Bonus Sanificazione

Fase 2: Bonus Sanificazione per aziende e studi professionali

Il Bonus Sanificazione, introdotto con il D.L. 18/2020 (art. 64) e ampliato con il successivo D.L. 23/2020 (art.30), prevede agevolazioni fiscali per le spese di sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro ma anche per l’acquisto dei dispositivi di sicurezza necessari a fronteggiare la Fase 2.

È destinato a esercenti attività d’impresa, arte o professione.

COSA PREVEDE IL BONUS SANIFICAZIONE

Il Bonus Sanificazione consiste in un credito d’imposta pari al 50% delle spese per la sanificazione e i dispositivi sostenute e documentate nel 2020.

Il beneficiario può ottenere fino a un massimo di 20.000 €.

I fondi disponibili per il Bonus Sanificazione nel 2020 ammontano 50 milioni di euro.

COSA SI INTENDE PER SANIFICAZIONE

Durante la Fase 2 sarà importante rispettare le misure di sicurezza sanitaria all’interno dei luoghi di lavoro in modo da evitare il più possibile un’immediata impennata dei contagi da Covid-19.

La sanificazione dei luoghi di lavoro non è la normale pulizia con i detergenti comuni, ma la disinfezione di superfici e oggetti con ipoclorito di sodio al 0,1% o etanolo al 70% o l’igienizzazione con altre tecniche specifiche.

Tra i trattamenti di sanificazione delle aziende contemplati nel Decreto “Cura Italia” figurano:

  • La sanificazione tramite nebulizzazione di agenti chimici disinfettanti,
  • la sanificazione tramite generatori di ozono.

COSA È POSSIBILE PORTARE IN DETRAZIONE

Rientrano nel Bonus Sanificazione le seguenti spese.

Acquisto di dispositivi di protezione individuale.
Mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3, guanti, visiere e occhiali protettivi, tute di protezione e calzari.

Acquisto di detergenti per le mani e disinfettanti.

Acquisto e installazione di dispositivi di sicurezza.
Barriere, pannelli protettivi, elementi divisori in plexiglass, vetri di protezione e altre protezioni che aiutino a limitare l’esposizione dei lavoratori alle fonti di contagio o a garantire la distanza interpersonale.

Interventi di sanificazione e igienizzazione a opera di ditte specializzate in possesso dei requisiti indicati nel D.M. 274/1997, lettera E.

COME ACCEDERE AL BONUS SANIFICAZIONE

Al momento non è ancora possibile accedere al Bonus Sanificazione perché manca il decreto attuattivo da parte del Ministro dello Sviluppo Economico e del Ministro dell’Economia e delle Finanze (sarebbe dovuto uscire entro 30 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento del 16 aprile). 

Il Bonus Sanificazione potrà essere utilizzato in compensazione orizzontale con altri tributi e contributi tramite il Modello F24 da inviare all’Agenzia delle Entrate in via telematica.

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Le misure Anti COVID-19 per gli studi professionali (Movimento Forense Triveneto)

Se c’è una cosa che non manca in questo periodo di quarantena è l’accesso a informazioni, spesso imprecise e contrastanti, su quanto stia succedendo e su cosa sarebbe opportuno fare ora che il 4 maggio si avvicina e ci sarà un allentamento dei limiti imposti.

Nel nostro lavoro di scansione di questa grande mole di notizie alla ricerca di quelle che ci sembrano essere le più utili, abbiamo trovato una guida pubblicata dal Coordinamento Triveneto del Movimento Forense contenente le misure anti COVID-19 per gli studi professionali, tra cui certamente rientrano anche quelli degli avvocati.

La guida è molto lunga ed elaborata, pertanto abbiamo deciso di condensare solo alcuni dei punti più interessanti in modo da darvi una panoramica immediata. Per approfondire, potete cliccare sul link al documento completo.

Vi suggeriamo inoltre di leggere l’articolo “COVID-19 è infortunio sul lavoro: la responsabilità è dell’imprenditore“.

MISURE ANTI COVID-19 PER GLI STUDI PROFESSIONALI

1) DOCUMENTI

Tra le misure anti COVID-19 per gli studi professionali figura anche la stesura di documentazione specifica che possa aiutare nella gestione del rischio.

In particolare, gli studi devono redigere:

A) Un protocollo di sicurezza.
Il protocollo di sicurezza deve riprendere quanto indicato nei seguenti documenti ufficiali:
DPCM 8 marzo 2020,
DPCM 11 marzo 2020,
D. L. 09/03/2020 n. 14,
DPCM 10 aprile 2020,
protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il
contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro, firmato
da Governo e parti sociali in data 14 aprile 2020,
indicazioni operative per la tutela della salute negli ambienti di lavoro non sanitari, Regione Veneto
ordinanza del Presidente della Giunta Regionale del Veneto n.40del 13/04/2020,
ulteriori documenti che potrebbero essere rilasciati nei prossimi giorni.

B) L’informativa per i dipendenti/collaboratori in cui elencare le misure di sicurezza decise dal titolare dello Studio.

C) L’informativa/autorizzazione al trattamento dei dati ai fini privacy.

D) L’informativa per i clienti, da consegnare preventivamente e preferibilmente in via telematica.
Nell’informativa andranno indicate le misure di sicurezza da rispettare (uso di mascherina e guanti, distanza di sicurezza, accesso non consentito agli accompagnatori ecc.)

E) Un’informativa simile per i fornitori e altri esterni che devono accedere allo studio.

2) INGRESSO E COMPORTAMENTI ALL’INTERNO

Molta attenzione deve essere posta alla definizione e alla comunicazione delle giuste condotte che devono essere tenute dai diversi soggetti all’interno degli studi.

A) Il titolare dello studio fornisce a dipendenti e collaboratori:
– mascherine e guanti usa e getta, che dovranno venire sempre utilizzati nel tragitto casa-studio e viceversa,
– gel igienizzante per le mani,
– altri dispositivi di protezione conformi alle disposizioni delle autorità o alla normativa in materia.

B) I dipendenti e i collaboratori:
non possono fare ingresso o permanere nello studio se:
    – hanno febbre, sintomi influenzali, tosse,
    – provengono da zone a rischio di contagio,
    – sono stati a contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti;

– si impegnano a:
– sottoporsi in autonomia al controllo della temperatura corporea prima di recarsi a lavoro (e a non recarvisi in caso di febbre oltre i 37° o altri sintomi),
– accedere allo studio muniti di mascherina e continuare a indossarla in presenza di altre persone,
– gettare i guanti utilizzati nel tragitto casa–studio nell’apposito contenitore per la raccolta indifferenziata che verrà predisposto all’ingresso.
lavarsi/igienizzare le mani prima di raggiungere la propria postazione di lavoro,
   – contattare il medico di famiglia, le strutture sanitarie e lo studio in caso di sintomi.

C) Durante la presenza nello studio:
– titolare, dipendenti e collaboratori soggiornano uno per stanza.
Se non fosse possibile, le scrivanie o le postazioni di lavoro dovranno essere sistemate in modo da garantire la distanza di sicurezza di almeno 1,5 m;

– tutti dovranno lavarsi frequentemente le mani o utilizzare il gel igienizzante, soprattutto quando frequentano i locali di uso comune;

– è possibile togliersi la mascherina solo se ci si trova da soli in una stanza;

– la mascherina dovrà essere sempre indossata in presenza dei clienti;

le riunioni saranno condotte in modalità da remoto. Se non fosse possibile, dovranno durare il meno possibile, avere meno partecipanti possibile garantendo il distanziamento interpersonale, dovranno svolgersi in un ambiente adeguatamente pulito/areato. Ogni riunione in presenza dovrà essere espressamente autorizzata dal titolare;

al termine dell’orario di lavoro ciascuno dovrà igienizzare scrivania, sedia, computer, tastiera, mouse, telefono e ogni materiale con cui è venuto in contatto.

D) Dovrà essere garantita la pulizia giornaliera dei locali dello Studio.
I locali dovranno essere igienizzati con prodotti idonei almeno due volte al giorno, all’inizio e al termine della giornata lavorativa. Importante sarà arieggiare i locali per almeno 15/20 minuti.

3) ACCESSO DI CLIENTI E FORNITORI

Le misure anti COVID-19 per gli studi professionali toccano anche il rapporto con tutti i soggetti esterni che potrebbero entrare nei locali: clienti, accompagnatori, fornitori, visitatori o altro. 

In tal senso, lo studio si impegna a:

A) Comunicare le procedure di ingresso ai clienti e ai fornitori, anticipatamente e tramite canali informatici.
Se non fosse possibile, prima dell’ingresso si può consegnare una informativa cartacea con le indicazioni da seguire durante la permanenza nello studio.

B) Fissare gli appuntamenti stando attenti a:
verificare che il cliente non sia a rischio, per esempio assicurandosi sull’assenza di febbre, tosse, sintomi influenzali;
comunicare al cliente che l’accesso è autorizzato previa sua dichiarazione di non avere sintomi;
evitare sovrapposizioni di orario, garantendo che ci sia una persona per volta. Eventuali accompagnatori devono aspettare fuori dallo studio;
evitare che in sala d’attesa vi siano più di 2 persone, alle quali dovrà essere garantita la distanza di almeno 1,5 m.
– coloro che si presentano presso lo studio senza avere un appuntamento fissato dovranno sostare fuori dallo studio (es.: sul pianerottolo).

C) Far sì che clienti, fornitori e visitatori:
– entrino provvisti di mascherina e dei guanti forniti all’ingresso;
– mantengano la distanza di almeno 1,5 m dalla reception o dal proprio interlocutore. Nell’attesa di essere ricevuti, devono accomodarsi nella sala d’attesa ed evitare di girovagare,
gettino i guanti utilizzati nell’apposito cestino per la raccolta indifferenziata che dovrà essere posizionato all’ingresso.

D) Indossare la mascherina e tenersi a una distanza di almeno 1,5 m dai visitatori.

All’interno della guida sulle misure anti COVID-19 per gli studi professionali pubblicata dal Coordinamento Triveneto del Movimento Forense vi è anche una check list utilissima a valutare la situazione del proprio studio e a tenere traccia di quanto è stato fatto per garantire la sicurezza sanitaria di tutti. 

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appropriazione indebita di dati informatici

L’appropriazione indebita di dati informatici esiste davvero?

Si può parlare di appropriazione indebita di dati informatici? Oppure no, considerato che i dati informatici non sono “cose mobili?

Immaginate un dipendente che, prima di dimettersi e di iniziare a lavorare in un’altra azienda dello stesso settore, riconsegna al datore di lavoro il pc portatile sul quale lavorava completamente formattato, senza più alcuna traccia di tutti i file e i dati informatici in esso contenuti.

Immaginate poi che questo dipendente, prima di procedere alla cancellazione dei dati, si sia premurato di salvarli e di trasferirli su un altro computer usato nel nuovo lavoro.

Un caso simile è l’oggetto della sentenza 11959/2020 della Cassazione.

APPROPRIAZIONE INDEBITA DI DATI INFORMATICI E IL CONCETTO DI “COSA MOBILE”

Nella sentenza la Cassazione spiega che il delitto di appropriazione indebita ha come oggetto materiale della condotta «denaro od altra cosa mobile».

Con “cosa mobile” intende la cosa suscettibile di «fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione».

Per capire dunque se esista l’appropriazione indebita di dati informatici, bisogna stabilire se questi:
– possono essere considerati “cosa mobile”,
– se vengono definitivamente sottratti al loro titolare o meno.

COSA SONO I DATI INFORMATICI

Come illustra la sentenza, il file è l’insieme dei dati archiviati o elaborati, «è la struttura principale con cui si archiviano i dati su un determinato supporto di memorizzazione digitale».

Nei file sono contenuti dati informatici costituti da sequenza di valori binari (0 oppure 1), dette bit.
I bit sono raggruppati in byte e un byte equivale a 8 bit.
I byte «non sono entità astratte, ma entità dotate di una propria fisicità: essi occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la dimensione della quale dipende dalla quantità di dati che in essa possono esser contenuti, e possono subire operazioni (ad esempio, la creazione, la copiatura e l’eliminazione) tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo».

Ciò che ne consegue è che i file, anche se non possono essere toccati, occupano uno “spazio” esattamente come le “cose mobili“.

LA DIFFERENZA TRA APPROPRIAZIONE INDEBITA E FURTO DI INFORMAZIONI

Le entità immateriali, come le opere dell’ingegno, le idee, le informazioni, non sono cose mobili e non sono soggette all’appropriazione indebita. Sono però oggetto di “furto di informazioni”.

La differenza fra le due condotte illecite si trova in un dettaglio molto semplice.
L’appropriazione indebita comporta la perdita definitiva dell’oggetto da parte del titolare, mentre il furto d’informazioni permette all’agente di acquisire conoscenza senza privare il titolare della stessa.

LA TRASFERIBILITÀ DEI DATI

I dati informatici sono custoditi in ambienti digitali (le memorie dei nostri pc, degli smartphone, delle chiavette usb o altro), quindi, proprio come il denaro o altri oggetti materiali, possono essere oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione.

Inoltre, possono essere facilmente trasferiti da un dispositivo all’altro oppure via internet.

Oltre al loro trasferimento, i dati possono:
  essere copiati ma non cancellati, consentendo ancora al loro titolare la fruizione,
  essere copiati e cancellati, privando il titolare della loro fruizione e dei benefici correlati, anche economici.

Sottrarre dati informatici, duplicarli e cancellare gli originali si configura quindi come sottrazione di un bene, parte del patrimonio del titolare originale dei dati, che diventa parte del patrimonio del responsabile della condotta illecita.

CONCLUSIONE

I dati sono «oggetto di diritti penalmente tutelati» e possiedono «tutti i requisiti della mobilità della cosa».
Quindi parlare di appropriazione indebita di dati informatici ha senso.

Nel caso in oggetto alla sentenza, la Cassazione conclude che «i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi dì lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”».

Testo della sentenza 11959/2020.

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contributi per i canoni di locazione degli studi legali

I bandi per l’assegnazione di contributi per i canoni di locazione degli studi legali

Tra le misure a favore degli avvocati, Cassa Forense ha previsto l’elargizione di contributi per i canoni di locazione degli studi legali che si sono trovati in difficoltà durante l’applicazione delle misure di contenimento all’epidemia COVID-19.

Tali contributi sono previsti sia per i conduttori persone fisiche sia per i conduttori persone giuridiche e possono essere ottenuti tramite la partecipazione a specifici bandi.

CONTRIBUTI PER I CANONI DI LOCAZIONE DEGLI STUDI LEGALI – CONDUTTORI PERSONE FISICHE

Il bando è destinato a tutti gli iscritti che esercitano la professione in forma individuale e si appoggia a un fondo di 3.600.000 euro.

Il contributo ottenibile è pari al 50% della spesa documentata per canoni di locazione dello studio legale nel periodo 1° febbraio 2020 – 30 aprile 2020 e non può superare i 1.200 euro al netto di Iva.

COME PARTECIPARE AL BANDO

La domanda va presentata in via telematica, tramite la procedura presente nell’area riservata del sito di Cassa Forense che sarà disponibile fino alle ore 24.00 di lunedì 18 maggio 2020 

Oltre alla domanda, vanno allegati i seguenti documenti:
– copia del contratto di locazione registrato e intestato al richiedente
– copia delle fatture/quietanze di pagamento dei canoni del periodo di riferimento

L’erogazione del contributo per i canoni di locazione degli studi legali è soggetta a una graduatoria che non si tiene conto dell’ordine di presentazione delle domande, ma si basa sui seguenti criteri:
minor reddito professionale prodotto nel 2018
– a parità di reddito, minore età anagrafica,
– a parità di reddito ed età, maggiore anzianità di iscrizione alla Cassa.

Qui la scheda informativa di Cassa Forense sul bando per l’assegnazione di contributi per canoni di locazione dello studio legale riservato a conduttori persone fisiche. 

CONTRIBUTI PER I CANONI DI LOCAZIONE DEGLI STUDI LEGALI – CONDUTTORI PERSONE GIURIDICHE

Il bando per l’assegnazione dei contributi è aperto ai conduttori che esercitano la professione forense in forma associata ovvero in STA.

Anche in questo caso il contributo a favore dei conduttori è pari al 50% del totale della spesa documentata sostenuta per i canoni di locazione dello studio legale nel periodo 1° febbraio 2020 – 30 aprile 2020. Ma le risorse disponibili ammontano a 2.000.000 di euro e il singolo contributo non può superare i 4.000 euro al netto di Iva.

COME PARTECIPARE AL BANDO

Si deve seguire la procedura telematica presente nell’area riservata del sito di Cassa Forense.

La procedura è disponibile dalle 9.00 di lunedì 27 aprile 2020 e fino alle ore 24.00 di lunedì 27 maggio 2020.

Alla domanda vanno allegate:
– copia del contratto di locazione registrato e intestato all’associazione/STA,
– copia delle fatture/quietanze di pagamento dei canoni del periodo d’interesse,
– copia dell’atto costitutivo dell’associazione/STA e delle eventuali variazioni della rappresentanza legale.

Tutte le domande pervenute saranno organizzate in una graduatoria che non è basata sull’ordine cronologico di presentazione delle stesse, ma Cassa Forense non ha indicato quali altri criteri verranno utilizzati per la selezione.

Qui il testo completo del bando per l’assegnazione di contributi per canoni di locazione dello studio legale riservato a conduttori persone giuridiche.

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livelli occupazionali e accordi sindacali

Livelli occupazionali e accordi sindacali: la pesante clausola del Decreto Liquidità

Il D.L. 23/2020 «Decreto Liquidità» ha sollevato non poche perplessità dato che, più che vere e proprie forme di sostegno economico alle aziende, propone nuove forme di indebitamento.

Infatti, con il decreto lo Stato offre garanzie alle banche che concedono finanziamenti a quelle aziende che si impegnano a rispettare alcune condizioni.
Una di queste è l’obbligo di non distribuire dividendi per i successivi 12 mesi e di usare il finanziamento per coprire i costi del personale e le spese per le attività produttive localizzate in Italia. (cfr. Art. 1, comma 2, D.L. 23/2020).

C’è però un’altra condizione, molto più pesante, che è passata decisamente in secondo piano e che invece le aziende, soprattutto le più piccole, dovrebbero considerare con molta attenzione prima di richiedere un finanziamento superiore ai 25.000 euro.

La condizione viene così presentata: «L’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” (cfr. Art. 1, comma 2, lett. l, D.L. 23/2020)».

GLI ACCORDI SINDACALI DIVENTANO OBBLIGATORI PER GESTIRE I LIVELLI OCCUPAZIONALI

Lo spunto per questo articolo è nato leggendo il post che l’Avv. Chiara Daneluzzi dell’Ordine di Venezia ha pubblicato sul suo profilo LinkedIn.

L’avvocato suggerisce che questa clausola possa rivelarsi un’insidia, anzi «una mina anti uomo» per le aziende:
«gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali […] equivale a dire che l’eventuale mancato rispetto di tale impegno (o, mi viene da pensare, anche solo il mancato raggiungimento di un accordo, eventualità non così rara) può costituire, oltre che causa di revoca della garanzia circa il prestito, motivo di annullamento del o dei licenziamenti. Il rispetto della condizione, invece, equivale alla perdita di fatto del controllo dell’azienda. Per cui l’azienda, già evidentemente in condizione di difficoltà, sarà di fatto costretta a negoziare in condizione di ricattabilità. Non esattamente quello che occorre, in una situazione di emergenza».

La clausola impone che le aziende (ma anche i lavoratori autonomi e i liberi professionisti) che vogliono ottenere il finanziamento debbano preventivamente discutere con i sindacati la gestione della forza lavoro impegnandosi in questa gestione condivisa per tutta la durata del prestito.

Significa che un imprenditore non potrà apportare nessuna modifica alla forza lavoro?
Non proprio. Ma dovrà sempre passare attraverso la valutazione dei sindacati, anche se si trattasse solo di una rimodulazione degli orari lavorativi per far fronte alle nuove condizioni generate dal Coronavirus (es.: il passaggio da full-time a part- time).

Questo limite alla libertà aziendale rischia di complicare la vita alle aziende più piccole, con meno di 15 dipendenti, meno abituate a gestire il personale tramite i sindacati. Ciò comporterebbe un «appesantimento e un ostacolo nella gestione futura delle attività, oltre a rappresentare un rallentamento inevitabile per l’ottenimento della liquidità in giorni così convulsi». [vedi fonte della citazione]

Inoltre, come già suggerito dall’Avv. Daneluzzi, il mancato rispetto della clausola farebbe piombare l’imprenditore nella sgradevole situazione di dover restituire alla banca il finanziamento, poiché decadrebbe la garanzia statale.

UNA CLAUSOLA NEBOLUSA

In realtà, la clausola così come presentata nel Decreto manca di precisazioni chiare.
Il rischio è quindi che molte aziende, prese dall’urgenza di ottenere liquidità che le faccia ripartire in questo momento di crisi, accettino senza una vera consapevolezza la gestione condivisa con i sindacati.

Secondo Stucchi& Partners la clausola potrebbe significare quanto segue:

– le condizioni del Decreto Liquidità ricadono solo sui nuovi crediti e non su quelli già concessi (al massimo, su quelli già scaduti);

– in sede di istruttoria, le aziende dovranno presentare (almeno) una dichiarazione coerente con la condizione di impegno alla negoziazione sindacale dei livelli occupazionali, mentre non saranno obbligate ad allegare immediatamente un accordo sindacale;

l’impegno potrà essere fatto valere sia dai sindacati che dai lavoratori coinvolti qualora l’azienda dovesse violarlo;

– gli accordi sindacali potranno essere conclusi con i sindacati territoriali o anche con le RSA/RSU;

ogni intervento di riduzione dei livelli occupazionali già in essere al momento della richiesta del nuovo credito alle condizioni indicate dal decreto Liquidità dovrà essere sottoposto alla valutazione sindacale;

– sembrerebbe che l’accordo sindacale non sia richiesto in caso di rapporti di lavoro a termine o in somministrazione, trattandosi di lavoro che esula dalla stabile struttura occupazionale di un’azienda;

– lo stesso sembrerebbe valere per interventi individuali, come i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che non rientrano nei negoziati sindacale e che sono coperti da una normativa apposita e già esistente;

le aziende intenzionate a richiedere il credito non possono prendere decisioni unilaterali sugli assetti del personale così come si configura al momento della richiesta.

LA TUTELA DELLA FORZA LAVORO

COVID-19 ha colpito la capacità produttiva e i mercati di riferimento di molte aziende. In un tale scenario non è solo importante sostenere l’imprenditoria, ma anche salvaguardare i livelli occupazionali presenti e futuri.

Ed è proprio questo lo scopo della clausola sugli accordi sindacali.

Sempre a favore della salvaguardia dei livelli occupazionali si era già mosso il precedente D.L. 18/2020 «Cura Italia» che aveva predisposto il blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per tutte le aziende e per sessanta giorni, dal 17 marzo al 16 maggio 2020.
Lo stesso Decreto aveva poi esteso la cassa integrazione in deroga, rendendo possibile l’attivazione degli ammortizzatori sociali anche per le imprese con meno di 5 dipendenti.

 

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bonus avvocati

[AGGIORNATO 19 MAGGIO] Bonus avvocati: nuovi pagamenti ma le risorse sono terminate

Aggiornamento 19 maggio:
Lo scorso 15 maggio, Cassa Forense ha comunicato tramite il proprio sito che,
a seguito dei nuovi stanziamenti disposti con D.I. n. 10 del 4 maggio 2020, è stato possibile provvedere alla liquidazione delle rimanenti richieste di bonus da 600 euro relative al mese di marzo.
Il totale delle domande liquidate, sempre riferite al mese di marzo, ha riguardato 139.311 iscritti.

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Il 22 aprile 2020, tramite un comunicato sul suo sito, Cassa Forense ha annunciato l’erogazione di altri 28.252 ‘bonus avvocati’. 

Inoltre, ha ripreso quanto già annunciato in un precedente comunicato a proposito del pagamento del bonus da 600 euro a coloro che si sono iscritti a Cassa Forense nel periodo tra l’1 gennaio 2019 e l’1 aprile 2020 e che ne avevano fatto domanda.
Cassa Forense ha assicurato che tali soggetti non sono affatto esclusi dall’erogazione del bonus avvocati e garantisce quindi che le loro domande sono state regolarmente accettate, che la loro posizione cronologica è invariata e che si procederà coi pagamenti.

Ed è proprio qui che sorge un problema. Anzi, IL problema…

NON CI SONO PIÙ SOLDI PER IL BONUS AVVOCATI

Secondo Il Sole 24 Ore, al 19 aprile le domande per l’ottenimento del bonus di 600€ giunte a Cassa Forense erano poco più di 136.000. I bonus già erogati quasi 74.000 €.

Che le risorse economiche a disposizione per coprire il reddito di ultima istanza non fossero infinite, già si sapeva.

E infatti, sono terminate.

Nel medesimo comunicato del 22 aprile, Cassa Forense scrive: «il budget disponibile ha consentito di definire le domande degli aventi diritto presentate fino alle ore 17.00 del 2 aprile 2020.
Le circa 30.000 domande pervenute in epoca successiva sono, al momento, prive di copertura.»

E ADESSO, CHE SI FA?

Cassa Forense informa che l’Adepp solleciterà nuovamente il Ministero del Lavoro per ottenere un ulteriore finanziamento che permetta di pagare tutte le domande non ancora evase. 
Aggiunge anche che tale richiesta vuole
«porre rimedio alla già segnalata iniquità dell’esclusione dal beneficio dei titolari di pensione d’invalidità, reversibilità e indirette, nonché del criterio di “esclusività” di iscrizione ad una Cassa professionale, introdotto dall’art. 34 del D.L. 8 aprile 2020, n. 23.»

Vi aggiorneremo.

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***Per gli aggiornamenti, vai alla fine dell’articolo***

Riaprire il paese e riattivarne il cuore produttivo per scongiurare effetti devastanti sull’economia e la società è una necessità di cui siamo tutti consapevoli. Certo è che il Coronavirus rimarrà tra noi per molto tempo e dovremo imparare a conviverci.

Da un punto di vista lavorativo, questa convivenza porterà a dei notevoli cambiamenti, con un aumento dello smart working, orari di lavoro più ampi e flessibili, rivoluzione degli ambienti e, più di ogni altra cosa, con l’imposizione di rigide misure di sicurezza sanitaria al personale di fabbriche, uffici e negozi.

Gli imprenditori, che per più di un mese si sono visti la produzione bloccata a fronte di costi fissi immutati, primo fra tutti quello del personale, scalpitano per la riapertura.

C’è solo un piccolo dettaglio che rende la riapertura “pericolosa”. E non dal punto di vista sanitario.

AMMALARSI DI COVID-19 È INFORTUNIO SUL LAVORO

Il comma 2 dell’art. 42 del decreto Cura Italia indica che l’eventualità che un lavoratore venga contagiato da COVID-19 durante la sua attività lavorativa ricade nella casistica dell’infortunio sul lavoro.
La stessa INAIL ribadisce il concetto nella circolare 13 del 3 aprile.

Cosa significa?

Significa che, come per qualsiasi altro infortunio, il lavoratore che si ammala di COVID-19 può rivalersi nei confronti del datore di lavoro, con tutto ciò che ne deriva in fatto di possibili azioni legali e richieste di risarcimenti.

In un’intervista a Il Giornale, Luca Failla, giuslavorista e founder partner di Lablaw, spiega: «Il riconoscimento di infortunio sul lavoro non costituisce di per sé riconoscimento di responsabilità penale. Di sicuro apre la possibilità, è un rischio astratto, di responsabilità penale in capo all’azienda. Poi bisognerà vedere se il lavoratore può provare di aver contratto il COVID mentre svolgeva attività lavorativa».

Ed è proprio qui che si apre il frangente più nebuloso, e quindi pericoloso, per l’imprenditore: se ammalarsi di COVID-19 è infortunio sul lavoro, come si dimostra che il contagio è avvenuto durante l’attività lavorativa?

L’ONERE PROBATORIO

Come si può avere la certezza?

Failla ammette che: «Non è semplice dimostrare che un lavoratore si è ammalato sul posto di lavoro. Qui si apre il tema della ripartizione dell’onere probatorio: è il lavoratore che deve provare che il datore è venuto meno a norme di tutela della sicurezza o deve essere il datore a dimostrare di non aver mancato nei propri obblighi?».

E aggiunge: «Nel caso del Coronavirus si fa tutto più complicato: se un lavoratore contrae il COVID a oltre due settimane dall’ultima volta che è andato al lavoro, c’è una forte presunzione che il virus sia stato preso fuori dagli ambienti lavorativi; se invece un dipendente ha continuato a svolgere le sue mansioni, è più facile che dica di aver contratto il virus sul luogo di lavoro. E a questo punto sarà il datore che dovrà provare a discolparsi e dimostrare che il Covid non è stato recepito nell’esercizio dell’attività lavorativa. Basterebbe però che anche un altro dipendente abbia contratto il virus per creare una sorta di presunzione di responsabilità del datore».

SE LA RESPONSABILITÀ È DELL’IMPRENDITORE, COME PUÒ TUTELARSI?

L’imprenditore/datore di lavoro era responsabile della salute e della sicurezza dei suoi dipendenti ed era tenuto ad adottare misure per prevenire infortuni e malattie sul lavoro anche prima del Coronavirus (D.Lgs. 231/2001 e D.Lgs. 81/2008).

Ma, come abbiamo visto, l’infortunio da COVID-19 è più indeterminabile dei rischi e dei pericoli ai quali le aziende e i lavoratori sono stati abituati finora. Infatti, le caratteristiche del virus (il lungo periodo di incubazione, la possibile asintomaticità, la somiglianza con sindromi influenzali, l’alta trasmissibilità) rendono difficile definire con precisione il luogo e il momento dell’effettivo contagio.

Dunque, cosa può fare un imprenditore per tutelarsi?

Al momento, l’unica arma certa è la prevenzione che si concretizza in:
valutare con precisione i rischi di contagio da Coronavirus in azienda,
aderire in modo preciso alle indicazioni previste nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro (o altri futuri regolamenti in materia).

Questo però potrebbe non bastare.
Come suggerisce Il Giornale, procurarsi i body scanner per misurare la temperatura ai dipendenti prima che questi entrino nel luogo di lavoro o, se fosse possibile, acquistare tamponi e test sierologici certamente aiuterebbe, ma è chiaro che non sono soluzioni alla portata di tutti.

AGGIORNAMENTO 15 MAGGIO 2020

In un comunicato ufficiale pubblicato sul suo sito, l’INAIL chiarisce che il riconoscimento del contagio da COVID-19 come infortunio sul lavoro non è automatico e che la responsabilità del datore di lavoro subentra solo in caso di dolo e colpa. 

AGGIORNAMENTO DEL 21 MAGGIO 2020

Con la circolare n.22 del 20 maggio, l’INAIL fornisce ulteriori istruzioni operative e chiarisce alcuni dei dubbi relativi alla tutela infortunistica degli eventi di contagio.
In particolare:
– ribadisce che COVID-19 è infortunio sul lavoro, così come tutte le infezioni da agenti biologici contratte durante l’attività lavorativa;
l’indennità per inabilità temporanea assoluta copre anche la quarantena o la permanenza domiciliare fiduciaria;
gli infortuni da COVID- 19 rientrano nella gestione assicurativa complessiva, senza comportare maggiori oneri per le imprese;
un eventuale contagio da COVID-19 non si traduce automaticamente in infortunio sul lavoro: deve essere accertare la sussistenza di “indizi gravi, precisi e concordanti sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale, ferma restando la possibilità di prova contraria a carico dell’Istituto“;
la responsabilità civile e penale del datore di lavoro deve essere accertata secondo criteri diversi da quelli usati per riconoscere COVID-19 come infortunio sul lavoro: “oltre alla già citata rigorosa prova del nesso di causalità, occorre anche quella dell’imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro.
Qui il testo integrale della circolare n.22 dell’INAIL.

 

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immuni app di tracciamento

IMMUNI parte 1: tutti i dubbi sulla app di tracciamento

Della app IMMUNI se ne sta parlando molto sia nei media tradizionali che su internet. Con un tale ammontare di informazioni, che spesso diventano obsolete nel giro di poche ore, è davvero difficile orientarsi.

Dato che venirne a capo è, al momento, davvero complicato, abbiamo cercato di raccogliere alcuni tra i dubbi e le domande, ma anche i giudizi, che questa app sta più di frequente generando tra politici, esperti di diritto, di informatica e non solo.

COME FUNZIONA LA APP IMMUNI E CHI L’HA SVILUPPATA

La app IMMUNI è una app di tracciamento di prossimità.
In parole povere, permette degli scambi di dati tra dispositivi che sono tra loro vicini e che hanno il bluetooth attivato.
A ogni dispositivo è assegnato un ID temporaneo e mutevole.

Se un individuo nel cui smartphone sia presente IMMUNI scopre di essere positivo al Coronavirus, gli viene fornito un codice con il quale può scaricare su un server l’elenco degli ID degli smartphone che avevano a loro volta IMMUNI installata e attivata con cui entrato in contatto nei giorni precedenti.
A questo punto, a tutti questi contatti verrà inviata una notifica del rischio di contagio, sempre tramite la app.

È una app molto simile a quella utilizzata a Singapore.

A quanto pare però IMMUNI ha anche un’altra funzionalità: una sorta di diario clinico in cui l’utente può inserire informazioni sul proprio stato di salute, la comparsa di sintomi o altro.

IMMUNI è sviluppata gratuitamente dalla società milanese Bending Spoons, specializzata in app ludiche.
La società è una SPA in cui l’80% del capitale è in mano ai fondatori, il 10-12% ai collaboratori, circa il 6% è diviso tra H14 (Family Office italiano, di proprietà dei figli di Silvio Berlusconi: Barbara, Eleonora e Luigi che detiene il 21,4% di Fininvest), Nuo Capital (holding di investimenti dalla famiglia Pao Cheng di Hong Kong) e StarTip (collegata a Tamburi Investments Partners spa, holding di investimento di Gianni Tamburi).

Bending Spoon è anche parte del progetto PEPP-PT (Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing) che si occupa proprio della creazione di app di tracciamento che dovrebbero garantire una raccolta e un uso dei dati il più sicuri possibile attraverso l’uso del bluetooth, la crittografia e l’anonimizzazione dei dati.

L’utilità di IMMUNI si manifesterà nella cosiddetta Fase 2, quando il paese verrà gradualmente riaperto e il rischio di una seconda ondata di contagi si concretizzerà.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di individuare e isolare il prima possibile potenziali infetti e arginare focolai senza limitare l’intera popolazione indiscriminatamente come è stato finora.

Il prototipo della app è pronto e si aspettano i risultati dei primi test per l’individuazione e la correzione di eventuali malfunzionamenti.

APP DI TRACCIAMENTO: LE QUESTIONI POCO CHIARE

I dubbi principali si dividono in due macrocategorie:
dubbi sulla trasparenza dell’iter che ha portato alla scelta proprio di questa app e non di altre,
– dubbi sugli aspetti legati alla privacy e la mancanza di chiare informazioni ai cittadini a riguardo.

Riportiamo qui di seguito alcune delle questioni più rilevanti, alle quali però non siamo in grado di dare risposte.

1) Non è chiaro chi siano tutti i soggetti che possono avere accesso ai dati raccolti tramite la app.
La app IMMUNI è stata sviluppata in collaborazione con il Centro medico Santagostino, catena di ambulatori privati, e Jakala, società di marketing che opera nel settore dei big data.
Queste due società entreranno in contatto con i dati raccolti tramite la app? Se sì, cosa ne faranno?

2) L’uso di ID che permettono di identificare i soggetti che sono entrati in contatto con un malato non sembra rispettare il concetto di anonimizzazione dei dati. Si tratterebbe, invece, di pseudonimizzazione.
Idem dicasi la parte di diario clinico nella quale possono essere inseriti dati molto personali e molto precisi che inevitabilmente sono collegati a un soggetto preciso.

3) La redazione del diario clinico non assicura che e persone inseriscano dati corretti e affidabili, quindi a cosa serve esattamente? Come si prevede di risolvere questa incertezza?

4) L’esperienza della app di Singapore ha dimostrato l’esistenza di un alto numero di falsi positivi e falsi negativi. Come se la caverà la app italiana? Quali contromisure sono state adottate?

5) Che interesse ha la società creatrice a concedere la app gratuitamente? La sua composizione societaria va tenuta in considerazione? La presenza di finanziatori cinesi può configurarsi come un rischio per la sicurezza nazionale?

6) La prima bozza di presentazione della app è giunta al governo prima della apertura del bando al quale hanno partecipato 300 proposte. Manca trasparenza sui criteri di scelta.

7) Va ricordato che il progetto europeo PEPP-PT non è un progetto istituzionale ma di un gruppo di soggetti privati che sembra mancare di trasparenza.

8) Non si sa bene a quali server si appoggerà la app.
C’è chi suggerisce un coinvolgimento di Tim che ha appena stretto un accordo con Google e chi dice Amazon. In entrambi i casi ci si affiderebbe quindi a strutture extra europee che hanno politiche diverse in fatto di privacy e trattamento dei dati personali.
Si starebbero valutando anche server da collocare presso i ministeri della Difesa e dell’Interno o di coinvolgere la Protezione Civile.

9) La app è facoltativa, ma per essere efficace deve essere scaricata da almeno il 60-70% della popolazione italiana. Percentuale ambiziosa! Non si sa bene come lo Stato abbia intenzione di raggiungerla.

10) Il GDPR è molto chiaro: quando si parla di dati personali, il consenso deve essere informato, libero e consapevole.
Nelle ultime ore circola l’idea di una limitazione degli spostamenti per coloro che non scaricheranno la app, configurando quindi una obbligatorietà indiretta.
Addirittura, si parla di imporre un braccialetto elettronico alle fasce di popolazione sprovviste di smartphone o non avvezze alla tecnologia.
Infine c’è chi, come il presidente del Veneto Zaia, già preannuncia una futura obbligatorietà che mal si sposa con l’idea di consenso indicato dal GDPR.

11) Non è chiaro cosa succeda dopo aver ricevuto il messaggio di essere entrati in contatto con un soggetto positivo a COVID-19. Si dovrà fare un tampone? Si dovrà chiudersi in isolamento preventivo? E a quali sanzioni si va in contro se non si seguono tali procedure?

12) Mancherebbe un’analisi di impatto che indichi in modo preciso l’effetto che l’uso della app avrebbe sul contenimento dell’epidemia.
A tal proposito, l’Ada Lovelace Institute ha pubblicato il report “COVID-19 Rapid Evidence Review: Exit through the App Store?” in cui afferma che
«mancano prove che sostengano l’implementazione nazionale immediata di app di tracciamento dei sintomi, app di tracciabilità dei contatti digitali e certificati digitali di immunità».

13) In linea generale, mancano garanzie sulla tutela della privacy, sul trattamento dei dati, l’accesso a questi, il diritto all’oblio.

Potemmo dire che il vero problema è la mancanza di una comunicazione da parte delle autorità, quando invece i cittadini devono essere informati in modo chiaro e preciso sulle conseguenze che il download della app può avere sulla libertà personale.

Il Garante Garante della Privacy non ha ancora esaminato la app e pertanto non ha ancora espresso il suo parare, ma è ben consapevole delle potenziali derive anti-democratiche alle quali una massiccia tecnologia di controllo, come è questa app di tracciamento, può portare.

E non è certamente l’unico a preoccuparsi di questo aspetto…Continua a leggere l’articolo.

Fonti e approfondimenti:
https://www.linkedin.com/pulse/tutto-quello-che-dovreste-sapere-sullapp-immuni-e-non-andrea-lisi
https://www.studiocataldi.it/articoli/38107-coronavirus-misure-di-contenimento-incostituzionali-inadeguate-e-controproducenti.asp
https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/coronavirus-e-dati-personali-diritto-alloblio-priorita-nel-post-emergenza/
https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/contact-tracing-vs-il-coronavirus-dove-va-leuropa-le-app-dei-diversi-paesi/
https://www.repubblica.it/tecnologia/2020/04/21/news/coronavirus_immuni_l_app_anti_pandemia_diventa_l_app_del_caos-254590533/
https://www.affaritaliani.it/politica/coronavirus-dubbi-sull-app-immuni-faro-copasir-sui-finanziamenti-cinesi-667521.html
https://www.firstonline.info/fase-2-e-app-come-funziona-immuni-e-chi-sono-i-suoi-azionisti/
https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/immuni-come-funziona-lapp-italiana-contro-il-coronavirus/
https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/app-coronavirus-9-domande-urgenti-al-governo-italiano/

 

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Leggi la prima parte dell’articolo.

La tutela della privacy in questo momento di crisi non è quindi solo un mero esercizio di diritto. È la necessaria difesa contro la prospettiva di un futuro contraddistinto da governi autoritari e invasivi.

In un suo articolo intitolato ‘Coronavirus: misure di contenimento incostituzionali, inadeguate e controproducenti‘, l’avvocato Maurizio Giordano scrive:

La dichiarazione dello “stato di emergenza” nel gennaio di quest’anno in seguito all’epidemia da “coronavirus” ha portato a partire dal 12 marzo all’adozione da parte del Governo di misure estremamente restrittive delle libertà personali […] che inizialmente sarebbero dovute durare 2 settimane.
[…]
La campagna mediatica “unidirezionale” che ha preparato e accompagnato queste misure ha di fatto avuto l’effetto di scatenare il panico tra i cittadini, convincendoli sostanzialmente della necessità di tali misure per tutelare la salute di tutti -in particolare degli anziani- inducendoli ad accettare senza alcuna resistenza una limitazione delle proprie libertà personali che non ha precedenti nella storia repubblicana.
[…]
Il terrore del virus ha convinto tutti, senza distinzione di istruzione o ceto sociale, senza che da nessuna parte si sollevassero dubbi o obiezioni, pronti a rinunciare a qualunque diritto pur di avere salva la pelle […]
…hanno sostanzialmente avvallato il sacrificio della libertà personale in nome di un diritto posto a loro giudizio ad un livello superiore quale quello alla salute, proprio in forza di un principio di “solidarietà effettiva” sancito dall’art. 3 della Costituzione.”

La app IMMUNI è il risultato tangibile di questo stato di paura e di contrazione delle libertà.

Come già indicato nell’articolo precedente, l’uso della app dovrebbe basarsi su un consenso libero, informato e consapevole da parte dei cittadini, così come indicato dal GDPR. Invece, si parla di forzare il download imponendo dei limiti alla mobilità di coloro che ne saranno sprovvisti o di imporre braccialetti elettronici agli anziani che con la tecnologia non vanno propriamente d’accordo. 

Inoltre, la app non sembra garantire la dovuta sicurezza nel trattamento dei dati personali raccolti e la necessaria tutela della privacy, così come richiesto dal Codice della Privacy e dal GDPR.

GDPR, TUTELA DELLA PRIVACY E APP DI TRACCIAMENTO

Al Consideranto 7del GDPR si legge che: «È opportuno che le persone fisiche abbiano il controllo dei dati personali che li riguardano e che la certezza giuridica e operativa sia rafforzata tanto per le persone fisiche quanto per gli operatori economici e le autorità pubbliche».

Ciò significa che l’interessato ha il diritto:

– ad essere informato in modo trasparente sul trattamento (artt. 12, 13 e 14),
– di accedere al trattamento e ai dati personali trattati (art. 15),
– ad essere informato in caso di violazioni dei dati personali che presentino rischi elevati per i suoi diritti (art. 34),
– di prestare e revocare il consenso al trattamento (art. 7),
– di limitare il trattamento (art. 18),
– di opporsi al trattamento (art. 21),
di ricevere e spostare insiemi strutturati di dati personali (art. 20),
– di rettificare e integrare i dati personali (art. 16),
– di ottenere la cancellazione dei propri dati personali (art. 17),
– di non essere sottoposto a decisioni basate su trattamenti automatizzati dai quali derivino decisioni arbitrarie che incidono sulla sua sfera giuridica o sulla sua persona (art. 22).

Ma all’art.23, il GDPR prevede che sia possibile limitare alcuni diritti in nome di interessi più importanti (concetto già sancito dall’art. 52 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 15 della Direttiva E-Privacy). Tra questi, la salute.

Per esempio, il diritto all’oblio da parte del titolare può venire rifiutato se il trattamento è necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione, in caso di adempimenti di obblighi giuridico previsti dal diritto dell’Unione o dei suoi membri, per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità, per archiviazione nel pubblico interesse, per ricerche scientifiche, storiche o a fini statistici, ma anche per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria. (paragrafo 2 dell’art. 17).

Nella situazione attuale, il rischio è quello che lo stato di emergenza si trasformi in un’alibi per imporre ai cittadini forme di controllo pervasive e anti-democratiche sfruttando interpretazioni di tali riferimenti normativi.
Chi decide quando l’emergenza potrà dirsi finita? E cosa ne sarà di tutti i dati raccolti tramite la app IMMUNI? Ci verrà chiesto di tenerla attiva ad oltranza in nome della prevenzione di possibili nuove ondate di COVID-19, delle normali influenze stagionali o, addirittura, per altri motivi che ora non riusciamo nemmeno a immaginare?

LE TUTELE POSTE DALL’EUROPA

Il monitoraggio dell’epidemia tramite contact tracing è stata la centro dell’attenzione del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (European Centre for Disease Prevention and Control).

L’ ECDC ha definito quali dovessero essere gli obiettivi e i limiti delle misure di tracciamento e ha stabilito che lo scopo sia SOLO quello di identificare e gestire i contatti di coloro che siano risultati positivi al Covid-19. È possibile farlo:

  • – identificando in fretta gli infetti e le persone che sono venute in contatto con loro
  • contattando velocemente questi soggetti e informandoli su cosa devono fare
  • sottoporli a test per verificarne a positività

L’European Data Protection Board ha fornito delle linee guida al trattamento dei dati da parte delle AutoritàPubbliche degli stati membri per far sì che tale trattamento non leda i diritti personali dei cittadini e che il rischio di tale lesione non costituisca un rischi sproporzionato rispetto alla situazione.

L’EDPB ribadisce che i dati debbano essere raccolti in modo anonimo, e che non permettano di risalire all’identità del singolo.

Inoltre, indica che gli Stati devono sempre muoversi perseguendo il principio di proporzionalità: vanno sempre preferite quelle soluzioni che consentono di ottenere un obiettivo specifico garantendo la minore intrusione nella sfera privata dei cittadini.

EDPB, nella comunicazione del 14/4/2020 ha chiarito che «the enactment of national laws, promoting the voluntary use of the app without any negative consequence for the individuals not using it, could be a legal basis for the use of the apps».
Si evince che l’idea di estorcere il consenso dei cittadini italiani all’uso della app IMMUNI imponendo limitazioni alla mobilità è totalmente contrario a quando espresso dall’EDPB.

E IL GARANTE DELLA PRIVACY COSA DICE?

Il Garante della Privacy non ha ancora visionato la app di tracciamento, ma in un suo articolo su Agenda Digitale Antonello Soro si dimostra consapevole del rischio di derive anti-democratiche che si nascondono dietro alle misure di controllo.
Tali derive devono essere evitate garantendo
«proporzionalità, lungimiranza e ragionevolezza dell’intervento, oltre che naturalmente [la] sua temporaneità».

Nel frattempo, il tema della mancata tutela della privacy insita nella app IMMUNI ha una richiesta politicamente trasversale di maggiori garanzie. Soprattutto, da più parti si solleva la necessità che la decisione di controllare gran parte dei cittadini italiani tramite la app non venga presa in autonomia da un commissario straordinario o imposta con dpcm da una sola parte politica, ma sia il frutto di una dibattito parlamentare.

Anche il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) ha assicurato che approfondirà alcune questioni relative a IMMUNI, sia dal punto di vista tecnico che societario, dato che Bending Spoon ha una quota del proprio capitale in mano a soggetti cinesi.

Confidiamo che nei prossimi giorni vengano diffuse informazioni più chiare su questa app di tracciamento, sulla sua reale volontarietà e sugli effetti che il suo uso avrà sulle libertà e le privacy dei cittadini.

Leggi la prima parte dell’articolo.

Fonti e approfondimenti:
https://www.linkedin.com/pulse/tutto-quello-che-dovreste-sapere-sullapp-immuni-e-non-andrea-lisi
https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/coronavirus-e-dati-personali-diritto-alloblio-priorita-nel-post-emergenza/
https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/contact-tracing-vs-il-coronavirus-dove-va-leuropa-le-app-dei-diversi-paesi/
https://www.repubblica.it/tecnologia/2020/04/21/news/coronavirus_immuni_l_app_anti_pandemia_diventa_l_app_del_caos-254590533/
https://www.affaritaliani.it/politica/coronavirus-dubbi-sull-app-immuni-faro-copasir-sui-finanziamenti-cinesi-667521.html
https://www.firstonline.info/fase-2-e-app-come-funziona-immuni-e-chi-sono-i-suoi-azionisti/
https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/immuni-come-funziona-lapp-italiana-contro-il-coronavirus
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protocollo per la trattazione delle adunanze civili e penali camerali

Cassazione: il protocollo per la trattazione delle adunanze civili e penali

Lo scorso 9 aprile 2020 la Corte Suprema di Cassazione, la Procura Generale presso la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense per la digitalizzazione degli atti della Corte Suprema di Cassazione hanno sottoscritto il protocollo per la trattazione delle adunanze civili e penali camerali non partecipate durante il periodo di applicazione delle misure a prevenzione del contagio da Covid-19.

Il protocollo ha l’obiettivo di agevolare la trattazione dei procedimenti, condizionati dalle difficoltà eccezionali del periodo.
Perché il lavoro da remoto sia possibile è necessario che esista un ‘supporto informatico trasmissibile in via telematica’ a disposizione dei componenti del collegio giudicante e del pubblico ministero.

In sostanza, il protocollo si concentra sul favorire la digitalizzazione degli atti processuali. 
La conseguente agevolazione dei procedimenti avviene in due modi:

  • attraverso l’invio della copia informatica degli atti già depositati in forma cartacea
  • attraverso il deposito di memorie e motivi aggiunti tramite PEC.

L’efficacia del protocollo si estende fino al 30 giugno.

CONTENUTI DEL PROTOCOLLO PER LA TRATTAZIONE DELLE ADUNANZE CIVILI E PENALI

Il protocollo si compone di 8 punti.

1) CONTENUTO DEL PROVVEDIMENTO DI FISSAZIONE DELL’UDIENZA

1.1. I difensori hanno 7 giorni di tempo dal momento della ricezione dell’avviso di fissazione dell’adunanza o udienza camerale da parte della Cancelleria della Corte di Cassazione per inviare la copia informatica in pdf degli atti processuali del giudizio di Cassazione, sia civili che penali, già depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge (per il civile: ricorso, controricorso, nota di deposito ex art. 372, comma 2, c.p.c., provvedimento impugnato; per il penale: ricorso, motivi nuovi, provvedimento impugnato).

1.2. Nell’avviso di fissazione è segnalato che, nel caso in cui i documenti non pervenissero entro i 7 giorni, la trattazione della causa, già fissata, potrebbe essere rinviata a nuovo ruolo se il collegio non sé nella possibilità di decidere nella camera di consiglio da remoto.

2) MODALITÀ DI INVIO DEGLI ATTI DEI DIFENSORI

2.1. Il difensore deve trasmettere gli atti richiesti dal proprio indirizzo PEC presente nel RE.G.IND.E a:
a. agli indirizzi PEC delle cancellerie della Corte di Cassazione e delle segreterie della Procura Generale, (gli indirizzi sono presenti nei siti internet dei sottoscrittori del protocollo),
b. agli indirizzi PEC dei difensori delle altre parti processuali presenti nei pubblici registri (art. 16.ter del d.l. n. 179 del 2012 e successive modificazioni).

2.2. Il difensore deve procedere con invii specifici per ogni ricorso per il quale sia stato ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza. Non si può fare un unico invio per atti relativi a più ricorsi.
Il messaggio del singolo invio deve contenere la chiara indicazione nell’oggetto del numero del ruolo generale, della sezione, civile o penale, della data dell’udienza o adunanza secondo il format scelto dai sottoscrittori.

2.3. I difensori devono trasmettere copie informatiche i cui contenuti siano uguali agli originali o alle copie già presenti nel fascicolo cartaceo.

2.4. Le memorie ai sensi degli artt. 380-bis, 380-bis 1 e 380-ter c.p.c. possono essere trasmesse seguendo le stesse modalità di cui ai punti 2.1. e 2.2.

2.5. Resta fermo quanto previsto dai decreti del Primo Presidente della Corte di Cassazione innanzi richiamati, quanto alla trasmissione delle memorie e dei motivi aggiunti nei procedimenti civili e penali.

2.6. Ciascuna delle parti processuali ha la facoltà di trasmettere tutti gli atti del processo, ivi compresi quelli depositati dalle altre parti.

3) MANCATO O RITARDATO INVIO DEGLI ATTI

3.1. La trasmissione degli atti indicati nell’art.1 deve avvenire entro e non oltre il settimo giorno successivo alla ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza o adunanza camerale.
Se il termine non viene rispettato, la trattazione della causa, già fissata, potrà essere rinviata a nuovo ruolo ove il collegio non sia in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto.

4) MODALITÀ DI INVIO DEGLI ATTI DELLA PROCURA GENERALE

4.1. La Procura Generale provvede a trasmettere agli indirizzi PEC delle cancellerie della Corte di Cassazione e dei difensori, di cui al punto 2.1, la copia informatica degli atti processuali del giudizio di Cassazione, sia civili che penali, già precedentemente depositati in forme ordinarie conformi alla legge.

4.2. Le conclusioni scritte ai sensi degli artt. 380-bis.1 e 380-ter c.p.c., le richieste e le memorie di cui all’art. 611 c.p.p. possono essere trasmesse con le stesse modalità.

5) SVOLGIMENTO DELLA CAMERA DI CONSIGLIO

5.1. La Camera di Consiglio è svolta secondo le modalità indicate nei decreti del Primo Presidente richiamati nelle premesse.

5.2. Le cancellerie provvedono all’inserimento nei fascicoli cartacei delle note di cui al punto 2.5.

6) AVVERTENZA

6.1. La trasmissione della copia informatica degli originali cartacei non sostituisce il deposito nelle forme previste dai codici di rito, civile e penale, e non determina rimessione in termini per le eventuali decadenze già maturate.

7) TERMINE DI EFFICACIA DEL PRESENTE PROTOCOLLO

7.1. Il protocollo ha efficacia dal giorno della sua sottoscrizione fino al 30 giugno 2020, salva l’adozione di un nuovo protocollo.

8) PUBBLICITÀ

8.1. Il Consiglio Nazionale Forense darà ampia diffusione al presente protocollo, promuovendone l’applicazione.

Vi consigliamo vivamente di leggere il testo originale del protocollo per la trattazione delle adunanze civili e penali camerali non partecipate durante il periodo di applicazione delle misure a prevenzione del contagio da Covid-19. Il protocollo è reperibile sul sito ufficiale del Consiglio Nazionale Forense.

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