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I giornalisti contro la riforma Cartabia

Da mesi, giornalisti e cronisti giudiziari si stanno lamentando dell’applicazione di alcune norme della riforma della giustizia Cartabia. In particolar modo si riferiscono ai rapporti tra gli organi di informazione e le procure della Repubblica.

Queste norme sono state inserite all’interno della riforma con lo scopo di recepire una direttiva europea, che da cinque anni richiedeva il rafforzamento dell’istituto della presunzione di innocenza per le persone indagate nei procedimenti penali. Dunque, si parla di attenuare le conseguenze materiali e psicologiche di chi è sottoposto ad indagine, considerandolo innocente in assenza di una condanna definitiva.

Secondo i giornalisti, tali norme limiterebbero il diritto di cronaca, dando eccessivo potere discrezionale alle procure e andando anche contro i principi a cui sono ispirate.

Quali notizie rendere note alla stampa

Con la riforma, le decisioni su quali notizie debbano o meno essere rese note alla stampa sono state affidate alla discrezione dei capi delle procure della Repubblica. Alcune procure si attengono in maniera scrupolosa alle norme, altre semplicemente le aggirano o addirittura le ignorano.

Finora, molte notizie coperte da segreto d’indagine, arrivavano ai mezzi d’informazione con molta più facilità, causando conseguenze sensibili sulle vite degli indagati – alcune volte, anche sullo svolgimento delle indagini.

La presunzione d’innocenza

La direttiva UE sul “rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” risale al 9 marzo 2016.

Al punto 16 viene stabilito che «la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole».

Dunque, l’abitudine dei media e delle procure di presentare la persona oggetto di indagine come probabile colpevole dovrebbe essere attenuata, dal momento che contraddice la presunzione d’innocenza.

I giuristi incaricati dalla ministra Cartabia di scrivere la riforma hanno ascoltato la raccomandazione dell’UE e hanno deciso di includere nei testi delle norme la regolazione della trasmissione ai media delle notizie sui procedimenti penali.

Il rapporto tra procure e stampa

L’opaco rapporto tra le procure e la stampa italiana è un problema noto. Esiste un sistema in cui gli interessi reciproci hanno portato alcune procure alla diffusione regolare delle informazioni ai giornalisti.

Questo tipo di rapporto con la stampa ai procuratori conviene: danno loro attenzioni e notorietà. Ai giornalisti interessa, invece, avere le notizie da pubblicare per primi.

Ma questo meccanismo ha portato ad abusi e storture. Spesso sui giornali vengano pubblicate intercettazioni che dovrebbero restare segrete, oppure vengono diffuse tesi d’accusa con toni ben poco dubitativi – tesi che magari vengono smentite alla fine del processo.

In passato, ci sono stati episodi in cui l’emissione degli avvisi di garanzia è stata segnalata sui giornali prima di consegnarli ai diretti interessati. Per i giornalisti, ma anche per qualche magistrato, le norme della riforma Cartabia non impediscono veramente che casi simili possano ripetersi.

Quello che fanno è rendere più complicato il lavoro del giornalista lasciando la responsabilità ai procuratori di stabilire cosa è rilevante far conoscere all’opinione pubblica e cosa no. Questa valutazione, secondo i critici, dovrebbe spettare all’etica dei giornali.

Norme che dovrebbero già essere seguite

La riforma Cartabia stabilisce alcune delle norme che dovrebbero essere, teoricamente, già seguite. Del tipo: «E’ fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva».

Chiede, però, che «le informazioni sui procedimenti giudiziari siano fornite esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenza stampa». Inoltre, «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico».

Il comma 3 ter vieta alle procure di nominare queste operazioni con «denominazioni lesive della presunzione d’innocenza». Dunque, non sentiremo più inchieste come “Mani pulite” o “Angeli e demoni” – nomi utilizzati dalle procure al fine di trasmettere l’idea di colpevolezza degli indagati e al tempo stesso la nobiltà delle indagini.

Indizi

In sostanza, il nome degli interessati non deve essere fornito, e non devono nemmeno venire specificati i luoghi degli arresti o altre informazioni utili al fine di individuare gli arrestati.

Di solito il giornalista e il direttore del giornale provano ad avere informazioni dal procuratore capo (che non dovrebbe fornirle). Succede, però, che un’agente di polizia giudiziaria o un’altra persona che viene coinvolta nelle indagini fornisca indizi per risalire all’identità delle persone coinvolte.

Abitudini difficili da cambiare

La riforma ha un compito molto difficile: deve conciliare il diritto di cronaca, unitamente alla libertà di stampa con il diritto di difendere la reputazione delle persone fino al momento in cui non venga accertata la loro colpevolezza.

Non si tratta soltanto di una discussione teorica: andare a cambiare delle abitudini radicate nei giornali e nelle procure è molto complicato. Il rischio è che le nuove norme vengano aggirate, in quanto le redazioni non ritengono necessario adottare un approccio differente alla cronaca giudiziaria.

In tal senso, la pressione del mercato è molto forte. Le notizie che riguardano le indagini e gli arrestati attraggono un grande numero di lettori. Rinunciare a tutto ciò, per un giornale significa perdere questi lettori, a favore, invece, di chi dovesse continuare a lottare al fine di ottenere un certo tipo di informazione.

Qualche opinione

Francesco Floris, giornalista di LaPresse, dice che «bisognerebbe trovare un equilibrio tra il giusto garantismo e la possibilità di fornire notizie ai lettori. Senza contare che il capo di una procura, con queste norme, si trova a svolgere un lavoro che non gli appartiene e a dover rispondere, nel corso magari di un’operazione importante, a continue telefonate di giornalisti mentre si sta occupando di cose delicate».

Ma non sono soltanto i giornalisti a giudicare negativamente le norme della riforma Cartabia. Anche il procuratore di Milano facente funzione Riccardo Targetti ha dichiarato: «Non penso debbano essere i magistrati a dover valutare cosa sia d’interesse pubblico, è un compito dei giornalisti. Come magistrato la giudico una legge piuttosto difficile da applicare. Come cittadino la giudico male, non mi è piaciuta per niente. Mi sembra che questa legge introduca il concetto di velina di regime».

Anche Nino Di Matteo, magistrato che da anni si occupa di mafia con delle posizioni talvolta discusse, non ha accolto a braccia aperte le nuove norme. «Le direttive introducono una sostanziale impossibilità per l’autorità pubblica, non soltanto per i magistrati, di informare su quanto non è più coperto dal segreto. Possono informare soltanto le parti private, possono informare i parenti, com’è avvenuto per Riina e Provenzano, su quello che secondo loro è emerso dalle indagini. Non lo potrà fare più il procuratore della Repubblica, il questore o l’ufficiale dei carabinieri».

Problema non risolto

Coloro che si ritengono favorevoli alle nuove norme sostengono che in questo modo si potrà mettere fine al mercato nero delle notizie (le informazioni passate sottobanco ai giornalisti). Ma non è detto che il mercato nero in questo modo non possa diventare ancora più nero e sottobanco.

Un giornalista non si accontenterà mai delle informazioni che sono contenute in un comunicato o che vengono fornite durante una conferenza stampa. Sarà incentivato a cercare di scoprire in maniera sempre più agguerrita tutto quello che non gli è stato comunicato in via ufficiale.

Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, all’entrata in vigore della legge aveva detto: «Norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso di notizie, e, persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di esse attraverso canali diversi, non ufficiali o persino non legittimi».

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L’importanza della tutela dei minori online

Pur essendo dei nativi digitali, bambini e adolescenti faticano a comprendere a fondo tutti i rischi del mondo del web, in particolar modo dei social media. È necessario, dunque, dar seguito alle norme europee ed internazionali, quali la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (la Convenzione di New York), la nostra Costituzione e il GDPR.

Il GDPR e i minori

Il GDPR si riferisce espressamente ai minori, sia per quanto riguarda il linguaggio e la trasparenza delle informazioni, sia alle condizioni di consenso e di liceità del trattamento. Il legittimo interesse del titolare del trattamento dovrà essere valutato come base giuridica, ma non devono prevalere gli interessi, i diritti o le libertà fondamentali se di mezzo c’è un minore.

Nel difficile bilanciamento degli interessi che entrano in gioco per quanto riguarda tutto ciò che è legato alla protezione dei dati personali (ma anche alle Intelligenze Artificiali), la normativa europea e il GDPR ribadiscono i principi di liceità, trasparenza, proporzionalità e correttezza.

Il GDPR permette alle persone di avere totale controllo sui propri dati, affinché abbiano consapevolezza sul valore di questi dati. Purtroppo «le persone e i più piccoli in particolare hanno una percezione modesta del valore dei propri dati e della propria identità personale e talvolta considerano l’intera disciplina della materia come un inutile e rinunciabile orpello o ostacolo burocratico».

Il manifesto di Pietrarsa

Il recente Manifesto di Pietrarsa vuole essere una sorta di «stazione di partenza» per tutte quelle iniziative a favore della consapevolezza della protezione dei dati. L’incipit del Manifesto si riferisce ad un’evidenza di tipo sociale: il nostro modello di vita risulta sempre più condizionato dagli algoritmi e dell’IA.

Dunque, è fondamentale la consapevolezza degli utenti, che dovranno assolutamente metabolizzare il valore della propria immagine ma soprattutto dei propri dati.

Alcune piattaforme non rispettano il GDPR

Ciò a cui si aspira è offrire una protezione specifica ai minori per quanto riguarda i loro dati personali. Infatti, potrebbero essere poco consapevoli dei rischi e delle conseguenze, nonché dei loro diritti per quanto riguarda il trattamento dei dati personali.

La maggior parte degli adolescenti tra i 10 e gli 11 anni possiede e utilizza uno smartphone. L’esordio nel mondo dei social, infatti, avviene proprio nella fascia under 10, nonostante sia prevista un’età minima per accedere ai social.

Capita, infatti, che molte piattaforme non rispettino l’articolo 8 del GDPR, che stabilisce un’età minima di 16 anni, lasciando comunque la possibilità agli Stati di stabilire un’età inferiore che non scenda sotto il limite di 13 anni. Escludendo, ovviamente, i casi dove c’è il consenso esplicito rilasciato dai genitori.

Da una trasparenza formale ad una effettiva

Le iniziative previste dal Manifesto puntano a rendere più trasparenti, comprensibili ed accessibili le informative sul trattamento dei dati personali, passando da una trasparenza formale ad una effettiva. Puntano ad accrescere il livello di consapevolezza delle persone riguardo il valore dei loro dati mediante attività didattiche, informative e promozionali.

Gli aderenti (tra cui troviamo anche Google) intraprenderanno azioni concrete, in grado di produrre dei risultati quantificabili nei seguenti ambiti:

  • trasparenza – le informative sul trattamento dei dati personali devono essere comprensibili, accessibili, trasparenti ed efficaci nella loro semplicità incisiva. L’obiettivo è quello di passare da una trasparenza formale ad una effettiva, investendo risorse e creatività al fine di perseguire i propri obiettivi;
  • consapevolezza – ovvero, realizzare e progettare delle iniziative promozionali, giochi a premi, campagne di informazione, spettacoli teatrali, rubriche di attualità, programmi radiofonici e televisivi, giochi, videogiochi e cortometraggi che vadano ad accrescere la consapevolezza delle persone per quanto riguarda il valore dei dati personali;
  • educazione –  fondamentale l’organizzazione e la progettazione di percorsi di formazione, anche online, così come la pubblicazione di contenuti educativi finalizzati a fornire a bambini ed anziani strumenti utili all’utilizzo consapevole dei servizi digitali.

Il Manifesto, in sintesi, vorrebbe favorire l’educazione di 5 milioni di bambini per quanto riguarda la consapevolezza e la protezione dei loro dati. Chiede a coloro che hanno aderito, e a quelli che aderiranno, un impegno totale negli obiettivi prefissati; ma anche risultati quantificabili.

Le iniziative verranno rese note mediante il sito istituzionale del Manifesto di Pietrarsa.

Necessaria una campagna di massa

Il Garante ha invitato anche il nuovo Governo a prendere in considerazione con molta attenzione il tema. Sarà altrettanto necessario educare anche i genitori ai rischi e all’importanza del tener sotto controllo lo spazio virtuale dei figli con maggior attenzione.

Non si può rimandare per sempre la promozione di una campagna di massa per educare al valore dei dati personali e alla diffusione delle buone norme in grado di accrescere il grado di trasparenza effettiva che viene garantita alle persone.

Non dobbiamo dimenticare che spesso gli algoritmi sono costruiti proprio in modo tale da far vedere agli utenti le cose che potrebbero interessare loro, e non tutto quello che c’è da vedere. Questo potrebbe compromettere molto lo sviluppo armonioso della loro coscienza.

L’importanza della protezione dei dati personali

In Italia il 23% dei bambini tra i 9 e gli 11 anni e il 63% dei preadolescenti tra i 12 e i 14 anni visitano tutti i giorni un social network. La percentuale aumenta sino al 79% per i ragazzi tra i 15 e i 16 anni.

Chiaramente la pandemia ha accelerato l’utilizzo della comunicazione a distanza. Ma la digitalizzazione porta con sé molti rischi, soprattutto per i più piccoli, che potrebbero soffrire delle peggiori conseguenze.

La protezione dei dati personali è parte integrante della tutela dei minori. I dati personali identificano o rendono identificabile una persona fisica. Dunque, sono uno strumento essenziale, poiché la loro conoscenza favorisce reati come, per esempio, l’adescamento.

Impedire che un minore venga identificato protegge la sua immagine e ostacola la circolazione delle sue informazioni personali. Si crea, in tal modo, un filtro tra il minore e tutti i pericoli che nasconde il web.

Non dobbiamo trascurare nemmeno l’impatto che potrebbe avere la circolazione di dati personali sulla psiche, sulla dignità e sulla qualità di vita.

 

MANIFESTO DI PIETRARSA

 

Viviamo nella società dei dati sempre più fortemente condizionata dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale.

I dati – personali e non – sono protagonisti delle nostre vite nella dimensione personale, professionale, commerciale, culturale e politica.

Specie nella dimensione digitale i nostri dati sono proiezioni della nostra identità personale.

In ambito pubblico e privato, un numero crescente di decisioni che ci riguardano e che hanno un impatto sempre più significativo sulle nostre vite dipende dai nostri dati personali.

I nostri dati personali consentono a un numero crescente di soggetti pubblici e privati di conoscerci sempre meglio e, questa conoscenza, se utilizzata nel modo sbagliato, può influenzare decisioni negoziali e politiche. I nostri dati personali generano un enorme valore economico sui mercati globali e, se utilizzati a scopi politici, potrebbero mettere a rischio i processi democratici.

La disciplina europea sulla protezione dei dati personali attribuisce, salvo eccezioni, alle persone il controllo assoluto sui propri dati personali.

Presupposti necessari di tale controllo sono un’adeguata consapevolezza sul valore dei propri dati personali e sui diritti dei quali si dispone e un’adeguata trasparenza da parte di chi tratta tali dati.

Le persone e i più piccoli in particolare hanno una percezione modesta del valore dei propri dati e della propria identità personale e talvolta considerano l’intera disciplina della materia come un inutile e rinunciabile orpello o ostacolo burocratico.

Tutti i soggetti interessati, in ambito pubblico e privato, dovrebbero impegnarsi per accrescere il più possibile il livello di trasparenza dei trattamenti dei dati, così da garantire alle persone quell’effettiva conoscenza delle caratteristiche essenziali dei trattamenti che consentirebbe loro di esercitare un controllo effettivo sui propri dati personali.

L’uso di espedienti diversi legati al disegno delle interfacce e alla user experience può talvolta influenzare la libera scelta delle persone in relazione al trattamento dei loro dati personali.

Tale stato di cose rischia di compromettere, specie nella società degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, i diritti e le libertà fondamentali sui quali si fonda la nostra democrazia.

Per scongiurare tale rischio è indispensabile e improcrastinabile la promozione di una campagna di massa di educazione al valore dei dati personali e la diffusione di best practice capaci di accrescere il livello di trasparenza effettiva garantita alle persone, a cominciare dai bambini.

IN QUESTO CONTESTO GLI ADERENTI SI IMPEGNANO A PROMUOVERE AZIONI CONCRETE, CAPACI DI PRODURRE RISULTATI MISURABILI E QUANTIFICABILI NELLE SEGUENTI DIREZIONI:

[1] TRASPARENZA Rendere le informative sul trattamento dei dati personali trasparenti, accessibili, comprensibili, efficaci nella semplicità e incisività del linguaggio utilizzato così come nella forma, nei canali e nei mezzi utilizzati nel proporle agli interessati. L’obiettivo delle azioni rientranti in questa linea direttrice dovrebbe essere quello di passare da una trasparenza formale a una trasparenza effettiva, investendo per tale finalità risorse e creatività analoghe a quelle investite nelle attività di comunicazione e informazione strumentali al perseguimento dei propri obiettivi.

[2] CONSAPEVOLEZZA Progettare e realizzare iniziative promozionali, campagne di informazione, operazioni e giochi a premi, rubriche di attualità, spettacoli teatrali, programmi televisivi e radiofonici così come produrre giochi, videogiochi, cortometraggi e ogni altro genere di analoga attività volta ad accrescere il livello di consapevolezza delle persone in relazione al valore dei dati personali nella loro vita.

[3] EDUCAZIONE Progettare e organizzare percorsi di formazione, anche a distanza, o pubblicare contenuti educativi volti a fornire ai non addetti ai lavori, in particolare ai soggetti vulnerabili come bambini e anziani, nozioni di base in relazione al valore dei dati personali, all’utilizzo consapevole dei dispositivi e dei servizi digitali, ai loro diritti e alle forme e agli strumenti utili a esercitarli e proteggerli.

E SI IMPEGNANO ALTRESÌ A promuovere le predette attività attraverso il sito istituzionale del Manifesto di Pietrarsa, a misurare e a condividere i principali risultati conseguiti attraverso lo stesso sito.

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everything app

Elon Musk vuole trasformare Twitter in una «super app»

La scorsa settimana Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, ha aggiunto un nuovo tassello alla lunga diatriba con Twitter. Musk, infatti, si era offerto di comprare la piattaforma lo scorso aprile per 43 miliardi di dollari.

La decisione era arrivata dopo alcune settimane in cui Musk aveva detto di «pensare seriamente» alla creazione di una nuova piattaforma, alternativa rispetto ai soliti social network. Inoltre, aveva accusato Twitter di andare contro la libertà d’espressione dei suoi utenti.

Sono seguite da allora molte accuse tra Musk e l’amministratore delegato di Twitter, Parag Agrawal. Twitter ha anche denunciato Musk per aver violato il contratto. Nel corso del procedimento sono stati pubblicati dei messaggi tra l’imprenditore e Dorsey, il precedente amministratore delegato di Twitter – alcuni sono stati considerati come particolarmente imbarazzanti dalla stampa.

Musk vuole far crescere Twitter

Musk punta a quintuplicare le entrate di Twitter sino al raggiungimento di 26,4 miliardi di dollari entro il 2028. Nel 2021 il fatturato di Twitter è stato di 5 miliardi di dollari, che comprendono anche i piani per il lancio di X. Il nuovo servizio si pone l’obiettivo di raggiungere 9 milioni di abbonati nel primo anno e 104 milioni entro il 2028.

Tutto ciò potrebbe diventare realtà se il numero di utenti Twitter passasse dagli oltre 200 milioni del 2021 a più di 900 milioni nel 2028. Il numero dei dipendenti di Twitter dovrebbe crescere di 3.600 entro il 2025 – anche se non avranno vita facile, perché i suoi dipendenti «devono aspettarsi aspettative di etica del lavoro estreme, ma molto inferiori a quelle che pretendo da me stesso».

X

Martedì scorso, con una mossa a sorpresa, Musk ha annunciato di avere intenzione di chiudere la transazione al prezzo che aveva proposto all’inizio: 54,20 dollari ad azione. Con questa somma comprerebbe Twitter, ma soltanto se la causa intrapresa dell’azienda contro di lui verrà chiusa. Secondo Musk «comprare Twitter è un modo di accelerare la creazione di X».

X è un’applicazione con la quale gli utenti, oltre a twittare, hanno la possibilità di fare molte cose diverse, una sorta di “everything app”. La lettera X indica che il progetto, per Musk, non è una novità. La sua prima azienda, venduta ad eBay, si chiamava X.com, mentre la nota compagnia aerospaziale si chiama SpaceX.

The everything app

Il concetto di everything app è un tema che è stato ampiamente dibattuto già negli ambienti della Silicon Valley. In particolare anche in riferimento a piattaforme molto famose in Cina, come WeChat o Weibo.

Sono prodotti che forniscono un’ampia gamma di servizi, dai pagamenti digitali alla messaggistica istantanea, ma che soddisfano anche le esigenze collegate ai social media. Le chiamano “super-app” in quanto funzionano come piattaforme principali sulle quali si poggiano servizi esterni, collegate ad esse attraverso delle “mini-app”.

L’app WeChat è utilizzata da 1,2 miliardi di persone in tutto il mondo. Gli utenti possono scambiarsi messaggi, ma anche ordinare del cibo, noleggiare una bici o richiedere un mutuo. E’ stata fondata nel 2011 ed è di proprietà di Tencent, enorme società cinese che ha rapporti molto stretti con il governo.

Proprio a causa del suo legame con il Partito Comunista, nel corso degli anni la società è stata denunciata più volte ed è stata protagonista di inchieste giornalistiche che hanno portato all’attenzione del pubblico il suo ruolo di controllo e monitoraggio dei cittadini cinesi (ma anche stranieri).

Che cos’è WeChat?

WeChat è un elemento cardine della vita sociale cinese ma anche per gli immigrati cinesi in tutto il mondo, che utilizzano l’app per rimanere in contatto con famiglia ed amici e per informarsi.

Proprio a causa del suo peso politico, Trump e la sua amministrazione nel 2020 espressero la volontà di bandire l’app negli USA (insieme anche a TikTok). Il New York Times all’epoca scrisse che il provvedimento avrebbe tagliato del tutto «milioni di conversazioni tra amici e parenti».

WeChat non nacque con l’ambizione di diventare una super-app. Nel 2010 Tencent la creò al fine di consolidare nel mercato dei dispositivi mobili il dominio ottenuto grazie a QQ, un portale web che offriva, tra le altre cose, un servizio di instant messaging.

Inizialmente l’app si chiamava Weixin, ed incontrò molte difficoltà nell’imporsi e nel guadagnare nuovi utenti. Successivamente, nel 2012, cambiò nome in WeChat ed introdusse nuove funzionalità, come, per esempio, la possibilità di utilizzare l’app a mo’ di walkie-talkie.

Adottò anche l’utilizzo dei QR Code, per facilitare l’utilizzo di servizi via via più vari, contribuendo a classificare la Cina al primo posto nel mercato dei pagamenti con dispositivi mobili.

Le everything app sono nate in Asia

Ma Tencent non fu sola in questa espansione. In Cina, oltre al principale social network cinese, Weibo, c’è anche un’altra super-app. Stiamo parlando di Alipay, collegata al gruppo Alibaba.

Nel Sud-Est asiatico, invece, è molto diffusa Grab, un’app con cui ordinare cibo, effettuare pagamenti e noleggiare mezzi di trasporto. In Indonesia invece c’è Gojek, che tutti gli anni processa delle transazioni economiche per 6,3 miliardi di dollari in totale.

Le cosiddette everything app sono nate proprio in Asia, dove troviamo un mercato molto vario e in sviluppo. Qui, la diffusione di Internet è stata tardiva ma parecchio veloce. Il web, in molti casi, ha completamente saltato la fase desktop, passando direttamente al mondo degli smartphone.

Siamo nel mondo del “mobile-first”, che segue un’evoluzione diversa rispetto al mercato occidentale. Anche in Cina si è verificato qualcosa di simile nel settore dei pagamenti elettronici: non risulta pervenuto, infatti, il passaggio da carte di credito/debito al pagamento mobile. Ci si è concentrati principalmente sui vari servizi che rendono diffusi e veloci i pagamenti con lo smartphone.

La strategia a lungo termine di Musk

Twitter in questo momento sembra essere una piattaforma lontana nel fornire questa tipologia di prestazioni, essendo un social abbastanza semplice. È stato pensato, infatti, per leggere e condividere tweet, pubblicare foto, video e messaggi personali. Da anni registra perdite economiche e delusioni per quanto riguarda le nuove iscrizioni.

Nonostante tutto, Musk ha dichiarato che acquistare Twitter andrà ad accelerare «X di 3 o 5 anni, ma potrei sbagliarmi». Dunque, per lui l’acquisto fa parte di una strategia a lungo termine.

Musk non è estraneo ad annunci ambiziosi e alle tempistiche irrealistiche. Nel 2011 promise che avrebbe portato almeno un essere umano su Marte «entro dieci anni». La data è stata spostata nel 2024. Dal 2014, Tesla dichiarò che le sue autovetture sarebbero state in grado di guidarsi autonomamente. Inoltre, negli ultimi anni ha presentato più di una volta un modello futuristico di pick-up, il cybertruck. Recentemente ha anche mostrato un robot che Tesla dovrebbe cominciare a produrre.

WhatsApp come WeChat?

Ma Elon Musk non è l’unico imprenditore che sta inseguendo il progetto di una everything app per il mondo occidentale. Una delle aziende che più si avvicina a tale obiettivo è Meta, grazie a WhatsApp (si pensi che WeChat ha alla base proprio l’instant messaging).

Zuckerberg, negli ultimi mesi, ha detto di voler «aumentare la monetizzazione di WhatsApp attraverso messaggi per il business e il commercio». Ma questa trasformazione avrebbe comunque bisogno di molto tempo e di enormi investimenti, visto che negli Stati Uniti l’app non è utilizzata quanto lo è in Italia. Gli americani, infatti, preferiscono i messaggi tradizionali, e non c’è modo di convincerli a passare a WhatsApp.

Meta non sembra, inoltre, nelle condizioni economiche adeguate per questo cambio drastico di strategia. Il gruppo, nel corso dell’ultimo anno, ha già investito dieci miliardi di dollari nel Metaverso e nella realtà virtuale, proprio mentre il suo valore in borsa si stava dimezzando.

La concorrenza asiatica

Le super-app cinesi e le app della Silicon Valley non differiscono soltanto a livello culturale o sociale. Il giornalista Tae Kim, nel 2020 aveva scritto su Bloomberg che l’attenzione della politica americana nei confronti delle app cinesi «portava in superficie quanto le app dei social media americane siano rimaste indietro rispetto alle loro controparti asiatiche».

Il fenomeno è ben rappresentato dal grande successo di TikTok e del modo in cui ha costretto sia Instagram che YouTube a ricorrere a soluzioni goffe e spesso non gradite dagli utenti.

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meta password

Furto di credenziali su Facebook ad un milione di utenti

Un milione di utenti Facebook, se non di più, dovranno cambiare la loro password. Il motivo? Aver utilizzato una delle 400 app malevoli per Android e iPhone, colpevoli del furto delle credenziali. Il sistema, da qui ai prossimi giorni, invierà in maniera automatica una notifica che avverte del pericolo, e inviterà a modificare la password per mettersi al sicuro.

Le app dannose ammontano a 355 per Android e 47 per iPhone, tutte ospitate sul Play Store e su App Store. Tali software si mascheravano come editor di foto, giochi o VPN. Nella realtà, però, erano vere e proprie esche progettate ad hoc per richiedere all’utente di effettuare il login attraverso Facebook, al fine di derubarlo delle sue credenziali d’accesso.

Molti utenti, quindi, si sono fidati di queste app scaricate da market tutt’altro che clandestini e hanno cliccato su “Accedi con Facebook”. Non possiamo stimare con esattezza il numero degli utenti coinvolti: la quota di un milione di iscritti potrebbe essere ampiamente superata.

Dunque, se anche a voi arriverà la notifica da Meta, sarebbe bene cambiare immediatamente la password – anche quella di altre utenze, se è stata riutilizzata. Cliccando qui potrete leggere alcuni preziosi consigli per avere la password più sicura dell’universo.

In futuro, invece, pensiamoci meglio prima di scaricare un’app: leggiamo con attenzione le recensioni, ma soprattutto evitiamo di accedere tramite Facebook o Google.

Anche Instagram ha i suoi problemi

Francesca una mattina ha risposto ad un messaggio su Instagram, di un’amica che la invitava ad aderire ad una petizione. Non ci ha pensato due volte e ha risposto subito al messaggio, fidandosi della sua “amica”.

Poco dopo le è arrivata una mail da un indirizzo di posta certificato da Instagram, che segnalava un accesso al suo account da Cosenza, nonostante lei si trovasse a Brescia. In tarda serata gli amici cominciano a scriverle che sul suo profilo Instagram stanno comparendo dei post dove vengono incoraggiati gli investimenti in bitcoin. Nei commenti, Francesca dialoga con uno sconosciuto, in un italiano decisamente poco corretto.

È qui che Francesca si rende conto di non riuscire più ad accedere al profilo. Decide giustamente di segnalare l’episodio all’assistenza Instagram, ma anche questa non riesce a risolvere il problema. Non le resta che sporgere denuncia alle autorità, in quanto vittima di frode informatica.

Commenta Francesca: «Ho segnalato ai miei contatti di non rispondere in alcun modo a messaggi o petizioni inviate attraverso il mio profilo, per non incappare loro stessi nel mio problema. Il disagio è che Instagram ancora non mi consente di accedere al profilo cambiandone la password, quindi non posso vedere, se non attraverso segnalazioni altrui, cosa sta pubblicando l’hacker sul mio profilo».

I consigli di Euroconsumatori

Quello raccontato è soltanto uno dei tantissimi casi emersi negli ultimi mesi. Spesso, a cadere vittima dell’inganno sono utenti non così esperti a livello di tutela della privacy e della sicurezza dei dispositivi digitali e dei social. Sarebbe bene far tesoro dei consigli degli addetti ai lavori, come quelli di Euroconsumatori.

«Spesso l’adescamento avviene attraverso un sms o un messaggio WhatsApp. Il messaggio ci arriva con un invito “mi aiuti a votare questo contenuto?” o simili. Cliccando sul link, il nostro dispositivo (cellulare o computer) scarica il software malevolo che permette all’hacker di agire e impossessarsi del profilo. Per evitare l’attacco quindi è necessario innanzitutto tenere aggiornata l’app di Instagram e mettere in atto tutte le protezioni sull’utilizzo della password».

Creare delle password sicure «e cambiarle frequentemente (mediamente ogni 3 mesi). Ovviamente è necessario attivare l’autenticazione a due fattori. Si tratta di un metodo di autenticazione sicura per sistemi e piattaforme informatiche e consiste nell’utilizzo di due metodi invece che uno, ad esempio l’inserimento di una password e poi l’invio di un codice di sicurezza al proprio numero di telefono».

Per contattare il Centro per la sicurezza Instagram e visualizzare le informazioni per recuperare l’account basterà cliccare qui.

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Dati USA-UE: le ultime decisioni di Biden

Venerdì 7 ottobre 2022, il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo al fine di ridefinire il modo in cui vengono trasmessi i dati dall’Unione Europea agli Stati Uniti.

L’ordine punta a ridefinire i problemi delle aziende americane, come Google, per esempio, che ricevono e trattano i dati che provengono dall’UE. In Europa, infatti, la legislazione è differente rispetto a quella americana, ed è decisamente più stringente.

In poche parole, l’intelligence americana avrà più difficoltà ad accedere alle informazioni personali degli abitanti dell’UE. Saranno adottate delle nuove misure, infatti, per tutelare la privacy degli utenti europei.

L’ordine esecutivo di Biden arriva dopo mesi di negoziati tra gli Stati Uniti e la Commissione Europea, cominciati nel 2020. La Corte di Giustizia dell’Ue aveva infatti deciso di bocciare il complesso di regole sul trasferimento dei dati noto come “Privacy Shield”, che non tutelava a sufficienza i cittadini Ue.

L’ordine esecutivo di Biden è uno degli step concordati con la Commissione per finalizzare un nuovo accordo complessivo sul trasferimento dei dati in grado di sostituire il “Privacy Shield”. Secondo i funzionari UE ci vorranno sei mesi, circa, affinché il nuovo accordo venga approvato ed entri in vigore.

Cosa c’è scritto nel provvedimento firmato da Biden

Secondo Biden, il provvedimento firmato venerdì porrà le fondamenta alle leggi in grado di regolare i flussi di dati transatlantici, affrontando anche le preoccupazioni che sono state sollevate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Stando a quanto si legge nel provvedimento, l’ordine esecutivo rafforzerebbe la tutela delle libertà e della privacy dalle attività di intelligence degli USA. Inoltre, creerebbe un meccanismo vincolante e indipendente che consentirebbe alle persone di richiedere un risarcimento in caso di violazione della legge.

In particolar modo:

  • verranno ridefiniti i limiti di accesso ai dati da parte dell’intelligence americana, con garanzie che limitano l’accesso ai dati a particolari situazioni di necessità, ovvero per garantire la sicurezza nazionale;
  • verrà istituito un nuovo meccanismo di ricorso, imparziale, indipendente e accessibile a tutti i cittadini non statunitensi. Questo grazie all’istituzione di un nuovo tribunale del riesame della protezione dei dati (DPCR), che avrà il compito di indagare e risolvere le controversie che riguardano l’accesso ai dati da parte delle autorità di sicurezza nazionale statunitensi.

Tutto questo fornirà alla Commissione europea una base per adottare nuove misure di sicurezza adeguate, al fine di ripristinare un meccanismo di trasferimento dei dati molto importante, conveniente e accessibile ai sensi del diritto europeo.

Fornirà una maggior certezza del diritto a tutte quelle società che utilizzano le clausole contrattuali standard e regole aziendali vincolanti per il trasferimento dei dati personali dall’Ue agli Stati Uniti.

La nota di Noyb

Ora la palla passa alla Commissione Europea, che dovrà decidere se tali misure sono sufficienti per nuovi accordi di adeguatezza finalizzati alla regolamentazione del trasferimento dei dati, annunciato già a marzo da Biden e dalla Commissione europea.

Secondo la Casa Bianca, le nuove misure sono sufficienti. Tuttavia, già nella serata di venerdì è arrivata una nota di Noyb – l’associazione da cui è partita tutta la controversia che ha portato all’invalidazione del Privacy Shield.

Secondo Noyb è improbabile che l’ordine soddisferà a pieno l’UE. Non garantirebbe, infatti, un vero e proprio limite alla sorveglianza di massa sui dati, secondo i criteri che l’UE ha definito attraverso le proprie norme.

Leggiamo nella nota: «Non vi è alcuna indicazione che la sorveglianza di massa negli Stati Uniti cambierà nella pratica. La cosiddetta “sorveglianza di massa” continuerà con il nuovo ordine esecutivo e tutti i dati inviati ai provider statunitensi continueranno a finire in programmi come PRISM o Upstream, nonostante la CGUE abbia dichiarato per due volte le leggi e le pratiche di sorveglianza statunitensi non “proporzionate”».

«Sembra che l’UE e gli USA abbiano concordato di copiare le parole “necessario” e “proporzionato” nell’Ordine esecutivo, ma non hanno concordato che avranno lo stesso significato legale. Se avessero lo stesso significato, gli Stati Uniti dovrebbero limitare radicalmente i loro sistemi di sorveglianza di massa, per conformarsi alla concezione di sorveglianza “proporzionata” dell’UE».

Altre sorprese

Ma non è finita qui, perché lo stesso giorno è arrivata anche un’altra novità. Il Dipartimento di commercio americano ha deciso di presentare anche alcune restrizioni in grado di rendere molto più difficile ottenere o produrre microchip per le aziende cinesi.

Si tratta di tecnologie destinate ai computer avanzati e alle intelligenze artificiali, che potrebbero avere anche applicazioni militari. Washington, quindi, ha deciso di ostacolare lo sviluppo del suo principale rivale in quel campo.

Thea Kendler, dirigente del Dipartimento, ha dichiarato: «La Repubblica Popolare Cinese ha investito risorse nello sviluppo di capacità di supercalcolo e mira a diventare leader mondiale nell’intelligenza artificiale entro il 2030. Sta usando queste capacità per monitorare, tracciare e sorvegliare i propri cittadini e per alimentare la propria modernizzazione militare».

Questi controlli rappresentano un’escalation degli sforzi già in corso per riuscire a rallentare il progresso tecnologico cinese. I controlli, secondo il Financial Times «impediranno alle aziende statunitensi di esportare strumenti critici per la produzione di chip in Cina, il che interesserà gruppi come Semiconductor Manufacturing International Corp, Yangtze Memory Technologies Co e ChangXin Memory».

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Le novità di Servicematica presentate al XXXV Congresso Nazionale Forense

Come affrontare la paura di parlare in pubblico?

 

Le novità di Servicematica presentate al XXXV Congresso Nazionale Forense

Quest’anno Servicematica al XXXV Congresso Nazionale Forense ha presentato due importanti novità!

App Giustizia Servicematica

Ci troviamo di fronte alla prima applicazione ufficiale per smartphone che collega gli avvocati al mondo della Giustizia. Un’app con la quale possiamo avere tutto il mondo del Processo Civile Telematico a portata di click.

È l’unica app che si collega direttamente con il PDA per scaricare i fascicoli nello smartphone, consentendoti la completa consultazione di tutti gli atti di causa.

Con l’app Giustizia Servicematica avrai la giustizia in tasca. Ecco i servizi dell’app, in breve:

  • Agenda fascicoli: una funzione che ti permette di visualizzare gli eventi in agenda, le scadenze, i termini e le udienze;
  • I tuoi fascicoli: per scaricare tutti i tuoi fascicoli e i documenti telematici correlati;
  • Visure: potrai accedere al servizio di Visure con i prezzi più bassi del mercato;
  • Assistenza: non poteva mancare l’assistenza tecnico/giuridica completamente gratuita a tua disposizione.

Giustizia Servicematica è l’incarnazione della versatilità: puoi gestire tutti gli eventi in agenda, le scadenze termini e le tue udienze anche se ti ritrovi imbottigliato in mezzo al traffico!

Puoi scaricare gratuitamente l’app su qualsiasi smartphone.

Biglietto da visita elettronico

La seconda novità presentata quest’anno consiste in nuovo biglietto da visita, per restare al passo con i tempi ed essere più green! Ecco la tecnologia che abbraccia e coccola la professione forense.

Non servirà più lasciare ai clienti il biglietto cartaceo con le nostre informazioni e i nostri contatti. Basterà avvicinare uno smartphone sul biglietto da visita elettronico per passare al cliente tutti i contatti e i riferimenti, che potranno essere cambiati e/o modificati in qualsiasi momento attraverso il sito Servicematica. Un gioco da ragazzi!

Semplifica la vita dei tuoi clienti: permetti loro di salvare tutte le tue informazioni di contatto e molto altro direttamente dallo smartphone. In questo modo eliminiamo completamente ogni rischio di errore e il fastidio di scrivere!

Il bigliettino da visita che fa bene all’ambiente

Sarai decisamente più green: ogni giorno vengono stampati ben 25 milioni di biglietti da visita, ma il 90% dei biglietti che vengono consegnati finiscono nel cestino nel giro di una settimana. Non lasciare che la stessa cosa accada anche con il tuo bigliettino da visita.

Funziona così: ti forniremo una card personalizzata. Il cliente avvicinerà lo smartphone alla card con la tecnologia NFC attiva. Et voilà: si aprirà automaticamente una pagina web con tutte le tue informazioni.

Non ci sarà bisogno di alcuna registrazione web, o di applicazioni da scaricare per configurare il biglietto da visita digitale. Una tecnologia in grado di superare le barriere tra fisico e digitale, comoda, veloce, moderna e green!

Il video dell’intervista di Avvocati

Chi ci segue sui social sa che ieri il nostro Matteo Zandonà ha spiegato ai microfoni di Avvocati le novità di Servicematica.

Ecco il video!

 

Servicematica è allo stand n. 17. Venite a trovarci 🥰

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Come affrontare la paura di parlare in pubblico?

parlare in pubblico

Come affrontare la paura di parlare in pubblico?

Sono molte le persone che per via della loro professione devono parlare di fronte ad un pubblico. Una buona parte di queste persone si lascia prendere dal panico, entrando in uno stato d’ansia che fa tremare la voce, sudare molto e provare confusione mentale.

Ognuno è diverso e potrebbe accusare sintomi diversi, anche se tutti sono collegati ad un’esplosione di panico, che ha radice nel terrore di parlare davanti a molte persone.

Nessuno è escluso

Anche il grande Cicerone confessò di aver molta paura quando parlava davanti al pubblico – dunque, ci troviamo di fronte ad una fobia che non risparmia nessuno. Ma quali sono le cause di questa sensazione spiacevole? E quali rimedi possiamo mettere in atto per vincere la nostra paura?

In molti casi, l’ansia da prestazione si trasforma in un vero e proprio attacco di panico, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. Se non si trova un rimedio, questa condizione potrebbe addirittura addirittura cronicizzarsi. Infatti, come qualsiasi altra paura, anche questa potrebbe radicarsi talmente nel profondo da condizionare negativamente la vita di una persona.

Sono molti i pensieri che ci pervadono quando dobbiamo parlare in pubblico: mi esprimerò bene? Verrò frainteso? Darò una bella immagine di me? Il public speaking diventa un esame, dove il pubblico incarna un grande giudice che ci valuta severamente.

Impara a riconoscere la paura

Se quando parli di fronte a molte persone le tue mani cominciano a tremare e a sudare, arrossisci, non sai come muovere le mani, il tuo cuore batte velocemente, ti sembra di aver dimenticato tutto il discorso, la tua bocca diventa asciutta, ti manca il fiato… beh, soffri decisamente di paura di parlare in pubblico.

Tutto questo si rivela ancor più negativo se la tua carriera e i tuoi successi dipendono quasi del tutto dal parlare in pubblico. Frequentare dei corsi di public speaking potrebbe esserti di grande aiuto: potresti parlare davanti a tante persone con gran successo, grazie alle giuste tecniche di respirazione e ad un adeguata preparazione.

Alcuni suggerimenti utili

Ma vediamo insieme alcuni suggerimenti per affrontare la paura di parlare in pubblico.

Parlare in pubblico

Sembra paradossale, ma affrontare il pubblico prima di tenere un discorso è il migliore degli esercizi da fare. Tutto questo diventerà progressivamente abitudine, e dopo le prime incertezze verranno resettati tutti i timori, per guadagnare quell’autostima necessaria per sentirsi sicuri di sé.

È possibile anche cercare online gli indirizzi delle associazioni locali che trattano i temi che più vi interessano e partecipare alle loro riunioni per prendere la parola. Qualsiasi occasione dev’essere sfruttata: fate finta che sia una palestra dove allenarsi un po’.

Preparare il discorso

Una parte fondamentale del public speaking è la preparazione in anticipo del discorso, magari ripetendolo un paio di volte. Potresti cominciare con l’argomento che conosci meglio, per poi suddividere il tutto in: presentazione, parte centrale e chiusura. Sarebbe bene non imparare il discorso a memoria; meglio una scaletta da seguire con le keyword evidenziate.

Respirare

Potrebbe apparire superfluo, ma gli esercizi di respirazione si rivelano molto utili prima di cominciare un discorso davanti ad un pubblico. Esistono tecniche precise, di origine orientale, tutte basate sul respiro diaframmatico, che aiutano a calmare la tensione.

Spontaneità

Non preoccupatevi se commetterete un errore durante il discorso. Sarebbe semplicemente un segno di spontaneità che dimostrerà il vostro lato umano. Questo permette al pubblico di empatizzare con voi, che di conseguenza acquisirete più credibilità. Basterà bere un goccio d’acqua, sorridere alla platea e continuare a parlare.

Semplifica il discorso, senza memorizzarlo

Oltre a suddividere il discorso in tre parti, opta per una struttura lineare per evitare di cadere nell’errore di uscire fuori tema ma cercando di esporre i concetti fondamentali anche con termini diversi.

Conoscere la propria voce

E parlare lentamente: se parliamo troppo velocemente, le persone non assimileranno nulla del nostro discorso, perché noteranno soltanto l’ansia del voler finire il più presto possibile.

Parlare in maniera frenetica non fa respirare correttamente e provocherà una certa tachicardia che aumenta l’ansia. Appena ti rendi conto di quanto stai andando veloce, respira, bevi un sorso d’acqua e continua con più calma.

Un’altra cosa che potrebbe risultare utile è conoscere la propria intonazione di voce: prova a registrarti con il telefono per capire come appare il tuo timbro di voce e per essere consapevole di eventuali errori da correggere.

Postura e gestualità

Molto importante, oltre alla voce, anche la postura, che dovrà essere tutt’altro che chiusa. Allarga le braccia e cerca di essere disinvolto per dare l’impressione agli altri, ma soprattutto a te stesso, di non avere paura del giudizio del pubblico. Se non hai modo di esercitarti di fronte ad una videocamera, chiedi ad un tuo familiare di assistere alla prova e di riferirti le impressioni.

Non prendere le critiche come critiche

Ricorda che le critiche arrivano a tutti. E se arrivano, non vederle come offese ma come opportunità per migliorarti. Lavora su di te e modifica quello che ostacola i tuoi successi.

Dedica più tempo alle tecniche di rilassamento, che potrai fare anche soltanto per pochi minuti al giorno. Una sorta di training autogeno, in grado di sradicare l’ansia da prestazione che ti colpisce proprio nel momento in cui devi parlare in pubblico.

Una buona tecnica è visualizzare in anticipo come potrebbe essere il tuo intervento. Immagina di suscitare un fortissimo applauso da parte del pubblico, un consenso totale dalla platea. Allontanerai l’ansia, giorno dopo giorno!

Come per tutti i traguardi da raggiungere, è necessaria costanza nell’esercizio. Non cadere nell’errore di credere che siano necessarie un paio d’ore per risolvere il problema. Non demordere: la perseveranza ti aiuterà nella realizzazione dell’impresa e nell’acquisire la certezza di aver vinto sulle tue paure.

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Avvocato, la tua password è veramente sicura?

Per i ventenni di oggi è meglio essere disoccupati che infelici

password

Avvocato, la tua password è veramente sicura?

Ah, le password! Una croce per gli utenti e una delizia per gli amministratori. Le varie politiche di sicurezza prevedono che le password debbano essere cambiate spesso, per renderne più complicata l’identificazione.

Per gli utenti, però, risulta sempre più difficile memorizzare e creare password inviolabili. Come creare una password veramente sicura, quindi?

Definizione di password

Una password, ovvero una “parola che abilita l’accesso”, è un insieme di lettere e di numeri che consente di accedere a pagine online riservate. Per ogni nome utente univoco (username, email, ID) viene associata una password che costituisce un codice identificativo segreto.

Requisiti di una password sicura

Una password sicura ha minimo 8 caratteri, che possono ovviamente essere aumentati a piacimento, sino ad un massimo di 30 caratteri. Se non hai idee sulle password da utilizzare, puoi ricorrere ai generatori di password casuali che trovi online, per esempio:

RoboForm

LastPass

Avast

Dashlane

1password

Il trucco, in realtà, è quello di personalizzare la password attraverso delle brevi frasi da sublimare in un gioco di acronimi. In questo modo, un utente può avere una password efficace e semplice da ricordare, ma differente per ogni sito.

Tutto questo è sinonimo di sicurezza perfetta? Ovviamente no! Ma siamo in un campo molto più sicuro rispetto a password come 123456. Quest’ultima, con la sua versione inversa, viene utilizzata in massa dalle aziende per proteggere i propri sistemi. Assurdo, vero?

In generale, una password sicura dovrebbe rispettare i seguenti parametri:

  • avere non meno di 8 caratteri, meglio se intorno ai 15;
  • contenere lettere maiuscole e minuscole;
  • contenere numeri e caratteri speciali, ovvero segni di punteggiatura, parentesi, chiocciola e altri simboli simili;
  • non contenere informazioni personali.

Astuzia e strategia per una password infallibile

Ma come creare una password sicura e inviolabile? Con un po’ di astuzia e molta strategia!

Una password è sicura quanto più è imprevedibile. E, senti un po’ qua: una password imprevedibile potrebbe anche essere molto semplice da memorizzare e ricordare! L’ideale sarebbe provare delle parole chiave che combinano lettere maiuscole, minuscole, numeri e caratteri speciali.

Ecco alcune strategie utili:

Creare acronimi di frasi rappresentative

Per esempio: Io mi chiamo Alvise e ho 3 figli diventa ImcAlh3F.

Costruzione di una stringa

Password difficili ma con un maggior grado di sicurezza sono collegate alla costruzione di una stringa: Homangiato1pizzaSabatoeDomenica diventa Hm1pSeD. Questa tipologia di password si chiama passphrase ed è molto semplice da digitare. È imprevedibile, e per gli esperti di sicurezza è quella più complessa.

Tecnica del padding

Un terzo esempio è l’utilizzo di parole preferenziali, integrate nella tecnica del padding. In altre parole si andrà a farcire la frase chiave con altre parole, che creano una password imprevedibile come: Pastacon2Olive, PizzaMeglio6fette.

Immaginare una frase corta

Una frase corta è molto più semplice da ricordare. Ma le minacce aumentano ogni giorno di più. Dunque, sarebbe meglio introdurre una maggior complessità: se ieri era considerata sicura una password di 8 caratteri, oggi lo è una con più di 9 caratteri.

Gli esperti consigliano già di ragionare nell’ordine di 13 caratteri, se non di più. Basterà aggiungere alla frase corta un pizzico di complessità per ottenere una password difficile da intercettare.

Creare nomi utenti difficili da indovinare

Un ulteriore suggerimento è quello di creare un nome utente unico nel suo genere. È vero che molti siti richiedono l’indirizzo mail come nome utente, ma alcune istituzioni finanziare permettono di creare nomi utenti particolari.

Mettere l’indirizzo di posta elettronica come nome utente per ogni sito, significa compromettere in partenza l’informazione. L’hacker, infatti, potrebbe rintracciare gli altri siti dove un utente utilizza lo stesso username.

Complessità e imprevedibilità

Un grosso errore che continua a commettere il settore della sicurezza informatica è spingere gli utenti a creare delle password estremamente complesse, ma senza spiegarne i motivi.

È vero che una password semplice si riesce a ricordare meglio, ma se è troppo corta e viene utilizzata su tutti i siti viene messa a rischio la sicurezza. Ovviamente la pericolosità aumenta se parliamo di password collegate ai siti di e-commerce e internet banking.

L’argomento delle password complesse è soggetto a molti fraintendimenti all’interno dello stesso settore IT, ed è anche la causa di molti dei problemi che oggi associamo alla gestione delle password. Troppo spesso, infatti, una password complessa diventa una password impossibile da ricordare.

Ma la complessità è soltanto una piccola parte di questa equazione. Prima di ogni cosa, dobbiamo affidarci all’imprevedibilità.

123456

Chiediamo ad un qualsiasi professionista della sicurezza IT se sa cosa sono e come funzionano le password. La maggior parte di loro risponderà in maniera positiva. Ma perché la violazione delle password continua ad essere un evento così diffuso? Perché gli utenti mettono così poco ingegno nello scegliere le password?

Per vizio di forma! Nel 2016 la password più utilizzata è stata 123456. Al secondo posto troviamo password e al terzo 12345678.

Un altro errore diffuso è l’utilizzo della stessa parola ripetuta al contrario: dieciiceid. Gli esperti hanno notato che anche questa è una formula parecchio utilizzata per creare delle password, anche se in realtà è una delle più semplici da individuare.

Per creare delle password sicure bisognerebbe aumentare la casualità nella relazione tra le parole, in modo tale che riuscire a decifrare una sequenza di parole diventi estremamente complesso anche per l’hacker più bravo del mondo.

Password internazionali

A livello internazionale, le password preferite sono: iloveyou, letmein, abc123, e principessa.

Queste scelte implicano un’urgente necessità di cambiare repentinamente atteggiamento mentale, anche e soprattutto al fine di scoraggiare i cybercriminali che in questo modo sono facilitati nel loro intento.

Come rubare una password

Ma come fanno gli hacker a rubare le nostre password?

  • Social engineering – si tratta di una figura che sfrutta i siti, come i social network o i luoghi di interazione online dove riescono a parlare direttamente con la vittima o a studiarne attentamente il profilo. Si individuano i dettagli fondamentali in grado di rivelare una password, come i nomi dei figli, date e luoghi di nascita, ecc;
  • Brute force attack – ovvero l’esecuzione di un programma che in pochissimo tempo effettua un numero elevato di combinazioni di password, con l’obiettivo di individuare quella esatta.

Consigli utili

Per evitare che un malintenzionato rubi la nostra password basta seguire i seguenti consigli:

  • Evitare password che hanno dati personali, che possono essere rintracciati online o nei social;
  • Evitare di inserire i dati che riguardano le password su siti e dei social;
  • Creare delle password complesse, con numeri, lettere e caratteri speciali;
  • Non ripetere sempre la stessa password su tutti i siti;
  • Inserire dei blocchi che impediscono l’accesso quando la password viene sbagliata per più volte.

Ma soprattutto, evitiamo di scegliere 123456 come password!

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Per i ventenni di oggi è meglio essere disoccupati che infelici

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Per i ventenni di oggi è meglio essere disoccupati che infelici

I ventenni della generazione Z (1997-2012) mettono la ricerca del benessere davanti al lavoro. Sono sempre più richiesti dal mercato, ma sempre meno disposti a sottostare alle condizioni insoddisfacenti che potrebbero incontrare nel mondo del lavoro. Vediamo insieme come la Gen Z sta cambiando le cose

L’approccio dei ventenni di oggi nei confronti del mondo del lavoro potrebbe sembrare poco ambizioso e legato ad una visione del mondo che mette la felicità e il benessere sopra di tutto. Meglio disoccupati, dunque, che infelici.

Tutto ciò di fronte ad una sempre maggior richiesta da parte del mercato, che li ricerca ardentemente per mettere a frutto i loro naturali talenti digitali. Un disequilibrio tra domanda ed offerta destinato ad aumentare nei prossimi anni. Infatti, il mondo del lavoro ha bisogno di competenze collegate al digital e alle nuove tecnologie, nonostante il minor desiderio da parte dei giovani di soddisfare tale richiesta.

Chi sono i giovani della Gen Z

La Gen Z include tutte le persone nate dopo il 1997 fino al 2012 – anche se in realtà non esiste una formula universale in grado di definire le diverse generazioni.

A prescindere da tutto, possiamo affermare che l’aspetto centrale che caratterizza la Gen Z è l’utilizzo della tecnologia, in particolare dei social media. Sono chiamati, non a caso, “nativi digitali”.

Figli della Generazione X (1965-1980), andranno a costituire una parte importantissima della forza lavoro degli anni a venire. Le aziende dovranno inevitabilmente rivedere le loro strategie di recruiting, per adattarle il più possibile alle necessità dei giovani d’oggi.

La Gen Z, rispetto alle generazioni precedenti, è particolarmente attenta al peso che danno i datori di lavoro all’inclusione e all’uguaglianza. Sono persone caratterizzate da un fortissimo impulso di lottare per i diritti di tutti.

I giovani sono senza ombra di dubbio molto più aperti e flessibili a livello mentale, privi, dunque, da qualsiasi categorizzazione. Di conseguenza si aspettano che l’azienda in cui lavorano o lavoreranno rispecchi questa mentalità.

Il mondo del lavoro ha bisogno della Gen Z

Secondo le stime del “Rapporto sulle previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine”, tra il 2022 e il 2026 è previsto un fabbisogno totale compreso tra 4,1 e 4,4 milioni di lavoratori.

Il rapporto afferma che le «professioni specialistiche e tecniche, con un fabbisogno intorno a 1,6 milioni di occupati nel quinquennio, rappresenteranno quasi il 41% del totale del fabbisogno occupazionale, confermandosi in crescita rispetto alle stime precedenti».

Al tempo stesso, saranno richieste sempre di più competenze green collegate ai processi di transizione verde e digitale. Secondo il rapporto: «Nei prossimi 5 anni le imprese e il comparto pubblico richiederanno il possesso di attitudine al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale a 2,4 milioni di occupati e per il 60% di questi tale competenza sarà richiesta di livello elevato».

Vecchie e nuove professioni

Dopo queste premesse, non è complicato capire perché le attività lavorative del futuro richiederanno molte competenze a livello di interpretazione dei dati e nei processi di analisi. Parliamo di specializzazioni matematiche, informatiche e collegate all’industria 4.0.

Bisognerà comprendere anche come le vecchie professioni, conosciute e sperimentate (SEO, tecniche di comunicazione, sviluppatore software) si affiancheranno alla richiesta delle nuove figure, ad oggi ancora sconosciute (manager di avatar virtuali, e-commerce manager, growth hacker).

Chi meglio della Gen Z potrebbe interpretare al meglio queste professioni? Eppure mancano all’appello più di 38mila giovani per ogni anno di previsione. Cosa non li convince a buttarsi nella mischia?

La felicità prima di tutto

Secondo uno studio di Randstad del 2022, effettuato su un campione di 35mila persone con età tra i 18 e i 67 anni, emerge una realtà completamente diversa rispetto a quella a cui siamo stati abituati. Chi fa parte della generazione X, ad esempio, è cresciuto nell’ottica di far coincidere il lavoro con il sacrificio.

Secondo questo rapporto, Gen Z e Millennials (1981-1996) mettono al primo posto la felicità. Il 56% degli intervistati ha affermato che lascerebbe il lavoro se ostacolasse il loro «godersi la vita».

La ricerca della felicità e del benessere è stata sicuramente accentuata dalla pandemia e ora dalla guerra in Ucraina. Ma questo obiettivo, per i più giovani, si traduce anche nel desiderio di stabilire un dialogo e unaffinità con il proprio datore di lavoro, anche per quanto riguarda i valori sociali delle cause sostenute.

In particolar modo, il 43% degli intervistati afferma di essere disposto a rifiutare un lavoro se si ritrova davanti ad una mancanza di volontà di rendere l’ambiente lavorativo più inclusivo.

Meglio disoccupati che con un lavoro che non li fa stare bene.

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Avvocato, sai prevenire il burn-out?

Il termine burn-out viene tradotto letteralmente come “bruciato”, “esaurito”, “scoppiato”. La prima apparizione del termine risale al 1930, e si utilizzava per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di mantenere o di ottenere ulteriori risultati.

Il termine è stato riproposto nel 1975 in ambito socio-sanitario: una psichiatra americana utilizzò il termine per definire una sindrome con dei sintomi riconducibili ad una patologia comportamentale, nell’ambito delle professioni con elevata implicazione relazionale.

Il burn-out nelle “helping professions”

Nel 1997, alcuni studi condotti dall’avv. Manlio Merolla hanno ricondotto la sindrome da burn-out anche in ambito forense e nelle “helping professions”. Quest’ultime sono professioni finalizzate all’aiuto, che si basano sul contatto interumano e che sfruttano le capacità personali in maggior misura rispetto alle abilità tecniche.

Queste figure hanno una duplice fonte di stress: quello personale e quello della persona che stanno aiutando. Se non trattati in maniera opportuna, è probabile che queste persone comincino un processo di “logoramento” o di “decadenza psicofisica”, a causa della mancanza di energie e dall’incapacità di gestire lo stress accumulato.

Sono professioni “high touch”, ovvero ad alto contatto con la sofferenza. Il contatto emotivo potrebbe essere talmente forte, da rivelarsi insostenibile. Senza adeguate misure di prevenzione si arriva inevitabilmente al burn-out, ovvero ad una «sindrome caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità personali».

Le cause generiche del fenomeno possono essere:

  • lavorare in strutture gestite male;
  • scarsa o inadeguata retribuzione;
  • organizzazione del lavoro disfunzionale/patologica;
  • svolgere mansioni frustranti o inadeguate;
  • insufficiente autonomia decisionale;
  • sovraccarichi di lavoro.

Simile allo stress, ma in ambito lavorativo

Il termine stress (sforzo, tensione) è stato adottato per descrivere una particolare sindrome, che caratterizza una risposta aspecifica dell’organismo a tutto quello che lo costringe a sforzarsi di adattarsi ad una particolare situazione.

Gli stressors (gli agenti stressanti) possono essere fisici, biologici, chimici o psico-sociali, e determinano stress in quanto:

  • troppo intensi ed eccessivi;
  • insoliti;
  • agiscono per troppo tempo.

Se gli stressors eccedono rispetto alle capacità personali di risposta adattiva, verranno prodotte delle manifestazioni morbose. Il fenomeno del burn-out è simile allo stress, ma si manifesta esclusivamente in ambito lavorativo.

Tre categorie di disturbi

Il burn out è il risultato dello stress. Uno stress che fa sentire una persona senza alcuna via d’uscita. Nervosismo, apatia, irrequietezza, cinismo, indifferenza: questi sono alcuni dei sintomi tipici del burn-out.

Tali manifestazioni comportamentali e psicologiche possono essere raggruppate in tre categorie di disturbi:

  • esaurimento emotivo: un sentimento in cui ci si sente emotivamente svuotati, annullati dal proprio lavoro e con un inaridimento emotivo nel rapporto con le altre persone;
  • depersonalizzazione: atteggiamento di allontanamento e rifiuto nei confronti di chi richiede una prestazione professionale o cura;
  • ridotta realizzazione personale: percezione di essere inadeguati sul luogo di lavoro, perdita di autostima e sensazione di insuccesso in ambito lavorativo.
  • super caricamento emotivo: categoria specifica riservata ai professionisti in ambito forense, che riguarda il sentimento di far propri gli inaridimenti emotivi e le esperienze negative dei propri assistiti.

Giovani avvocati vs professionisti affermati

Questa situazione spesso conduce la persona ad abusare di alcool, fumo o psicofarmaci e in ambito forense in un farsi eccessivo di carico di lavoro, senza alcun limite di tempo. Chiaramente, intervengono numerose variabili individuali, fattori sociali, ambientali e lavorativi.

Tra i giovani avvocati si rileva una frustrazione sia a livello economico sia legata alla scarsa preparazione pratica ad affrontare le problematiche che si presentano. Per i professionisti affermati, invece, i sintomi del burn-out sono collegati al peso delle responsabilità nella gestione del lavoro, che diventa man mano più complesso e difficile.

L’esplosione emotiva dei clienti si trasforma in sfoghi in ambito familiare, coniugale ed emozionale.

Le fasi del burn-out

Il burn-out potrebbe essere paragonato ad un virus dell’anima: è sottile, penetrante ed invisibile. Generalmente, segue quattro fasi.

Prima fase (entusiasmo idealistico)

È caratterizzata dalle motivazioni che inducono gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale, come diritto minorile, diritto di famiglia o diritto del lavoro. Si vuole migliorare il mondo, se stessi, avere una sicurezza a livello di impiego e svolgere un lavoro prestigioso. Ma sotto sotto si potrebbe voler esercitare una forma di controllo e potere sugli altri.

Alla base di tutto questo troviamo un certo grado di difficoltà nel leggere in maniera adeguata la realtà. Esiste, infatti, una logica secondo la quale trovare una soluzione ad una situazione difficile non dipende dalla natura della situazione ma dalle proprie capacità. Questo vuol dire che se un problema non viene risolto, significa che non ne eravamo all’altezza.

Seconda fase (stagnazione)

Il professionista continua a lavorare, ma si rende conto che il lavoro non lo soddisfa. I risultati del suo impegno diventano sempre più inconsistenti, passando dall’enorme investimento iniziale ad un disimpegno graduale. Il sentimento di delusione avanza sempre più, determinando un atteggiamento di chiusura verso l’ambiente di lavoro e verso i colleghi.

Terza fase (frustrazione)

Il pensiero che tormenta l’operatore è quello di non essere più in grado di aiutare nessuno, accompagnato da una profonda sensazione di inutilità e di non saper rispondere ai bisogni reali dell’utenza. Il vissuto dell’operatore diventa un vissuto di perdita, di crisi creativa, di svotamento e di smarrimento dei valori che si consideravano fondamentali.

Una persona frustrata potrebbe diventare aggressiva, verso sé stessa o verso gli altri, e mettere in atto comportamenti di fuga, come allontanamenti ingiustificati, pause prolungate, assenze frequenti per malattia.

Quarta fase (apatia)

Il disimpegno emozionale che segue la frustrazione, che determina il passaggio dall’empatia all’apatia va a costituire la quarta fase, dove si assiste ad una morte professionale.

In questi casi ognuno di noi dovrà attingere dalle sue risorse interne, come l’intelligenza emotiva e la creatività, che permettono di gestire al meglio le difficoltà di tutti i giorni.

La creatività potrebbe fornirci nuovi spunti per reagire a dei periodi difficili e a dei ritmi troppo intensi di lavoro. Un atteggiamento positivo nei confronti della vita in generale favorisce il giusto atteggiamento con il quale affrontare i problemi che emergono a lavoro.

Sfruttiamo la nostra intelligenza emotiva

Incontrare i bisogni reali dell’utenza/clientela spinge il professionista a dimenticare e a trascurare i propri bisogni e le proprie motivazioni. E come abbiamo visto, questo si trasforma in una sensazione di disagio e di impotenza.

L’impossibilità di aiutare favorisce l’insorgenza di dubbi nei confronti delle proprie capacità. L’operatore, che partiva da una forte idealizzazione della propria professione, sperimenta dapprima la frustrazione e successivamente il burn-out.

Qui entrano in azione la capacità personali, come empatia, capacità di adattamento, autocontrollo, fiducia in sé stessi, gestione del lavoro e capacità di costruzione di relazioni efficienti. Entra in gioco, dunque, l’intelligenza emotiva, la capacità delle persone di affrontare le difficoltà della vita.

Non isoliamoci

Bisogna provare ad ascoltarsi, a guardare dentro sé e a recuperare le proprie motivazioni e i propri desideri. Anche perché il burn-out è un virus contagioso, che si propaga velocemente tra un membro dell’équipe all’altro e dall’équipe agli utenti.

Il burn-out può essere curato soltanto con cambiamenti radicali nella vita professionale dell’operatore. Ovviamente, è fondamentale cercare l’aiuto di professionisti ma soprattutto è necessario evitare di isolarsi, cercare il sostegno della famiglia, degli amici e dei conoscenti.

Anche le tecniche di rilassamento e alcune attività sportive potrebbero far ritrovare un’energia necessaria per superare un momento così delicato.

Lavoriamo sulla prevenzione

Si deve, invece, intervenire sempre a livello preventivo in ambito formativo. L’operatore deve essere facilitato nel riconoscimento delle variabili interne ed esterne di rischio che esistono nelle professioni di aiuto.

Secondo una ricerca del 2005 pubblicata su “Avvenire Medico”, il 65% di coloro che fanno poca formazione comportamentale e professionale afferma che il lavoro ha peggiorato la qualità della propria vita. Sono pochi i professionisti, infatti, che possiedono strumenti idonei ad affrontare autonomamente la sindrome di burn-out.

Alcuni consigli

Come prima cosa, sarebbe meglio privilegiare la qualità del tempo passato davanti al pc, contro la quantità. Bisogna imparare a limitare le comunicazioni al di fuori dell’orario di lavoro, evitando di inviare mail e stabilendo dei confini precisi.

In generale:

  • rispettate le vostre esigenze (cibo, moto, sonno, ecc) e riposatevi a sufficienza;
  • riducete la velocità;
  • non pretendete troppo da voi stessi: fissate degli obiettivi ragionevoli;
  • se la mole di lavoro è troppa, definite delle priorità o delegate ad altri alcune mansioni;
  • chiedete sostegno al vostro superiore, alle risorse umane o ai colleghi. Se necessario, cercate assistenza medica/psicologica.

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