto.

I dati in possesso ed acquisiti dal Dipartimento in seguito alle presunte dichiarazioni degli esponenti Radicali smentiscono la situazione asseritamente descritta dagli stessi, al contempo non essendo stata data alcuna contezza delle soluzioni adottate per diminuire il sovraffollamento, implementare le attività trattamentali e coprire le vacanze dei ruoli di vertice, così come della chiusura dell’Ipm di Treviso entro dicembre 2025. Venendo meno la suddetta completa rappresentazione, si finisce per fornire all’ opinione pubblica un resoconto oggettivamente non corrispondente al vero.”


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ROMA — Nuove regole di chiarezza per il reclutamento nella pubblica amministrazione. Con la sentenza n. 3140 dell’11 aprile 2025, il Consiglio di Stato ha fissato un principio che riguarda da vicino Comuni ed enti locali: le graduatorie dei concorsi pubblici non possono essere utilizzate per coprire posti istituiti o trasformati dopo la pubblicazione del bando che ha generato quella stessa graduatoria.

Il caso, nato in Sardegna, riguarda una dipendente comunale di categoria B3 che nel 2022 aveva superato un concorso per passare in categoria C1, lasciando vacante la propria posizione. Il Comune, però, anziché bandire un nuovo concorso per un posto B3 o attingere alle graduatorie esistenti, ha deciso di trasformare quel posto in un’altra posizione C1, modificando successivamente il piano triennale del personale per favorire la mobilità volontaria e solo in seconda battuta procedere con eventuali scorrimenti.

La dipendente esclusa ha fatto ricorso, sostenendo che il Comune avrebbe dovuto rispettare l’ordine delle graduatorie vigenti. Il TAR Sardegna le aveva dato ragione, ma il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione, stabilendo che l’articolo 91, comma 4, del Testo Unico degli Enti Locali vieta espressamente l’uso di graduatorie per la copertura di posti creati dopo l’indizione di un concorso.

La motivazione è chiara: consentire il contrario significherebbe esporre le amministrazioni al rischio di manovre poco trasparenti, con la possibilità di modificare la pianta organica per agevolare candidati già noti, magari provenienti da graduatorie di altri enti. Una pratica che andrebbe a ledere i principi di imparzialità e trasparenza che devono guidare l’operato della Pubblica Amministrazione.

Il Consiglio di Stato ha anche ribadito che, nel processo di reclutamento, la pubblica amministrazione gode di ampia discrezionalità organizzativa nel decidere se coprire o meno un posto vacante, tenendo conto dei vincoli di bilancio e delle esigenze interne. Ma, una volta deciso di procedere, è obbligata a motivare puntualmente la scelta del metodo di assunzione, giustificando il mancato utilizzo di graduatorie vigenti quando previsto.


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Gratuito patrocinio, il CNF boccia il limite alle materie imposto dal COA

ROMA — Nessun limite numerico alle materie in cui un avvocato può patrocinare nell’ambito del gratuito patrocinio. Lo ha ribadito il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 380 del 21 ottobre 2024, intervenendo su un caso sollevato da un avvocato contro il proprio Consiglio dell’Ordine che, con una delibera del 2016, aveva imposto un massimo di tre materie per l’iscrizione alle liste dei difensori a spese dello Stato.

Il professionista contestava la delibera, sostenendo che tale restrizione non trova fondamento in alcuna norma nazionale né europea, e rappresenta una violazione del diritto di difesa, del principio di uguaglianza e delle regole sulla concorrenza e sul mercato. Il ricorrente chiedeva inoltre che fosse riconosciuto il diritto di ogni assistito a scegliersi liberamente il proprio avvocato di fiducia, senza limiti di sorta.

Il Consiglio Nazionale Forense ha riconosciuto il principio, chiarendo che, in effetti, l’articolo 81 del D.P.R. n. 115/2002 non prevede alcuna limitazione in tal senso e che imporre un tetto alle materie significherebbe incidere sul diritto inviolabile di difesa e sulla libertà di scelta dell’assistito. Tuttavia, il CNF ha dichiarato il ricorso inammissibile, sottolineando che non è nelle sue competenze ordinare direttamente modifiche o annullamenti di delibere discrezionali degli Ordini territoriali.

Secondo i giudici forensi, l’avvocato ricorrente non aveva infatti dimostrato un interesse concreto e attuale a far dichiarare l’invalidità della delibera, limitandosi a sollecitare un intervento del CNF su una questione di principio o per situazioni future ipotetiche. Inoltre, il Consiglio ha ribadito che non può sostituirsi alle decisioni autonome degli Ordini, che restano titolari di scelte discrezionali nell’ambito delle loro funzioni istituzionali.

Un punto, però, resta fermo: per il Consiglio Nazionale Forense nessuna norma consente di stabilire limiti alle materie per cui un avvocato può patrocinare a spese dello Stato. Ogni eventuale restrizione di questo tipo, senza una base normativa, sarebbe incompatibile con i principi costituzionali ed europei.


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Cassa Forense, bilancio record: avanzo di 1,85 miliardi e patrimonio in crescita del 10%

ROMA — Cassa Forense archivia il 2024 con un bilancio decisamente positivo. L’ente previdenziale degli avvocati italiani ha infatti registrato un avanzo d’esercizio di oltre 1,85 miliardi di euro, segnando un incremento del 32,1% rispetto all’anno precedente.

Un risultato che porta il patrimonio netto a sfiorare i 19,5 miliardi di euro, con un aumento del 10,6% rispetto al valore finale del 2023. Bene anche la performance finanziaria, che ha toccato il 9,3%, superando nettamente il benchmark di riferimento, fissato al 5,9%.

A trainare il risultato è stato un saldo previdenziale positivo di quasi un miliardo di euro, accompagnato da un significativo incremento della governance finanziaria: i proventi netti sono saliti di oltre 972 milioni, in crescita del 78% rispetto allo scorso esercizio.

Le entrate contributive hanno raggiunto quota 2,36 miliardi di euro, con un incremento di oltre 64 milioni rispetto al 2023.

Sul fronte delle uscite, la spesa per prestazioni ha toccato 1,22 miliardi di euro, in aumento dell’8,7%. In particolare, le pensioni hanno assorbito circa 1,12 miliardi (+9%), mentre per le prestazioni assistenziali sono stati erogati 75 milioni di euro, segnando una crescita del 9,4%.

Positivo anche il dato sui costi di funzionamento dell’ente, che scendono dai 35,1 milioni del 2023 ai 34 milioni del 2024, con una riduzione del 2,8%.

Dal 1° gennaio 2025 è stato introdotto il sistema contributivo per il calcolo delle pensioni degli avvocati, una misura pensata per garantire sostenibilità e maggiore equità generazionale all’interno del sistema previdenziale.


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Regno Unito, il governo stringe sull’immigrazione: fine di un’epoca per i giovani europei

LONDRA — Cambiano le regole nel Regno Unito, e per tanti giovani europei — italiani in testa — potrebbe davvero chiudersi un capitolo. Il governo laburista di Keir Starmer ha annunciato una stretta senza precedenti sull’immigrazione. Ottenere un impiego sarà possibile solo per chi ha una laurea e parla inglese in modo fluente.

Una svolta netta, che segna la fine del periodo in cui a Londra si arrivava con pochi soldi e senza esperienza per fare qualsiasi lavoretto, imparare la lingua e magari lanciare la propria carriera.

Già oggi, dopo la Brexit, per lavorare nel Regno Unito serve un visto sponsorizzato, un salario minimo annuo di circa 35mila euro e una buona conoscenza dell’inglese. Ma ora sarà ancora più difficile.

Le nuove norme, presentate dalla ministra dell’Interno Yvette Cooper, prevedono il taglio di almeno 50mila arrivi di lavoratori non qualificati nel prossimo anno e limiti più rigidi ai ricongiungimenti familiari per lavoratori e studenti. Sarà inoltre necessario risiedere ininterrottamente per dieci anni nel Regno Unito prima di poter richiedere la residenza permanente.

Il governo punta così a ridurre il numero di migranti regolari, che due anni fa aveva sfiorato il milione di ingressi netti in soli dodici mesi. Un dato ritenuto insostenibile, soprattutto ora che il partito di estrema destra di Nigel Farage torna a crescere nei sondaggi.

Le nuove regole colpiranno anche settori tradizionalmente aperti agli stranieri, come sanità, assistenza e ristorazione, dove già oggi mancano oltre 100mila addetti. E chi arriverà, dovrà integrarsi e dimostrare di conoscere la lingua.

Secondo Starmer, è il momento di rimettere al lavoro i quasi 9 milioni di britannici economicamente inattivi, spesso esclusi dal mercato del lavoro anche a causa di un assistenzialismo diffuso.

Il governo annuncia inoltre sanzioni per le aziende che assumeranno stranieri senza prima aver cercato personale locale. Un cambiamento che potrebbe ridisegnare il volto cosmopolita di Londra e di molte città britanniche.

Il premier Starmer lo ha detto senza mezzi termini: «Le regole sull’immigrazione saranno molto più severe. Chi verrà qui dovrà integrarsi e contribuire. Diventare residenti sarà un privilegio, non un diritto».

E anche se a maggio, in un summit con l’UE, si discuterà di facilitare una limitata mobilità giovanile, sarà ben lontana dalla libertà di movimento di un tempo: permessi temporanei, limitati a uno o due anni.

La “Londra dei sogni” per tanti ragazzi europei sembra ormai un ricordo.


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