Irragionevole durata dei processi, più veloci gli indennizzi della legge Pinto

Nell’ambito del piano di smaltimento dell’arretrato relativo agli indennizzi per l’irragionevole durata dei processi – previsti dalla Legge Pinto – il Ministero della Giustizia ha lanciato un’iniziativa concreta per semplificare e velocizzare la procedura: un video-tutorial operativo per la corretta compilazione e presentazione delle istanze attraverso la piattaforma digitale SIAMM.

Digitalizzazione e chiarezza: il nuovo approccio

Il video, pensato sia per i professionisti che per i cittadini, illustra in modo chiaro e dettagliato come caricare online l’istanza, tramite esempi pratici e spiegazioni guidate. Lo scopo è agevolare l’accesso alla procedura digitale, che garantisce maggiore rapidità nei tempi di lavorazione, tracciabilità degli atti e trasparenza dell’iter amministrativo.

Una scadenza da ricordare: 31 dicembre 2025

Chi presenta la domanda attraverso il canale digitale accede più rapidamente al circuito dei pagamenti. È questa la ragione per cui il Ministero invita tutti coloro che hanno già inoltrato l’istanza in formato cartaceo ad aggiornarla nella nuova modalità, allegando una dichiarazione sostitutiva e la documentazione richiesta.

Attenzione ai dettagli: e-mail e correzioni

Una volta trasmessa l’istanza sulla piattaforma SIAMM, è fondamentale monitorare eventuali richieste di rettifica o integrazione: il sistema può segnalare errori formali che, se non gestiti tempestivamente, rischiano di rallentare l’intera procedura. L’inserimento corretto dell’indirizzo e-mail del beneficiario è essenziale per ricevere aggiornamenti in tempo reale.

Un canale WhatsApp per rimanere aggiornati

Per supportare ulteriormente gli utenti, il Ministero ha attivato un canale WhatsApp ufficiale dedicato al progetto “Pinto Paga”, attraverso cui vengono pubblicati:

  • aggiornamenti sulle procedure,

  • link utili,

  • comunicazioni in tempo reale sulla gestione delle domande.

👉 Per iscriversi al canale è sufficiente cliccare sul seguente link:
https://whatsapp.com/channel/0029Vb9pZ4EHQbRzphDI6k2v


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Cassazione: deposito cartaceo sempre ammesso in udienza

Nel processo penale, il deposito cartaceo degli atti resta sempre ammesso durante l’udienza, anche in un’epoca di crescente digitalizzazione. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con la sentenza n. 24708/2025, segnando un punto fermo in un momento in cui la transizione al processo penale telematico sta creando più di una frizione.

Il caso nasce da un’ordinanza del Tribunale di Tivoli, che aveva escluso la costituzione di parte civile da parte di due persone perché l’atto era stato depositato in forma cartacea, e non telematica, come previsto dall’art. 111-bis del codice di procedura penale. Ma la Suprema Corte ribalta tutto: quella decisione è “abnorme”, poiché fonda l’esclusione su una norma estranea alla fase processuale in questione.

Il cuore della sentenza: l’udienza resta “analogica”

Il principio affermato è chiaro: «Il deposito di atti, memorie o documenti difensivi è sempre ammesso anche in forma cartacea (cosiddetta analogica) nel corso delle udienze in camera di consiglio e dibattimentali». In altre parole, quando ci si costituisce in giudizio direttamente in udienza, è legittimo farlo su carta, senza necessità di ricorrere agli strumenti digitali.

La Corte ha richiamato l’art. 78 c.p.p., che consente la costituzione di parte civile anche oralmente o per iscritto in udienza. Una possibilità che non è stata toccata dalla riforma Cartabia, che ha invece riguardato altri momenti procedurali, come le costituzioni in vista dell’udienza preliminare o predibattimentale.

Una digitalizzazione che non deve travolgere il diritto

Secondo la Cassazione, pretendere il deposito telematico dell’atto di costituzione in aula significherebbe negare di fatto alla parte offesa la possibilità di esercitare un proprio diritto, con evidenti ricadute sul diritto di difesa e sul principio di accesso alla giustizia. E proprio questo contrasto tra formalismo e sostanza porta la Corte a qualificare come “extra-vagante” la decisione del giudice di merito, in quanto fuori dal sistema processuale.

Deroghe già previste dalla norma

Non solo. Il comma 3 dell’art. 111-bis c.p.p. prevede già espressamente delle deroghe all’obbligo del deposito telematico, in caso di:

  • Natura dell’atto incompatibile con la digitalizzazione (es. planimetrie, testamenti olografi);

  • Specifiche esigenze processuali, che rendano necessario il deposito diretto in udienza.

In questa cornice normativa, la costituzione di parte civile – così come una nomina o la produzione documentale legata all’istruttoria dibattimentale – rientra a pieno titolo tra gli atti che possono essere depositati cartaceamente in udienza.

Anche la circolare DGSIA dell’8 gennaio 2025, in attuazione dell’art. 111-ter, comma 3, impone alle cancellerie la scansione dei documenti presentati in forma analogica, dimostrando che il sistema è già predisposto per integrare digitalizzazione e attività d’aula.

I penalisti: “Segnale importante”

La sentenza è stata accolta con favore dalle Camere penali, che ne hanno discusso in un recente incontro con il Dipartimento per l’Innovazione tecnologica della giustizia. Il segretario Rinaldo Romanelli e il delegato Gian Luca Totani hanno evidenziato come si tratti di un “chiarimento atteso” in un periodo in cui il processo telematico mostra ancora molte criticità. Alcune di queste, hanno dichiarato i penalisti, sono “in via di superamento” grazie agli aggiornamenti già in corso al Portale PDP.


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Giustizia digitale in panne: la rivoluzione promessa finisce tra faldoni e PEC

Armadi che strabordano, tavoli sommersi da pile di fascicoli, scaffali ingolfati e faldoni per terra: è il panorama che si presenta entrando in qualsiasi procura d’Italia, come racconta Milena Gabanelli nella sua dettagliata inchiesta pubblicata sul Corriere della Sera del 16 luglio 2025. La promessa rivoluzione digitale della giustizia, partita ufficialmente nel 2019, si è impantanata in un sistema informatico che, invece di snellire, moltiplica disfunzioni, sovraccarichi e lentezze.

L’origine del progetto: informatizzare tutto

L’appalto per informatizzare il processo penale viene affidato dal Ministero della Giustizia a una piccola srl. Un contratto quadro da 100 milioni di euro, secretato, che dovrebbe coprire la digitalizzazione dell’intero iter penale: denunce, atti d’indagine, provvedimenti, fascicoli. L’obiettivo: costruire un sistema telematico chiuso, accessibile solo da soggetti autorizzati come magistrati, avvocati, Gip.

Ma fin dall’inizio – scrive Gabanelli – sono saltate tutte le tappe necessarie: nessuna reale sperimentazione, nessuna gradualità, nessun reato “pilota”. Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) aveva invitato a non partire dalla parte più complessa (le indagini), ma a gennaio 2024 il nuovo software, denominato APP, è stato imposto in ben 87 procure. Senza formazione adeguata. Senza adattamenti. Senza una vera fase di test.

Un sistema impallato

I primi atti a essere digitalizzati sono quelli di archiviazione contro ignoti – i meno rischiosi – ma anche lì il sistema si inceppa. APP non tiene conto delle strutture organizzative interne alle procure: le richieste si mischiano, i visti non si trovano, i cancellieri non vedono gli atti vistati. A quel punto, dal mese di aprile 2025, il deposito telematico diventa obbligatorio. Ma la stessa legge prevede che, in caso di malfunzionamento, si possa tornare al cartaceo. E così è successo ovunque.

Lavoro raddoppiato, risultati azzerati

Risultato: si lavora doppio. Gli atti arrivano su carta e devono essere inseriti nel sistema digitale. Se manca corrispondenza tra le versioni, bisogna ricominciare da capo. Nel frattempo, ogni giorno arriva alle procure una PEC dal ministero con l’aggiornamento della giornata: “modificato questo campo”, “aggiunta questa funzione”. Ma nessuno fornisce un cronoprogramma, e gli operatori si trovano a navigare tra decine di programmi che non comunicano tra loro, mentre gli assetti organizzativi degli uffici non riescono a tenere il passo.

Un problema strutturale, non temporaneo

“Ogni innovazione comporta un rallentamento iniziale”, riconosce Gabanelli. Ma in questo caso ai rallentamenti fisiologici si aggiungono errori di impostazione, fretta, improvvisazione, scarso ascolto dei suggerimenti istituzionali (come quelli del CSM). Il tutto con un aggravante: la macchina giudiziaria italiana è già notoriamente lenta. E ogni giorno di ritardo in più può significare prescrizione per il colpevole, impunità per la vittima, sofferenza prolungata per l’innocente.

Una questione di risorse e volontà

Se la riforma della giustizia è davvero una priorità del governo – conclude la giornalista – è necessario investire in modo serio e mirato. Non bastano dichiarazioni e normative, servono risorse tecniche, formazione adeguata, software funzionanti e interoperabili, un piano condiviso con gli operatori della giustizia. Senza questi elementi, l’APP resterà solo un altro acronimo inutile in un sistema che chiede meno promesse e più fatti.


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Compensi professionali: interessi moratori dalla messa in mora, anche stragiudiziale

Con l’ordinanza n. 19421 depositata il 15 luglio 2025, la Corte di Cassazione interviene con un chiarimento decisivo sulla decorrenza degli interessi di mora nei crediti professionali, in particolare per l’attività forense. Il principio affermato dalla Seconda Sezione civile è netto: gli interessi ex articolo 1224 del Codice civile decorrono dalla costituzione in mora del debitore, che può avvenire sia con la proposizione della domanda giudiziale sia con una richiesta stragiudiziale di pagamento.

La decisione giunge in accoglimento del ricorso presentato da due avvocati che avevano assistito una società, poi risultata contumace in primo grado davanti al Tribunale di Bergamo. La Corte territoriale aveva riconosciuto il credito richiesto (10.248,99 euro), condannando la società al pagamento degli interessi legali dalla data della domanda fino all’adempimento, oltre alle spese processuali. Ma i legali avevano contestato l’omessa applicazione degli interessi moratori previsti dal decreto legislativo n. 231 del 2002 e la decorrenza fissata dalla domanda giudiziale anziché dalla messa in mora, effettuata con diverse richieste stragiudiziali.

Il principio di mora nel credito professionale

La Suprema Corte ha accolto il primo motivo di ricorso, ribadendo che la disciplina sui ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, inclusi i contratti d’opera professionale, prevede la maturazione degli interessi moratori dalla messa in mora, a condizione che il ritardo non sia giustificato da cause non imputabili al debitore (art. 3, D.lgs. 231/2002). La liquidazione giudiziale successiva non incide sulla decorrenza della mora, neanche se l’importo liquidato è inferiore rispetto alla richiesta originaria.

Non è quindi determinante la data della decisione giudiziale che accerta e quantifica il credito: la costituzione in mora – attraverso atti formali o iniziative legali – è sufficiente per far decorrere gli interessi. Il giudice di merito, rileva la Cassazione, avrebbe dovuto applicare fin da subito gli interessi moratori, tenendo conto delle diffide precedentemente inviate.

La rivalutazione non scatta automaticamente

Diversa la sorte del secondo motivo di ricorso, con cui i legali chiedevano il riconoscimento della rivalutazione monetaria del credito, sostenendo che la mancata contestazione della parcella avrebbe dovuto attivare d’ufficio sia la rivalutazione che gli interessi moratori dalla scadenza del termine di pagamento. La Corte ha respinto l’argomento: per i crediti illiquidi la decorrenza della mora non è automatica, ed è sempre necessario un atto di costituzione in mora.

La sentenza ribadisce un principio consolidato: in illiquidis non fit mora non è un dogma assoluto, ma resta esclusa la mora solo se il debitore si trovi nell’impossibilità oggettiva di quantificare il dovuto. Quando, invece, è ragionevolmente possibile effettuare una stima, ad esempio sulla base di tariffe professionali o di attività documentate e non controverse, la dilazione diventa ingiustificata. In tal caso, anche in presenza di una contestazione giudiziale del credito, la condotta del debitore può configurare responsabilità per ritardo colpevole nell’adempimento.


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Scuola, dal 2025 assicurazione Inail strutturale per studenti e docenti

A partire dall’anno scolastico 2025/2026, la tutela assicurativa Inail nelle scuole italiane diventa strutturale. Dopo due anni di sperimentazione positiva, il governo ha deciso di rendere permanente la copertura per studenti e personale scolastico, includendo anche gli istituti paritari e privati, le università, i percorsi Afam, gli ITS Academy, la formazione professionale regionale e i centri per adulti.

La norma è contenuta in un emendamento approvato dalla Commissione Cultura del Senato al decreto-legge 90/2025, su impulso congiunto dei ministri Marina Calderone (Lavoro) e Giuseppe Valditara (Istruzione). La misura riguarderà oltre 10 milioni di beneficiari tra alunni, insegnanti, personale Ata, assistenti, ricercatori, assegnisti ed esperti esterni.

Le cifre dell’intervento
Lo stanziamento previsto è progressivo: 5 milioni di euro per il 2025, poi 10,14 milioni nel 2026, 10,45 milioni nel 2027, fino ad arrivare a 13,03 milioni di euro annui dal 2034 in poi. Un impegno economico importante, che i ministri definiscono “uno sforzo senza precedenti”.

I dati sugli infortuni scolastici
Secondo i dati Inail aggiornati a maggio 2025, le denunce di infortunio studentesco sono state 45.159, in lieve aumento rispetto alle 43.856 del 2024. Di queste, 1.001 hanno riguardato studenti impegnati nei percorsi scuola-lavoro (Pcto), con una significativa diminuzione del 12,9% rispetto all’anno precedente. L’incidenza degli infortuni nei Pcto è scesa dal 2,6% al 2,2% del totale, mentre i casi gravi sono rimasti marginali (0,06% degli studenti coinvolti). Il calo è attribuito anche alle nuove misure di sicurezza introdotte nei contesti di formazione “on the job”.

Cosa copre l’assicurazione
Per gli studenti, la copertura riguarda tutti gli eventi lesivi – infortuni e malattie professionali – riconducibili all’attività scolastica svolta nei locali o nelle pertinenze dell’istituto: urti contro arredi, infissi, o cadute accidentali sono tra gli esempi più frequenti. Nei percorsi di alternanza scuola-lavoro (Pcto), è previsto anche il riconoscimento dell’infortunio in itinere, ovvero durante il tragitto tra scuola e luogo di lavoro.

Più ampia ancora è la copertura per il personale scolastico: tutti gli eventi lesivi sono tutelati, inclusi quelli avvenuti nel percorso casa-lavoro. La tutela si estende anche alle attività svolte da collaboratori esterni, assistenti tecnici, assegnisti di ricerca e figure professionali impegnate nella didattica.

Valditara: “Un tassello nella valorizzazione della scuola”
«Con questa misura aggiungiamo un tassello fondamentale alle politiche per la valorizzazione della scuola», ha dichiarato il ministro Valditara. Gli fa eco Marina Calderone: «Si tratta di un impegno concreto, che conferma l’attenzione del governo per la sicurezza e la salute di studenti e personale scolastico».


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Casse di previdenza, svolta negli investimenti: priorità all’Italia

Un deciso cambio di rotta nella gestione del patrimonio degli enti previdenziali dei professionisti. È quanto prevede il nuovo decreto firmato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero del Lavoro, che disciplina in modo puntuale le strategie di investimento delle casse di previdenza, titolari di un patrimonio complessivo che a fine 2024 ha superato i 124 miliardi di euro.

Il principio guida della riforma è chiaro: gli investimenti dovranno essere orientati prioritariamente a sostenere lo sviluppo economico e produttivo del Paese. In particolare, viene indicata l’opportunità di privilegiare interventi nel settore infrastrutturale, energetico, ambientale e nella rigenerazione urbana.

Una strategia che si inserisce in un più ampio tentativo del governo, dei mercati e degli operatori finanziari di convogliare parte delle ingenti risorse delle casse nell’economia reale, sia attraverso partecipazioni in società quotate che in asset privati. Un indirizzo che riguarda enti di peso come Enpam (medici), Enasarco (agenti di commercio), Cassa Forense (avvocati), Inarcassa (architetti e ingegneri), che già oggi detengono quote rilevanti in colossi come Generali e operano attraverso gestori specializzati.

Il decreto, atteso da anni, rappresenta una cornice normativa unitaria in un settore finora privo di regole comuni, dove ogni cassa si muoveva secondo criteri propri. Le nuove regole definiscono modalità di gestione, criteri di investimento, obblighi di trasparenza, strumenti di controllo, politiche sulla gestione dei conflitti di interesse e incompatibilità.

Le casse potranno optare per una gestione diretta del patrimonio, purché dotate di strutture professionali adeguate, oppure affidarsi a soggetti esterni, selezionati attraverso gare, sulla base di convenzioni che dovranno includere linee guida coerenti con la strategia definita dal consiglio di amministrazione.

I principi fondamentali richiamano la “sana e prudente gestione”, la trasparenza, la protezione dell’interesse collettivo degli iscritti e la ricerca della migliore combinazione rischio-rendimento, con un’adeguata diversificazione del portafoglio e attenzione al contenimento dei costi.

Viene inoltre ribadita la preferenza per strumenti negoziati nei mercati regolamentati: ogni eventuale scelta diversa dovrà essere motivata in modo puntuale. Il documento sulla politica degli investimenti, che ogni ente sarà tenuto a redigere e pubblicare, dovrà essere aggiornato almeno ogni tre anni e includere l’asset allocation attesa e i relativi profili di rischio.

Tra le altre novità, l’obbligo di predisporre un prospetto annuale aggiornato a valori correnti e l’adozione di misure ragionevoli per prevenire e gestire eventuali conflitti di interesse, che potrebbero compromettere la tutela degli iscritti.


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Professioni, verso una riforma globale: al via il restyling degli ordinamenti

Un anno dopo l’incontro a Palazzo Chigi promosso dal sottosegretario Alfredo Mantovano, torna in primo piano la riforma degli ordinamenti delle libere professioni. Il 31 luglio 2024, infatti, le rappresentanze delle categorie professionali erano state convocate per un confronto sul loro ruolo nello sviluppo economico e sociale del Paese. Oggi, secondo quanto riferito da fonti interne al mondo ordinistico, quella discussione è stata riaperta, con l’obiettivo di avviare un vero e proprio restyling globale del settore.

Al centro della riflessione vi è la possibilità di intervenire in profondità sul DPR 137 del 2012, la norma che regola i principali istituti comuni alle professioni ordinistiche: dall’accesso all’esercizio, passando per il tirocinio e la formazione continua. Il ministro del Lavoro, Marina Calderone, aveva già indicato in quell’occasione la necessità di un aggiornamento, anche alla luce del potenziale ancora inespresso del principio di sussidiarietà tra professionisti e pubblica amministrazione, oggi applicato in modo disomogeneo e con ampi margini di espansione.

Nel frattempo, alcuni ordini professionali hanno avviato autonomamente un percorso di revisione statutaria. È il caso, ad esempio, di avvocati e commercialisti, i cui Consigli nazionali hanno approvato testi di riforma da sottoporre ora all’esame del Parlamento. Il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, lo scorso 15 maggio ha espresso forte apprezzamento per le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che in Senato aveva manifestato l’intenzione di accompagnare il nuovo testo forense con un disegno di legge delega. Un percorso legislativo che tuttavia non è stato ancora formalmente avviato.

Più avanti sembra invece la categoria dei commercialisti. Il presidente Elbano de Nuccio ha definito la riforma varata dal Consiglio nazionale «una nuova carta d’identità» per la professione, a vent’anni dall’entrata in vigore del Decreto legislativo 139 del 2005, giudicato ormai superato. Il progetto mira a rilanciare la categoria nel segno della modernità e della maggiore integrazione con le sfide del futuro.

Tra i temi oggetto di discussione nel nuovo disegno di legge in preparazione al ministero del Lavoro figurerebbe anche la questione dell’“approdo tardivo” alle professioni, spesso rallentato da percorsi formativi lunghi e non sempre coerenti con le esigenze del mercato del lavoro. Un nodo che Calderone ha già avuto modo di sottolineare in più occasioni.

Infine, sul versante degli incarichi tecnici giudiziari, si avvicina l’uscita del testo preparato dalla Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per la revisione dei compensi dei consulenti tecnici d’ufficio (CTU). Secondo quanto anticipato dal viceministro Francesco Paolo Sisto, la rivalutazione dovrebbe aggirarsi intorno al 61% degli importi attualmente riconosciuti, come confermato dal presidente del Consiglio nazionale dei geometri, Paolo Biscaro.


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Criminalità informatica, la UE dice sì alla Convenzione ONU

La Commissione europea compie un passo decisivo nella lotta globale alla criminalità informatica. In una proposta presentata oggi, l’esecutivo comunitario ha raccomandato all’Unione Europea di firmare e ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità informatica, primo trattato internazionale vincolante che affronta i reati digitali su scala globale.

Il nuovo strumento multilaterale, che integra disposizioni in materia di diritto penale sostanziale e cooperazione giudiziaria, rappresenta una svolta storica nella regolamentazione dei crimini informatici, con una particolare attenzione ai reati che colpiscono i soggetti più vulnerabili.

Tra le novità più rilevanti, la Convenzione qualifica per la prima volta come reati penali internazionalmente riconosciuti la distribuzione di materiale pedopornografico, l’adescamento di minori a fini sessuali e la diffusione non consensuale di immagini intime — fenomeni in drammatica crescita negli ultimi anni.

Una risposta concreta alle minacce digitali globali

Il trattato include anche misure concrete di cooperazione transnazionale, come l’estradizione dei sospetti, lo scambio di prove elettroniche e la collaborazione investigativa tra autorità giudiziarie. Un elemento fondamentale, soprattutto alla luce dell’incremento di attacchi ransomware, frodi online e crimini digitali transfrontalieri, spesso condotti da attori basati in paesi terzi che colpiscono cittadini e aziende dell’UE.

La cooperazione prevista dalla Convenzione si fonda sul pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, inclusi i diritti alla privacy e alla protezione dei dati personali, elementi centrali per garantire un bilanciamento tra sicurezza e tutela delle persone.

Le parole della Commissione

Facciamo un passo importante nella protezione delle persone online, in particolare dei minori”, ha dichiarato Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva per la Sovranità tecnologica e la sicurezza. “L’accordo rafforza la cooperazione internazionale e inserisce tra i reati atti dannosi come l’adescamento e la diffusione di materiale pedopornografico, in linea con la nostra strategia ProtectEU”.

Sulla stessa linea anche Magnus Brunner, commissario per gli Affari interni e la migrazione: “La criminalità informatica non conosce frontiere. Con questa convenzione dimostriamo il nostro impegno a proteggere i più vulnerabili e a portare i criminali informatici davanti alla giustizia”.

I prossimi passi

Ora la parola passa al Consiglio dell’UE, che dovrà adottare le decisioni formali per autorizzare la Commissione a firmare la Convenzione a nome dell’Unione. La ratifica finale sarà subordinata all’approvazione del Parlamento europeo.

Anche gli Stati membri saranno chiamati a procedere alla firma e alla ratifica secondo le rispettive procedure nazionali, rendendo così effettivo l’ingresso dell’UE in un quadro giuridico condiviso per contrastare la criminalità informatica in tutte le sue forme.


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La prestazione del professionista va valutata anche nei risultati: senza utilità concreta per il cliente, il compenso può svanire. Con la sentenza n. 19174 depositata il 14 luglio 2025, la Corte di Cassazione ha chiarito un principio destinato ad avere un impatto rilevante nel contenzioso tra professionisti e imprese in crisi: non basta l’aver svolto un’attività per fondare il diritto al compenso, se questa si rivela inefficace o addirittura dannosa rispetto agli obiettivi per cui è stata richiesta.

Al centro della vicenda giudiziaria vi è un commercialista che aveva chiesto l’ammissione al passivo fallimentare per un credito professionale pari a quasi 300mila euro, vantato nei confronti di una società che aveva assistito durante una procedura di concordato preventivo, poi conclusasi con il fallimento.

Pagamenti irregolari e danno ai creditori

Il Tribunale aveva rigettato la richiesta del professionista, rilevando che la sua attività non solo non aveva portato beneficio alla massa dei creditori, ma aveva concorso a comprometterne gli interessi, consentendo alla società debitrice ingenti pagamenti, per circa 2 milioni di euro, in favore di creditori chirografari durante il corso della procedura. Pagamenti che avrebbero dovuto essere invece sottoposti all’autorizzazione giudiziale ai sensi dell’art. 182-quinquies della legge fallimentare.

Secondo i giudici di merito, l’advisor era venuto meno all’obbligo di informare correttamente gli amministratori sulle limitazioni operative della procedura concordataria, in particolare sul divieto di effettuare pagamenti se non autorizzati.

La Suprema Corte conferma: obblighi violati, niente onorario

La Prima sezione civile della Cassazione ha confermato la pronuncia del Tribunale, sottolineando che, anche se quella del professionista non è un’obbligazione di risultato in senso stretto, la sua attività deve comunque essere “concretamente ed effettivamente idonea” a conseguire lo scopo per il quale è stata richiesta.

Nel caso di specie, non solo il risultato non è stato raggiunto (la società è fallita), ma il comportamento del professionista avrebbe anche ostacolato l’accesso a una regolazione ordinata della crisi d’impresa, provocando danni agli altri creditori e pregiudicando la parità di trattamento.

Ignoranza giuridica come causa di inadempimento

La Corte ha sottolineato che il professionista, pur non potendo garantire il successo della procedura, è tenuto a svolgere la sua prestazione con diligenza, rispettando i vincoli di legge e informando correttamente il cliente sui limiti imposti dal concordato. La mancata segnalazione del divieto di effettuare pagamenti dopo la presentazione del ricorso è stata valutata come imperizia professionale e inadempimento contrattuale.

Di conseguenza, il comportamento del commercialista ha determinato il totale fallimento dell’obbligazione contrattuale, con la conseguenza che non matura alcun diritto al compenso, nemmeno in presenza di una richiesta o insistenza del cliente per adottare scelte rivelatesi poi dannose.

Una sentenza con effetti pratici rilevanti

La decisione ribadisce che il compenso professionale non è automatico, e che l’attività consulenziale deve sempre essere coerente, informata e conforme alla normativa vigente. Per commercialisti e legali che operano nell’ambito della crisi d’impresa, si tratta di un richiamo netto alla responsabilità tecnica e deontologica del loro ruolo.

Chi assiste le aziende in difficoltà, avverte la Cassazione, non può agire da semplice esecutore: deve fornire consulenza consapevole e orientata alla legalità, pena la perdita del diritto a essere retribuito.


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Cassazione: “Anche chi è al 41-bis ha diritto all’affettività”

Il diritto all’affettività non si spegne dietro le sbarre, nemmeno quando si tratta del regime detentivo più severo previsto dall’ordinamento penitenziario italiano. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con una decisione destinata a fare giurisprudenza, confermando che un boss mafioso, recluso al 41-bis da oltre 25 anni, ha diritto a un colloquio visivo con una donna con cui ha intrattenuto una relazione epistolare dal 2008, trasformata nel tempo in un legame sentimentale.

Nonostante il carcere duro limiti drasticamente i contatti con l’esterno, riservando i colloqui visivi esclusivamente ai familiari, la Suprema Corte ha accolto il principio secondo cui l’affettività è un diritto soggettivo che può estendersi anche a legami non formalizzati, purché non rappresentino un pericolo concreto per la sicurezza pubblica.

Una lunga relazione nata da parole scritte

Il caso riguarda un detenuto mafioso, arrestato nel 1993 e da oltre due decenni sottoposto al 41-bis. Nel tempo ha intrattenuto uno scambio epistolare con una donna estranea agli ambienti criminali. Un’amicizia nata sulle pagine, evolutasi in affetto profondo. Quando il direttore dell’istituto penitenziario ha negato il colloquio in presenza, il detenuto ha fatto ricorso al Tribunale di sorveglianza, che ha accolto la sua istanza.

Il Ministero della Giustizia ha impugnato quella decisione, ma la Cassazione ha confermato la legittimità dell’ordinanza. I giudici hanno chiarito che il diniego a un colloquio simile deve essere sempre motivato, valutando in modo puntuale e bilanciato il diritto all’affettività del detenuto e le esigenze di sicurezza pubblica.

Affetto sì, ma solo se non mette a rischio la sicurezza

Nel caso specifico, il Tribunale aveva verificato che la donna non era coinvolta in attività criminali né rappresentava un rischio per l’ordine pubblico, pur avendo un precedente penale e intrattenendo rapporti epistolari anche con un altro detenuto al 41-bis. La Direzione Distrettuale Antimafia aveva escluso pericoli concreti, anche alla luce dell’analisi della lunga corrispondenza tra i due.

Il pronunciamento segna un passaggio importante sul fronte dei diritti all’interno degli istituti di pena: la Cassazione ribadisce che anche nei regimi più restrittivi l’umanità del detenuto non può essere ignorata.

Un altro precedente sul diritto alla lettura

Lo stesso detenuto, in passato, era finito alla ribalta per il diniego – da parte della stessa direzione carceraria – alla lettura del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco. Anche in quel caso, la decisione aveva sollevato polemiche: il libro era stato vietato non per il contenuto, ma per via della rilegatura in copertina rigida, considerata inadatta per motivi di sicurezza.


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