Social, AI e propaganda: il cortocircuito della partecipazione democratica

Nel panorama politico globale, le differenze tra regimi autoritari e democrazie appaiono nette solo sulla carta. Se da un lato i primi reprimono apertamente il dissenso e la libertà di stampa, dall’altro anche le democrazie contemporanee si trovano a combattere una battaglia silenziosa, ma altrettanto insidiosa: quella contro la disinformazione digitale e il potere pervasivo dei social network.

Oggi non basta più il “penso, dunque sono” cartesiano. Siamo entrati nell’era del “chatto, dunque esisto”, dove il valore della parola pubblica si misura nella velocità dei post e nella viralità dei contenuti, spesso manipolati da fake news e propaganda digitale. L’Intelligenza Artificiale, strumento potenzialmente straordinario, rischia di diventare un’arma letale nelle mani di chi vuole controllare l’opinione pubblica.

Le pressioni dei poteri forti, la politica che invade gli spazi dell’informazione e i format televisivi che annullano il dibattito autentico creano un’illusione di pluralismo. Negli Stati Uniti — patria storica della libertà di stampa — assistiamo a tentativi sempre più evidenti di condizionare la narrazione pubblica, mentre la cultura del sospetto e l’emergenza perenne giustificano decisioni rapide e arbitrarie.

Il caso Trump è solo la punta dell’iceberg di una deriva globale. Steve Bannon, suo ex stratega, lo ha dichiarato senza mezzi termini: annientare le istituzioni scomode e ridisegnare il potere a misura di ideologia. In questo scenario, la tecnologia diventa alleata del controllo, trasformando il cyberspazio in un moderno Grande Fratello.

L’Europa orientale, dagli esempi di Ungheria e Polonia, fino ai segnali d’allarme in democrazie consolidate, segue traiettorie simili: più l’autorità mostra i muscoli, più viene considerata efficace. Più è efficace, più si autoassolve nel restringere diritti e libertà, sempre nel nome di un’urgenza superiore: sicurezza, guerra, emergenze sociali.

Le urne continuano a riempirsi, ma cresce l’astensionismo e con esso la sfiducia nelle istituzioni. Nel 2024, quasi due miliardi di persone hanno votato, ma in un clima avvelenato da campagne digitali aggressive e promesse irrealizzabili. Il rischio è evidente: cittadini che si sentono irrilevanti e cercano scorciatoie populiste.

Eppure, il rimedio non è censurare o demonizzare chi cavalca queste paure, bensì restituire senso e valore alla partecipazione. Allargare il dibattito, difendere la libertà di stampa, sostenere un’informazione indipendente, garantire il diritto alla critica.

Le piazze di Berlino, New York, Parigi e Madrid — piene di cittadini che protestano per la pace, il lavoro, i diritti civili — dimostrano che il cuore della democrazia batte ancora. E finché rimarranno spazi per denunciare l’arbitrarietà e pretendere trasparenza, una speranza di inversione di rotta è possibile.


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Le eredità vanno dichiarate: obbligo di comunicazione patrimoniale anche per i condannati per mafia

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18474 depositata oggi, hanno sciolto un rilevante nodo interpretativo in tema di obblighi patrimoniali per i condannati per reati di criminalità organizzata e per i soggetti destinatari di misure di prevenzione. L’obbligo di comunicare le variazioni patrimoniali, previsto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982, si estende infatti anche ai beni acquisiti per successione ereditaria.

La vicenda riguarda un uomo condannato in via definitiva per associazione mafiosa che, dopo il decesso del padre, aveva ereditato oltre 700mila euro senza darne comunicazione alle autorità competenti. Il Tribunale di Napoli lo aveva ritenuto responsabile per omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, condannandolo a un anno e quattro mesi di reclusione, oltre a una cospicua multa e alla confisca della somma ricevuta.

La Suprema Corte ha confermato che anche le eredità rientrano tra gli incrementi patrimoniali da dichiarare, precisando però che resta onere del giudice verificare concretamente se la condotta omissiva sia idonea a porre in pericolo il bene giuridico tutelato, ovvero l’ordine pubblico e il controllo sul patrimonio di soggetti considerati pericolosi.

Il principio ribadito dalle Sezioni Unite chiarisce che non possono esistere “categorie di atti” automaticamente escluse dall’obbligo di comunicazione, considerata la varietà delle situazioni e il potenziale rischio che anche una successione ereditaria possa celare movimenti patrimoniali illeciti o funzionali al riciclaggio.

Pur pronunciandosi nel merito della questione giuridica, la Cassazione ha dichiarato estinto il reato per intervenuta prescrizione, ponendo comunque un punto fermo in materia di controllo patrimoniale e confermando la funzione preventiva della norma.


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Responsabilità dei sindaci, il Tribunale di Bari apre alla retroattività dei nuovi limiti patrimoniali

Importante novità in tema di responsabilità degli organi di controllo societari. Il Tribunale di Bari, sezione specializzata in materia di impresa, con l’ordinanza n. 1981 del 21 aprile 2025 ha applicato per la prima volta le nuove disposizioni dell’articolo 2407, secondo comma, del codice civile, così come modificato dalla legge n. 35 del 2025. La decisione ha sancito la possibilità di applicare retroattivamente i limiti patrimoniali previsti per i sindaci, anche in relazione a condotte verificatesi prima dell’entrata in vigore della normativa.

La vicenda è scaturita da un ricorso per sequestro conservativo promosso dalla curatela fallimentare di una società, nei confronti di amministratori, sindaci e revisore legale. Il Tribunale aveva già disposto un sequestro cautelare per somme rilevanti e, nel merito, ha ribadito il principio secondo cui il Collegio sindacale è tenuto a esercitare un controllo attivo e concreto sulla gestione, con obbligo di attivarsi di fronte a irregolarità gravi.

Accertata la responsabilità dei sindaci, i giudici si sono soffermati sulla questione della quantificazione del danno, stabilendo che il nuovo limite patrimoniale previsto dalla legge si applica anche ai fatti precedenti la sua entrata in vigore. Secondo il Tribunale, infatti, si tratta di una norma di natura procedurale, che fornisce al giudice un criterio di misurazione del danno, senza incidere sul diritto al risarcimento.

Non meno significativa un’altra precisazione contenuta nell’ordinanza: il limite risarcitorio non si applica in modo cumulativo a tutte le condotte dannose, ma deve essere determinato per ciascuna singola violazione da cui sia derivato un danno imputabile al sindaco. Inoltre, il concetto di compenso “percepito” dal sindaco, ai fini del calcolo del limite, è stato interpretato come compenso “riconosciuto”, indipendentemente dall’effettiva riscossione.

Intanto, in Parlamento è stato presentato un disegno di legge per introdurre una disciplina transitoria su questo tema. Tuttavia, la pronuncia del Tribunale di Bari potrebbe già incidere significativamente sull’indirizzo giurisprudenziale e sull’iter legislativo in corso.


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Accesso agli atti nelle scuole: la trasparenza prevale sulla privacy

Un importante pronunciamento del TAR Lazio ha posto un punto fermo su una questione che coinvolge direttamente il mondo scolastico: il diritto di accesso agli atti amministrativi da parte dei docenti, in particolare nelle procedure di assegnazione di incarico, non può essere ostacolato dalla riservatezza dei dirigenti scolastici coinvolti.

La vicenda nasce dalla richiesta di un’insegnante di ottenere copia della documentazione relativa all’assegnazione di sedi scolastiche, per verificare le motivazioni alla base di alcune scelte operate dai dirigenti e per tutelare i propri diritti. La richiesta era stata respinta dagli uffici scolastici competenti, che avevano opposto il diritto alla privacy degli altri dirigenti come motivo di diniego.

Il TAR Lazio, con una sentenza della sezione Quarta, ha però ribaltato la decisione, sostenendo che il diritto alla difesa deve prevalere e che la pubblica amministrazione, di fronte a una domanda di accesso agli atti, è tenuta a valutare attentamente il bilanciamento tra tutela della riservatezza e diritto a conoscere gli elementi decisivi che hanno portato a determinati provvedimenti.

Secondo il Tribunale amministrativo, in casi come questo, i documenti devono essere messi a disposizione dell’interessato, eventualmente oscurando le informazioni strettamente personali non rilevanti, ma senza impedire l’accesso alle parti essenziali utili per esercitare una difesa consapevole ed efficace.

Il giudice amministrativo ha inoltre censurato la prassi di molte amministrazioni scolastiche di rifiutare in blocco le richieste di accesso, richiamando il principio, sancito dalla legge sulla privacy e dal Testo Unico sulla trasparenza amministrativa, secondo cui il diritto di difesa costituisce una condizione prioritaria che può legittimare la consultazione degli atti, anche in presenza di dati personali di terzi.

La sentenza richiama infine l’urgenza di una maggiore attenzione da parte degli uffici scolastici nel garantire procedure trasparenti e accessibili, soprattutto in contesti delicati come le graduatorie e le assegnazioni di sede, dove la trasparenza delle scelte è essenziale per assicurare equità e correttezza.

Un passaggio importante per la scuola pubblica, che vede così ribadita la centralità dei diritti di chi vi lavora e il dovere dell’amministrazione di operare nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità.


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Economia della cura: il futuro del lavoro tra intelligenza artificiale e tempo libero

Il nome scelto dal nuovo Papa, Leone XIV, non è casuale. Con un chiaro richiamo alla dottrina sociale avviata da Leone XIII nella Rerum Novarum, il pontefice ha voluto riaffermare il valore centrale della persona e la dignità del lavoro in un’epoca di grandi trasformazioni. Se ai tempi della rivoluzione industriale le sfide erano già evidenti, oggi quella dell’intelligenza artificiale è appena cominciata, ma con un’accelerazione senza precedenti nella capacità di elaborare conoscenza.

La tecnologia, storicamente, non ha mai ridotto il numero complessivo di posti di lavoro. Ogni rivoluzione ha spostato il baricentro delle professioni, facendo nascere nuove figure e attività. È certo, però, che questo processo genera squilibri e richiede percorsi di riqualificazione costante. Diventa quindi essenziale garantire il diritto alla formazione permanente per accompagnare le persone attraverso il cambiamento.

Un’altra questione centrale è la gestione dell’aumento di produttività. Se un tempo servivano giorni per svolgere un certo lavoro, oggi, con il supporto dell’intelligenza artificiale, potrebbero bastare ore. A questo punto la scelta è se tradurre questo vantaggio in ulteriore produzione o in tempo libero. L’esperienza europea suggerisce che il benessere sociale cresce non solo con più beni, ma anche con più tempo per sé. Ne sono prova le sperimentazioni già in corso della settimana lavorativa di quattro giorni e il fenomeno emergente dell’overtourism, alimentato proprio da una maggiore disponibilità di tempo libero.

Ci sono poi ambiti dove le macchine non potranno sostituire il fattore umano: dalla cura delle relazioni personali all’organizzazione di eventi, dallo sport alla cultura, dalla politica all’elaborazione di scelte etiche e morali. È qui che il cosiddetto Terzo Settore, l’economia della cura e delle relazioni, potrà assumere un ruolo sempre più strategico in una società post-digitale.

Come aveva previsto Keynes nel suo celebre saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti, il progresso tecnologico avrebbe potuto regalarci più tempo libero. Sta ora a noi decidere se e come cogliere questa opportunità, trasformando l’aumento di produttività in una migliore qualità della vita, attraverso scelte personali e collettive, politiche e culturali.

Il futuro del lavoro non sarà solo questione di quantità, ma soprattutto di senso e di equilibrio tra produzione e cura, tra efficienza e umanità.


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Lo sport come strumento di riscatto sociale: la nuova edizione di “Play for the future” amplia l’orizzonte

Milano/Roma, 20 maggio 2025 – Favorire il reinserimento sociale dei giovani coinvolti nei circuiti penali attraverso percorsi di educazione sportiva e di orientamento professionale. Questo l’obiettivo del progetto “Play for the Future”, promosso da Fondazione Milan e Fondazione CDP, in collaborazione con il Ministero della Giustizia.  Nata nel 2023, l’iniziativa si è arricchita in questa edizione del contributo di un ulteriore partner strategico, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, che, attraverso il Settore Giovanile Scolastico, si occuperà dell’organizzazione del programma didattico rivolto ai giovani partecipanti al percorso educativo e nel rilascio degli attestati partecipativi.

La prima edizione del progetto si è conclusa a luglio 2024, raggiungendo complessivamente, tra attività di educazione sportiva e di orientamento e avviamento al lavoro, circa 100 ragazzi sottoposti alla misura penale della messa alla prova nelle città di Napoli, Bari, Catania e Palermo.

In seguito agli ottimi risultati ottenuti nella prima edizione, a novembre 2024 è stato avviato il secondo ciclo del progetto che avrà durata triennale. L’iniziativa si è arricchita di importanti novità: oltre ai minori e giovani adulti sottoposti a misure penali esterne, come la “messa alla prova” o misure di comunità, si rivolge ora anche a ragazzi detenuti negli Istituti Penali per i Minorenni. Il progetto si amplia e include alla rete di tre città già attive – Napoli, Catania e Palermo – anche Milano e Airola (BN). Ogni anno, nelle sedi del progetto vengono attivati due percorsi paralleli: uno per circa 20 ragazzi detenuti[1] e uno per circa 15 giovani in area penale esterna[2].

Il rinnovo per un periodo di tre anni nasce dalla volontà di garantire continuità e solidità a un percorso che risponde a un’esigenza urgente: nel 2024, in Italia, oltre 13.000 minori autori di reato risultano in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni, di cui 2.649 inseriti in percorsi di messa alla prova. Di questi, il 95% è di sesso maschile. La maggior parte dei minori è sottoposta a misure alternative da eseguire in area penale esterna, confermando come la detenzione, per i minori, rappresenti una misura residuale, sostituita da percorsi sanzionatori di tipo educativo e riparativo.

Il progetto si inserisce proprio in questo contesto, con attività che si svolgono nell’ambito dell’area penale esterna e che includono formazione, orientamento al lavoro e incontri con allenatori e formatori di club sportivi. Tali attività offrono ai giovani coinvolti l’opportunità di costruire basi concrete per il proprio futuro, andando oltre la sanzione penale.

Play for the future” è realizzato in collaborazione con i funzionari dell’area pedagogica degli Istituti Penali per i Minorenni e con quelli dell’area di Servizio Sociale degli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità. Sono loro a occuparsi dell’individuazione dei beneficiari da coinvolgere nelle attività di progetto e a monitorare l’andamento degli inserimenti.

All’interno degli Istituti Penali per i Minorenni, i beneficiari dei corsi hanno l’opportunità di apprendere i concetti base del gioco del calcio e acquisire le competenze necessarie per assistere un istruttore nella programmazione, conduzione e gestione delle attività sportive. Al termine del corso, i ragazzi riceveranno un attestato di frequenza «Corso Grassroots livello E – Social Football». Successivamente, potranno mettere in pratica quanto appreso, prima all’interno della struttura detentiva e, in seguito, presso le società sportive esterne, una volta conclusa la misura penale.

Come nella prima edizione, per i minori e i giovani adulti sottoposti a misure di esecuzione penale esterna, il progetto prevede anche l’avvio di percorsi di educazione sportiva e di orientamento lavorativo, nell’ambito del quale ogni partecipante sarà seguito personalmente per redigere un bilancio delle proprie competenze e avviare un iter di accompagnamento all’inclusione lavorativa.

Verranno coinvolte le aziende, i centri sportivi e le società dilettantistiche del territorio, e saranno organizzati corsi di aiuto allenatore. Al termine della fase di orientamento, due beneficiari per ogni presidio saranno inseriti in un percorso di stage presso le associazioni e società sportive locali, per acquisire una prima esperienza di inserimento lavorativo.

L’iniziativa intende arricchire i percorsi sportivi e i laboratori all’interno degli Istituti Penali per i Minorenni, traducendoli in esperienze di crescita, approfondimento e orientamento per il futuro. Le attività, che includono anche un laboratorio valoriale, utilizzeranno il campo da gioco e il pallone come strumenti educativi. Ogni sessione si focalizzerà su tematiche quali inclusione, coraggio, impegno, condivisione, lealtà, rispetto, fantasia, umiltà, identità, sacrificio.

Carlo Nordio, Ministro della Giustizia, ha spiegato: “La pena tende al reinserimento soprattutto per i minori. Le parole d’ordine per coniugare la certezza e la funzione rieducativa della pena sono due: il lavoro, che affranca dai pericoli della vita ossia I’ozio e il bisogno, e lo sport. Vorrei che iniziative di questo genere proliferassero nel campo degli altri sport e del lavoro. Poiché i detenuti in via di liberazione sono spesso presi dall’ ansia del lavoro, della paura del futuro.  Per un’attività sportiva servono: personale di buona volontà, buoni tecnici, risorse economiche e qui queste cose le abbiamo tutte e soprattutto, per il carcere serve spazio. Lo spazio è il luogo dove di può lavorare e fare sport. Per questo l’iniziativa di oggi ha raccolto il mio entusiasmo“.

Paolo Scaroni, Presidente di AC Milan e Fondazione Milan, ha dichiarato: “Questo progetto testimonia come la collaborazione tra realtà pubbliche e del terzo settore possa avere un impatto concreto e positivo sulle vite di tanti giovani del nostro Paese. Siamo lieti di accogliere FIGC tra gli enti promotori dell’iniziativa e di ampliare il nostro impegno anche a Milano, che è la nostra città, rafforzando l’impegno di Fondazione Milan per il territorio”.

Giovanni Gorno Tempini, Presidente di Fondazione CDP e di Cassa Depositi e Prestiti, ha commentato: “il progetto ‘Play for the Future’ rappresenta un’iniziativa ad alto impatto sociale, che unisce sport e formazione per aprire nuove vie di inclusione a giovani che stanno vivendo momenti di difficoltà. L’obiettivo è duplice: offrire strumenti per rimettersi in gioco e prevenire la dispersione del capitale umano. Fondazione CDP riconosce in questa iniziativa un esempio di intervento capace di produrre benefici reali e duraturi nella vita dei giovani coinvolti. Per generare un cambiamento è fondamentale agire insieme: la collaborazione con il Ministero della Giustizia, Fondazione Milan e, da quest’anno, la Federazione Italiana Giuoco Calcio consente di rafforzare il progetto e ampliarne la portata, mentre il protocollo triennale appena siglato rappresenta un passaggio importante per consolidare e misurare nel tempo i risultati. Ogni giovane che riesce a rimettersi in cammino è una conquista per la collettività”.

Gabriele Gravina, Presidente FIGC, ha dichiarato: “Siamo orgogliosi di poter contribuire allo sviluppo di una progettualità così importante. I ragazzi rappresentano il futuro del nostro Paese e la FIGC, in virtù dei numeri e del coinvolgimento generati dal mondo del calcio, è consapevole del suo ruolo all’interno della nostra società e sente viva la responsabilità di favorire processi educativi in tutti gli ambiti della vita sociale, dal campo sportivo alla scuola, passando appunto per le carceri. Grazie alla collaborazione con la Fondazione vaticana ‘Scholas Occurrentes’, abbiamo maturato una notevole esperienza in questo settore, che siamo felici di poter mettere disposizione di questo ambizioso progetto, per il quale desidero ringraziare il Ministro Nordio e il Dipartimento di Giustizia Minorile, Fondazione CDP e Fondazione Milan, particolarmente attiva in ambito sociale. La nostra attenzione verso i giovani è prioritaria, tanto da aver recentemente modificato il Codice di Giustizia Sportiva, introducendo la possibilità di convertire parte di una sanzione inflitta ai calciatori minorenni in attività ‘socialmente utili’, con l’obbiettivo di favorire un pieno processo di maturazione dell’atleta”.

 

[1] Presso gli Istituti Penali per i Minorenni di Milano «Cesare Beccaria», di Airola (BN), di Palermo «Malaspina» e di Catania «Bicocca»

[2] Presso gli Uffici di servizio sociale per i minorenni di Milano, Napoli, Palermo e Catania


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Patto di non concorrenza: nullo se limita troppo e paga troppo poco

Il divieto di concorrenza è una regola ben nota nel diritto del lavoro: durante il rapporto, il dipendente non può intraprendere attività che confliggano con gli interessi del datore. Ma cosa accade se questo vincolo viene esteso oltre la cessazione del contratto? In questi casi, serve un accordo specifico — il patto di non concorrenza — disciplinato dall’articolo 2125 del Codice Civile, che impone alcuni requisiti essenziali per evitare abusi.

Tra questi, il patto deve essere messo per iscritto, prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore e stabilire limiti precisi su durata, ambito territoriale e oggetto del divieto. Se queste condizioni vengono ignorate o gestite in modo squilibrato, il patto può essere dichiarato nullo.

Il caso della clausola “mobile”

Un caso recente, finito davanti alla Corte di Cassazione (ordinanza n. 11765/2025), ha confermato la nullità di un patto di non concorrenza stipulato da un ex dipendente di una banca. Il patto vietava al lavoratore, per 12 mesi dopo il termine del contratto, di svolgere qualsiasi attività nei settori bancario, assicurativo e finanziario. Un divieto che, di fatto, comprometteva quasi del tutto la possibilità di trovare una nuova occupazione nel proprio settore di competenza.

Il vero nodo, però, riguardava l’estensione territoriale della clausola: il patto copriva la Regione Emilia-Romagna e altre eventuali regioni di assegnazione del lavoratore, lasciando di fatto al datore di lavoro la possibilità di ampliare o spostare l’ambito territoriale del divieto in modo discrezionale. Una clausola “mobile” che rendeva impossibile per il lavoratore conoscere con certezza l’effettiva portata del vincolo al momento della firma.

Compenso troppo basso, patto sbilanciato

A fronte di limitazioni così ampie, il compenso riconosciuto al dipendente era pari al 10% della retribuzione annua lorda: un importo ritenuto dai giudici del tutto sproporzionato rispetto al sacrificio imposto. Sia in primo grado sia in appello, i tribunali avevano accolto la domanda del lavoratore, dichiarando nullo il patto per violazione dei limiti fissati dall’art. 2125 c.c.

La Suprema Corte ha confermato questa linea, ribadendo che i limiti di oggetto, durata e area geografica devono essere fissati o comunque determinabili fin dal momento della stipula. Inoltre, il compenso pattuito deve essere adeguato al pregiudizio economico derivante dall’obbligo di astensione, e non può essere simbolico o irrisorio.

Il principio confermato dalla Cassazione

Richiamando precedenti consolidati (Cass. 9256/2025 e Cass. 33424/2022), la Cassazione ha sottolineato che il compenso deve rispettare i criteri previsti dall’art. 1346 c.c.: essere possibile, lecito, determinato o determinabile, e soprattutto non sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto. La validità del patto, infatti, va sempre valutata alla luce della concreta compressione delle opportunità professionali imposte al lavoratore.

Un monito per datori di lavoro e HR

Questo intervento della Cassazione offre un chiaro richiamo alle aziende e agli uffici risorse umane: i patti di non concorrenza devono essere strumenti di tutela ragionevole, non meccanismi di controllo eccessivo. Stabilire divieti vaghi o estesi senza garantire un compenso adeguato non solo espone al rischio di nullità della clausola, ma mina il principio di libertà del lavoro sancito dalla Costituzione.


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L’intelligenza artificiale sta progressivamente trasformando il funzionamento dei sistemi giudiziari, e tra le applicazioni più diffuse c’è l’anonimizzazione delle decisioni. Un intervento, almeno nelle intenzioni, pensato per proteggere la riservatezza dei cittadini senza intaccare il diritto collettivo a conoscere le sentenze. Tuttavia, un recente caso italiano ha mostrato come questo equilibrio sia tutt’altro che scontato.

Il caso della banca dati pubblica

Con la nascita della nuova Banca dati pubblica (Bdp), che ha sostituito l’Archivio giurisprudenziale nazionale, il Ministero della Giustizia ha cercato di offrire un accesso più diretto al patrimonio giurisprudenziale italiano. Ma sin dal debutto, avvocati, studiosi e operatori del settore hanno segnalato un’anomalia: le sentenze pubblicate risultavano private non solo dei nomi delle parti coinvolte — come prevedibile — ma anche di date, riferimenti normativi, precedenti giurisprudenziali e persino delle informazioni essenziali sui fatti di causa.

Una scelta automatica e priva di supervisione che ha finito per svuotare le decisioni della loro funzione orientativa, rendendole incomprensibili e inutilizzabili per fini di studio, difesa e confronto giuridico. Una privacy estrema che, invece di tutelare i diritti, li ha compromessi.

Il giudizio del Tar

La questione è arrivata sul tavolo del Tar del Lazio, che con la sentenza n. 7625 del 17 aprile 2025 ha messo un punto fermo: l’anonimizzazione delle sentenze non può ridursi a una banale operazione tecnica automatizzata. Ogni decisione giudiziaria — ha ricordato il Tribunale — deve rimanere comprensibile nel suo percorso motivazionale e riconoscibile nel contesto concreto a cui si riferisce. Privare una sentenza delle sue coordinate essenziali significa tradire il principio cardine del diritto, quello che lega il fatto concreto alla norma.

Inoltre, il Tar ha evidenziato come questa prassi possa entrare in conflitto con principi garantiti dalla Costituzione italiana e da convenzioni internazionali. L’articolo 111 della Costituzione, così come l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, tutelano non solo la pubblicità delle decisioni, ma anche la loro effettiva conoscibilità e intelligibilità.

Una questione di governance algoritmica

Al di là del caso specifico, la vicenda tocca un nodo più ampio: la gestione dei sistemi di intelligenza artificiale nei processi decisionali pubblici. Attualmente, secondo la bozza dell’AI Act europeo, i sistemi di anonimizzazione automatica delle decisioni giudiziarie non rientrano tra quelli considerati “ad alto rischio”. Una scelta che, alla luce di quanto accaduto in Italia, appare discutibile.

Il punto non è ostacolare l’innovazione digitale nei tribunali, ma affiancare a queste tecnologie adeguati strumenti di controllo: supervisione umana, diritto alla spiegazione delle decisioni automatizzate, tracciabilità degli interventi sugli atti pubblici e valutazione preventiva dell’impatto sui diritti fondamentali.

Il pericolo di una giustizia senza volto

Il rischio più grande è che la giustizia diventi una “scatola nera” inaccessibile e impersonale, dove il diritto alla privacy si trasformi in pretesto per oscurare dati che invece andrebbero resi pubblici per garantire controllo democratico e certezza del diritto.

Come ha ammonito la sentenza, non è la tecnologia in sé a rappresentare un pericolo, ma il suo impiego acritico e automatico. Una giustizia davvero trasparente deve poter essere letta, compresa e verificata da tutti. Perché, in democrazia, la legge non può solo essere applicata: deve essere visibile e intellegibile.


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IMU 2025: seconde case più care, il catasto decide i rincari

Mancano poche settimane all’acconto IMU 2025, ma le novità più significative non arrivano dalle aliquote, rimaste in larga parte invariate, bensì dalla rendita catastale. Sarà infatti questo valore a determinare chi pagherà di più o di meno per seconde case, case sfitte e immobili a reddito.

Un’analisi condotta sulle principali città italiane evidenzia come le abitazioni classificate come A/2 (abitazioni civili) paghino, in media, il 63% in più rispetto a quelle iscritte in A/3 (abitazioni economiche). E non sempre si tratta di una differenza legata alla reale qualità degli immobili: edifici simili per caratteristiche e valore di mercato possono infatti risultare inseriti in categorie catastali diverse, con effetti significativi sull’imposta dovuta.

A Milano, ad esempio, un alloggio A/2 ha una rendita media di 1.487 euro, che si traduce in un’IMU annua di oltre 2.600 euro per un’abitazione sfitta tassata all’aliquota del 10,6 per mille. A Bologna e Roma la situazione è simile, mentre in altre città come Firenze il divario è più contenuto.

La distribuzione delle categorie catastali incide anche sulla diffusione dei rincari: in alcuni centri le abitazioni A/2 sono molto più numerose di quelle in A/3, mentre altrove avviene il contrario. A Bologna, ad esempio, gli A/3 sono sette volte gli A/2, ma quest’ultimi vantano rendite catastali decisamente più elevate.

Anche gli affitti a canone concordato godono di qualche sgravio fiscale, ma in misura limitata. In alcune città, come Cagliari, Milano e Torino, si applicano riduzioni fino a 4 punti di aliquota rispetto a quelle per le case sfitte. Bari è il Comune più generoso, con un’aliquota del 4 per mille contro il 10,6 ordinario.

Un altro dato interessante riguarda le abitazioni popolari (A/4), che conservano una tassazione IMU più bassa, grazie a rendite catastali inferiori. Sebbene il numero di questi immobili sia in calo per effetto delle riqualificazioni edilizie, nei capoluoghi di provincia rappresentano ancora una quota significativa del patrimonio immobiliare.

Infine, le prime case di pregio — quelle in categoria A/1, A/8 e A/9 —, pur essendo soggette a IMU, riguardano una fetta marginale degli immobili italiani: appena lo 0,2% del totale. Curiosamente, il 44% di queste unità si concentra nei capoluoghi di provincia, confermando la loro presenza prevalente nei grandi centri urbani.

L’attesa ora è per le riforme annunciate sul catasto e sui tributi locali. Dal 2026, con i decreti attuativi della delega fiscale, potrebbero arrivare regole più aggiornate per rendere il sistema più equo e aderente al reale valore degli immobili. Ma per l’acconto di giugno resta valida la vecchia rendita, con tutte le sue incongruenze.


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