La Consulta conferma: l’assegno familiare spetta anche in caso di convivenza di fatto

ROMA – La convivenza di fatto non fa venire meno il diritto all’assegno per il nucleo familiare (Anf). Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 120, depositata oggi, dichiarando infondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Venezia in merito all’articolo 2 del D.P.R. n. 797 del 1955, che disciplina l’accesso al beneficio.

Il caso era nato dal dubbio di costituzionalità circa la presunta disparità di trattamento tra coniugi e conviventi del datore di lavoro: mentre la norma esclude espressamente il diritto all’assegno per il coniuge del datore, non contempla un’analoga esclusione nel caso di convivenza di fatto tra datore e lavoratore subordinato. Secondo i giudici remittenti, tale differenza appariva in contrasto con i principi di uguaglianza e tutela della famiglia sanciti dagli articoli 3 e 38 della Costituzione.

Nessuna violazione della Costituzione

La Consulta, tuttavia, ha respinto le censure. La ratio della norma – spiega la Corte – è quella di evitare che il beneficio economico possa essere erogato a nuclei familiari in cui sia presente il datore di lavoro stesso, configurando una forma indebita di “autofinanziamento”. In questo contesto, l’esclusione riguarda unicamente i coniugi del datore di lavoro e non può essere automaticamente estesa ai conviventi di fatto.

Il giudizio della Corte si fonda su una lettura sistematica della normativa vigente. In base all’articolo 2, comma 6, del decreto-legge n. 69 del 1988, il nucleo familiare ai fini dell’Anf è composto da coniuge e figli, ma non include i conviventi di fatto, a meno che non sia stato stipulato un contratto di convivenza ai sensi della legge n. 76 del 2016 (legge Cirinnà).

Convivenza di fatto: rilevanza solo in presenza di contratto

Pertanto, in assenza di un contratto di convivenza, la figura del convivente non assume rilievo ai fini né della concessione né dell’esclusione dell’assegno familiare. Da ciò deriva, secondo la Corte, una coerenza interna della disciplina che rende infondata ogni accusa di irragionevolezza o disparità di trattamento.

“La normativa – afferma la sentenza – risulta armonica, in quanto la mancata considerazione della convivenza sia ai fini dell’attribuzione del beneficio, sia ai fini dell’esclusione dallo stesso, rispetta il principio di eguaglianza formale”.

Un principio confermato

Con questa pronuncia, la Corte costituzionale conferma dunque la solidità del quadro normativo attuale in materia di Anf, che continua a tutelare il lavoratore subordinato convivente di fatto, senza configurare discriminazioni arbitrarie. Resta invece escluso dal beneficio chi si trovi in rapporto di coniugio con il datore di lavoro, nel rispetto di una logica preventiva contro abusi e conflitti di interesse.


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Italiani risparmiatori da primato: mai così tanti a pianificare il futuro

MILANO – Cresce la quota degli italiani che risparmiano con regolarità, toccando i livelli più alti dal 2000. Secondo l’ultima edizione del Rapporto sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, elaborato da Intesa Sanpaolo e Centro Einaudi, ben il 58% della popolazione dichiara di mettere da parte risorse economiche: un dato che si traduce in circa 500mila famiglie entrate nella platea dei risparmiatori solo nell’ultimo anno.

A trainare questo fenomeno, spiega Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo, è una maggiore soddisfazione per il proprio reddito – che in media si attesta a 2.552 euro netti al mese – ma anche una crescente cultura della pianificazione. “Ci sono buone notizie”, conferma Giuseppe Russo, direttore del Centro Einaudi: “Non si risparmia più soltanto per timore dell’imprevisto, ma per obiettivi concreti e di lungo periodo”.

Una nuova consapevolezza

Se il 36% degli intervistati continua a vedere nel risparmio una misura precauzionale per fronteggiare eventuali difficoltà, si fa largo un approccio più “intenzionale”: ben il 38% accantona denaro con uno scopo definito, come l’acquisto della casa, l’istruzione dei figli o la tutela nella terza età.

In questo quadro, il tema previdenziale diventa sempre più centrale. Il timore di una pensione inadeguata è condiviso da ampie fasce della popolazione, tanto da configurarsi come una vera e propria “preoccupazione generazionale”. Tuttavia, solo il 24,5% del campione risulta aver sottoscritto una forma di previdenza integrativa. Un dato in crescita rispetto al passato, ma ancora troppo basso rispetto alla percezione del rischio.

La centralità della casa e il ruolo degli over 60

L’immobile di proprietà si conferma l’asset fondamentale del risparmio italiano. Non solo tra i giovani, ma anche tra gli over 60 – la cosiddetta “silver age” – che il rapporto descrive come economicamente attivi, centrali nel sistema di welfare familiare e, al tempo stesso, impegnati a lasciare un’eredità tangibile. Per il 70% di loro “è fondamentale lasciare almeno la casa ai figli”.

Nonostante l’avversione al rischio persista, emergono segnali di dinamismo anche nella sfera degli investimenti. Le obbligazioni mantengono il primato, mentre torna a crescere il risparmio gestito. La Borsa resta però una nicchia: meno del 5% degli italiani ha effettuato operazioni azionarie negli ultimi dodici mesi.

Risparmio abbondante, investimenti deboli

Il presidente del Centro Einaudi, Giuseppe Lavazza, definisce il risparmio italiano “una grande virtù che si va consolidando”. Ma l’enorme “giacimento di ricchezza” – come lo definisce Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo – continua a non essere sfruttato appieno. Secondo De Felice, in Europa il divario tra risparmio e investimenti è di 543 miliardi di euro l’anno, mentre per l’Italia il gap medio annuo è di 43 miliardi.

Una parte consistente di questo risparmio finisce all’estero: “Ogni anno – osserva Gros-Pietro – circa 300 miliardi di euro prendono la via degli Stati Uniti”. Di qui l’appello, condiviso da tutti i principali osservatori economici, a completare l’integrazione del mercato europeo dei capitali per trattenere e valorizzare le risorse finanziarie generate internamente.


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Separazione delle carriere, via libera del Senato alla riforma costituzionale

Con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astenuti, il Senato ha approvato in seconda lettura il disegno di legge costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, dando così nuovo slancio alla riforma dell’ordinamento giudiziario che modifica profondamente il Titolo IV della Costituzione. Il provvedimento, già approvato dalla Camera, dovrà tornare a Montecitorio per la terza delle quattro letture previste.

Nel corso della seduta, non sono mancati momenti di forte tensione politica. Il Movimento 5 Stelle ha inscenato una protesta sollevando cartelli con le immagini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino accostate, in contrasto, a quelle di Licio Gelli e Silvio Berlusconi. “Non nel loro nome”, si leggeva sui cartelli gialli sotto i volti dei due magistrati uccisi dalla mafia, mentre la scritta nera “nel loro” campeggiava accanto alle immagini dei simboli della P2 e del fondatore di Forza Italia, a sottolineare l’accusa al centrodestra di strumentalizzare l’eredità morale dell’antimafia.

Anche il Partito Democratico ha manifestato il proprio dissenso in modo simbolico, mostrando nell’emiciclo una copia della Costituzione capovolta, per denunciare – nelle parole del capogruppo Francesco Boccia – una riforma che “sovverte l’equilibrio dei poteri”.

Durissimo il giudizio del leader del M5s, Giuseppe Conte: “Hanno in testa un disegno ben chiaro: pubblici ministeri trasformati in superpoliziotti sotto il controllo del Ministro della Giustizia di turno, meno garanzie per i cittadini, più impunità per i potenti. È una giustizia su misura per chi ha potere: ingiustizia è fatta”.

Di segno opposto le reazioni della maggioranza. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in un messaggio su X, ha rivendicato con soddisfazione il risultato: “L’approvazione al Senato segna un passo importante verso un impegno preso con gli italiani. Il percorso non è ancora concluso, ma confermiamo la nostra determinazione nel dare all’Italia un sistema giudiziario più efficiente, equo e trasparente”.

Ancora più esplicito il vicepremier e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha definito il voto “una giornata storica” per il Paese: “Si realizza il sogno di Berlusconi”, ha dichiarato ai cronisti.

I contenuti della riforma

Il disegno di legge introduce una netta separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, istituendo due distinti Consigli superiori della magistratura: uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente. Entrambi saranno presieduti dal Presidente della Repubblica e includeranno, come membri di diritto, rispettivamente il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione.

I restanti componenti saranno sorteggiati per due terzi tra i magistrati e per un terzo da un elenco di professori universitari e avvocati redatto dal Parlamento in seduta comune. I vicepresidenti di ciascun Consiglio saranno scelti tra i membri provenienti da quest’ultimo elenco.

Tra le novità più rilevanti anche l’introduzione dell’Alta Corte disciplinare, organo indipendente per la responsabilità disciplinare dei magistrati. Sarà composta da 15 membri: tre nominati dal Presidente della Repubblica, tre sorteggiati da un elenco parlamentare, sei scelti tra magistrati giudicanti e tre tra quelli requirenti, tutti in possesso di specifici requisiti di professionalità.

Un percorso ancora lungo

La riforma, voluta con forza dalla maggioranza di governo, deve ora affrontare le due letture finali previste dall’art. 138 della Costituzione. Se il testo dovesse essere approvato con la stessa maggioranza semplice nelle successive votazioni, potrebbe comunque essere sottoposto a referendum qualora ne facciano richiesta un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.


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Contributo unificato: nessun obbligo per il difensore di anticipare le spese processuali del cliente

Il mancato versamento del contributo unificato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa non può essere automaticamente imputato all’avvocato difensore. Lo ha stabilito il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 410/2024 depositata il 16 giugno 2025, accogliendo il ricorso di un professionista precedentemente sanzionato dal Consiglio distrettuale di disciplina per non aver provveduto al pagamento del contributo in ben 126 procedimenti.

Il caso: la censura e il ricorso

Il procedimento disciplinare aveva portato all’irrogazione della censura nei confronti del legale, colpevole – secondo l’organo territoriale – di aver omesso il versamento del contributo unificato, compromettendo l’attività degli uffici giudiziari e ledendo, in prospettiva, il decoro della categoria.

L’avvocato sanzionato si era difeso sostenendo che i clienti coinvolti non godevano del patrocinio a spese dello Stato e non erano in grado di sostenere le spese processuali, versando in una condizione economica già gravemente compromessa da mutui e finanziamenti arretrati. L’obbligo del versamento, sosteneva il ricorrente, non può essere trasferito sul difensore, tanto meno quando la condizione economica dei clienti rendeva impraticabile la contribuzione.

Il principio affermato dal CNF

Il Consiglio Nazionale Forense ha accolto il ricorso, precisando che la responsabilità per il mancato pagamento del contributo unificato non ricade sull’avvocato, il quale non è solidalmente obbligato nei confronti dell’erario. L’eventuale omissione non può quindi integrare, di per sé, un illecito disciplinare, a meno che non siano provate condotte ulteriori di scarsa correttezza o mala fede.

Secondo il CNF, la condotta del legale non viola i doveri di lealtà o correttezza, né può essere interpretata come lesiva dell’immagine dell’intera categoria. Il fatto che altri professionisti scelgano di anticipare il contributo non crea un obbligo generalizzato o un parametro deontologico, tanto più in presenza di clienti privi di mezzi e in assenza di disposizioni normative che impongano al difensore l’anticipazione delle spese.

L’importanza della corretta imputazione dell’infrazione

Al centro della decisione c’è la corretta attribuzione soggettiva della violazione: l’omesso pagamento è, infatti, un’infrazione riferibile al cliente e non al professionista incaricato, a meno che quest’ultimo non si sia assunto esplicitamente l’onere economico o abbia agito con dolo o colpa grave. Il CNF ha inoltre sottolineato che non può essere costruita una responsabilità deontologica per il solo fatto di aver accettato il mandato conoscendo la precarietà economica del cliente, in assenza di condotte elusive o scorrette.

Le ricadute sistemiche

La pronuncia si inserisce nel più ampio dibattito sull’equilibrio tra diritto di difesa e accesso alla giustizia, da un lato, e obblighi contributivi dall’altro. In particolare, evidenzia la necessità di evitare che l’avvocato venga surrettiziamente trasformato in garante fiscale del cliente, soprattutto in assenza di strumenti efficaci di tutela del credito professionale.

Il CNF ribadisce così un principio fondamentale: l’avvocato assiste, non sostituisce il cliente nei rapporti con l’amministrazione tributaria. E ogni forma di anticipazione delle spese resta una scelta personale, mai un obbligo deontologico.


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Divieto di sosta e responsabilità penale: la Cassazione chiarisce i criteri di accertamento causale

Non sempre lasciare il veicolo in sosta vietata si traduce in una semplice multa. In determinate circostanze, può comportare una responsabilità penale per lesioni stradali gravi, soprattutto se da quella sosta irregolare deriva – anche indirettamente – un sinistro. A stabilirlo è la Corte di Cassazione penale, Sezione IV, con la sentenza n. 26491 del 21 luglio 2025, accogliendo il ricorso del pubblico ministero contro un’assoluzione di primo grado.

Il caso nasce in una località balneare, durante un’affollata giornata estiva. Un ciclista, nel percorrere una via stretta, tenta di evitare uno scooter parcheggiato in divieto di sosta, occupante parte della carreggiata. La manovra la porta a spostarsi verso sinistra, proprio mentre sopraggiunge un Ape Piaggio: l’impatto è inevitabile e la donna finisce contro il motorino, riportando lesioni con prognosi superiore ai 40 giorni.

Il giudice di merito aveva condannato il conducente dell’Ape, ritenendolo unico responsabile, e aveva assolto invece il proprietario dello scooter. Secondo il Tribunale, non vi sarebbe un nesso causale sufficiente a configurare un concorso di responsabilità: la bici e il motocarro, pur con carreggiata ristretta, avrebbero potuto transitare contemporaneamente, senza impedimenti insormontabili.

Ma la Suprema Corte ribalta l’impostazione, richiamando i principi di causalità giuridica e richiedendo una più approfondita verifica sulle ragioni che avevano giustificato il divieto di sosta in quel tratto di strada. Non basta, infatti, constatare che la strada fosse comunque percorribile: il giudice è tenuto a valutare se il segnale stradale avesse una funzione meramente ordinativa o una valenza cautelare a tutela della sicurezza stradale.

L’importanza del “perché” del divieto

Secondo i giudici della Cassazione, il motivo per cui è stato apposto il segnale di divieto è determinante per valutare la responsabilità penale del soggetto che ha violato l’obbligo. Se il divieto serve ad evitare ostacoli imprevisti o ingombri pericolosi, come nel caso di strade strette o ad alta frequentazione pedonale, allora la violazione può costituire una concausa dell’evento lesivo.

Nel caso specifico, lo scooter occupava circa 70-80 centimetri della carreggiata, riducendo notevolmente lo spazio di manovra per i veicoli e per i ciclisti. Il fatto che la ciclista abbia dovuto compiere una manovra repentina per evitarlo ha innescato una dinamica pericolosa, sfociata poi in un impatto violento.

Un’istruttoria da rifare

La Corte evidenzia, inoltre, che il Tribunale non ha indicato con precisione l’ingombro effettivo lasciato libero sulla strada né ha valutato l’eventuale efficienza causale della condotta del proprietario dello scooter. Né è stato approfondito se la collocazione del mezzo violasse anche il divieto di fermata, più stringente di quello di sosta.

Per questo motivo, i giudici della Cassazione hanno annullato la sentenza di assoluzione con rinvio, chiedendo una nuova istruttoria che accerti se la presenza del veicolo in quella posizione abbia realmente rappresentato un rischio concreto e prevedibile per la circolazione.


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Mediazione civile, niente pausa ad agosto: i termini corrono anche sotto l’ombrellone

Non c’è agosto che tenga per la giustizia complementare: le mediazioni non vanno in ferie. La conferma arriva dal testo dell’art. 6, comma 2, del D.Lgs. 28/2010 – come modificato dalla riforma Cartabia – che esclude qualsiasi sospensione feriale dei termini di durata del procedimento di mediazione. Ne consegue che anche durante il mese più caldo dell’anno i giorni continuano a decorrere regolarmente, rendendo necessario valutare con particolare attenzione il momento del deposito della domanda.

Termini e scadenze: cosa prevede la legge

Dal 1° gennaio 2025, la durata massima della procedura è fissata in sei mesi, con possibilità di proroga – solo per accordo scritto tra le parti – per periodi successivi non superiori a tre mesi. Nelle mediazioni delegate dal giudice, però, la proroga può essere concessa una sola volta, sempre nel limite di tre mesi, portando la durata massima complessiva a nove mesi.

La ratio del legislatore è chiara: una mediazione rapida, efficace, non dilatoria. Per questo motivo, l’art. 8 del decreto prevede che, una volta presentata l’istanza, il primo incontro debba tenersi tra i 20 e i 40 giorni dal deposito, salvo diversa indicazione concordata da entrambe le parti. E qui entra in gioco la complessità del periodo estivo.

Il rischio dell’agosto in aula

Chi presenta una domanda di mediazione a luglio, potrebbe trovarsi convocato in pieno agosto, proprio quando molti professionisti e parti sono in ferie. Se da un lato gli Organismi di mediazione possono sospendere l’attività per brevi periodi durante Ferragosto, dall’altro non è previsto alcun automatismo nella sospensione dei termini, né nella possibilità di rinviare gli incontri senza consenso congiunto delle parti.

La legge è chiara: il rinvio del primo incontro può avvenire solo su richiesta congiunta di entrambe le parti, già formalmente aderenti alla procedura. Questo esclude differimenti unilaterali da parte dell’istante, salvo il ricorrere di gravi e documentati impedimenti oggettivi.

Strategia: meglio dopo le vacanze

In assenza di urgenze processuali, decadenze o prescrizioni imminenti, la scelta prudente è rinviare il deposito della domanda a fine agosto o ai primi di settembre, evitando così l’inconveniente di dover organizzare una mediazione nel periodo meno favorevole dell’anno.

Va ricordato che, secondo la nuova disciplina, il primo incontro non è più un passaggio meramente informativo, ma rappresenta l’inizio effettivo della negoziazione. Dal giugno 2023, infatti, l’incontro deve svolgersi con presenza attiva delle parti, in un clima di buona fede e collaborazione, con una durata minima consigliata di due ore – o l’intera giornata, se le condizioni lo consentono – al fine di arrivare a un accordo immediato o comunque ben impostato.

Mediazione come giustizia sostenibile

Nel nuovo assetto voluto dalla riforma Cartabia, la mediazione si configura sempre più come uno strumento privilegiato di “giustizia sostenibile”, con tempi certi e modalità operative ispirate a efficienza e concretezza. I rinvii tecnici sono ammessi solo per esigenze specifiche: acquisizione di documenti, consulti peritali o necessità di coordinarsi con un notaio per la stipula di un atto pubblico.

Per tutti gli altri casi, l’auspicio resta quello di chiudere la conciliazione già al primo incontro, evitando di trasformare lo strumento della mediazione in un ulteriore passaggio burocratico o in una dilazione processuale mascherata.


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Pratica forense all’INPS: aperte le domande fino al 31 luglio 2025

Roma – C’è tempo fino alle ore 12:00 del 31 luglio 2025 per presentare domanda di partecipazione alla procedura di ammissione alla pratica forense presso l’Avvocatura centrale e le Avvocature territoriali dell’INPS. L’opportunità, destinata ai laureati in Giurisprudenza che intendano intraprendere il percorso di abilitazione alla professione forense, rientra nel più ampio piano formativo promosso dall’Istituto, attivo dal 1° ottobre 2024.

L’iniziativa consente ai candidati selezionati di svolgere la pratica legale direttamente all’interno degli uffici legali dell’INPS, sia a livello centrale che nelle sedi regionali e metropolitane. Sul sito ufficiale dell’Istituto è disponibile l’elenco completo delle sedi, con indicazione dei posti disponibili.

Come presentare la domanda

La domanda deve essere presentata esclusivamente online, una sola per candidato, selezionando un solo ufficio legale tra quelli indicati nel bando. Per accedere alla procedura telematica è necessario autenticarsi tramite uno dei seguenti strumenti digitali:

  • SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale)
  • CNS (Carta Nazionale dei Servizi)
  • CIE 3.0 (Carta di Identità Elettronica)

Il modulo online è disponibile alla pagina dedicata del portale INPS: https://www.inps.it/…/pratica-forense-presso-l-avvocatura-dell-inps

Alla domanda devono essere obbligatoriamente allegati:

  • un curriculum vitae, con l’indicazione di eventuali titoli post lauream;
  • una dichiarazione sostitutiva relativa agli esami sostenuti e le rispettive votazioni.

Requisiti richiesti

Possono candidarsi alla pratica forense presso l’INPS:

  • i cittadini italiani, cittadini di Paesi membri dell’Unione Europea, o cittadini extra-UE in possesso dei requisiti previsti dalla legge 247/2012;
  • i soggetti in possesso dei requisiti per l’iscrizione al Registro dei praticanti avvocati;
  • se già iscritti, coloro che abbiano anzianità di iscrizione inferiore a sei mesi.

Valutazione e graduatorie

Le candidature saranno esaminate da una commissione interna, che formerà una graduatoria in base ai criteri definiti nel bando. Le graduatorie saranno pubblicate sul sito dell’INPS, nella sezione dedicata.

Una pratica di valore pubblico

L’esperienza formativa offerta dall’Istituto rappresenta una valida opportunità per i giovani giuristi che desiderano approfondire il diritto amministrativo, previdenziale e del lavoro in un contesto istituzionale. La pratica forense presso l’INPS consente, inoltre, di operare a stretto contatto con professionisti di alto profilo e di misurarsi con contenziosi e procedimenti complessi, sviluppando competenze applicabili anche nel libero esercizio della professione.

Per ulteriori dettagli o per eventuali chiarimenti, è possibile consultare i bandi pubblicati sul sito istituzionale dell’INPS, dove sono indicati anche i recapiti delle sedi competenti.


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X nel mirino della Francia: aperta un’indagine per ingerenze straniere. Musk contrattacca: “Attacco politico ai nostri diritti”

Parigi – Una nuova frattura si apre nel già teso rapporto tra le autorità europee e le piattaforme digitali americane. Il 9 luglio, la Procura di Parigi ha ufficialmente avviato un’indagine contro il social network X (ex Twitter), di proprietà di Elon Musk, per presunta manipolazione algoritmica a fini di ingerenza straniera. L’accusa, gravissima, è che il sistema di raccomandazione della piattaforma possa essere stato modificato per alterare il dibattito democratico in Francia.

La risposta della società è arrivata puntuale e tagliente: in un comunicato pubblicato dal team degli Affari Governativi Globali, X respinge “categoricamente” le accuse, definendole “politicamente motivate” e una “violazione dei diritti fondamentali”, incluso quello al giusto processo. Secondo il social, le autorità francesi starebbero conducendo un’inchiesta “viziata da pregiudizi ideologici”, pilotata da attori “notoriamente ostili” alla piattaforma.

L’origine dell’inchiesta

Due sono le segnalazioni che hanno innescato l’indagine: la prima è stata presentata dal deputato centrista Eric Bothorel, esperto di cybersicurezza, che ha denunciato “una riduzione della pluralità delle voci” su X, accompagnata da un’evidente opacità nelle modifiche all’algoritmo. La seconda è arrivata, secondo Le Canard Enchainé, da un funzionario della cybersicurezza pubblica, che ha evidenziato l’esplosione di contenuti razzisti, omofobi e anti-LGBTQ nel flusso della piattaforma, con il sospetto che si tratti di un intervento mirato per polarizzare l’opinione pubblica.

Nel mirino ci sono non solo X come entità giuridica, ma anche le “persone fisiche” che ne determinano la gestione, senza però che la procura abbia fatto esplicitamente il nome di Musk. L’inchiesta è affidata all’unità per la criminalità informatica della gendarmeria nazionale.

Le accuse incrociate

Il team di X accusa apertamente Eric Bothorel di essere l’“istigatore” dell’inchiesta e contesta la legittimità degli esperti coinvolti, tra cui David Chavalarias e Maziyar Panahi, accusati di pregiudizio per le loro ricerche precedenti e le critiche pubbliche alla piattaforma. “Un’indagine con un risultato predeterminato non può essere considerata equa”, si legge nel comunicato.

Secondo X, la richiesta delle autorità francesi di ottenere accesso in tempo reale ai dati degli utenti e all’algoritmo costituisce un attacco alla privacy e alla libertà di espressione. Ma i timori delle istituzioni francesi non sembrano infondati: numerosi studi internazionali hanno segnalato anomalie nei contenuti promossi dal social, con un crescente sbilanciamento a favore di narrazioni di destra radicale e populista.

Gli effetti globali dell’algoritmo

Nel luglio 2024, in piena campagna elettorale statunitense, una ricerca dell’Università di Queensland ha rilevato una correlazione tra modifiche algoritmiche su X e un’impennata di visibilità per l’account di Elon Musk e per contenuti filo-Trump. Contemporaneamente, un rapporto del Center for Countering Digital Hate ha documentato come i post di Musk abbiano raggiunto un pubblico doppio rispetto a tutta la pubblicità politica sulla piattaforma, spesso veicolando affermazioni false o fuorvianti.

In Europa, anche la Commissione Europea ha avviato un’indagine formale sull’operato di X, nell’ambito del Digital Services Act, con l’obiettivo di verificare se la piattaforma rispetti le normative sulla trasparenza algoritmica. A preoccupare sono i sospetti che il sistema possa favorire contenuti politici affini a Musk, in particolare di estrema destra, come avvenuto in Germania, dove il miliardario ha espresso pubblicamente sostegno al partito AfD.

Musk e la politica

Il sospetto che Musk stia utilizzando la sua piattaforma come uno strumento politico personale trova nuova linfa nel recente sondaggio pubblicato su X il 4 luglio, in cui il magnate ha chiesto ai suoi follower se fosse il caso di fondare un nuovo soggetto politico: “The America Party”. Il risultato – un plebiscito del 65% di sì – ha lanciato il progetto, con l’obiettivo dichiarato di “ridare libertà agli americani che non vivono più in democrazia”.

Un’iniziativa che allarma chi teme un uso distorto della tecnologia digitale in chiave politica. E che somiglia a un precedente inquietante: quello di Pavel Durov, fondatore di Telegram, arrestato a Parigi nell’agosto 2024 con l’accusa di non aver collaborato nella rimozione di contenuti illeciti sulla sua piattaforma. Durov fu rilasciato solo dopo il pagamento di una maxi-cauzione, innescando una crisi diplomatica tra Francia e Russia.

Libertà o manipolazione?

La difesa di Musk – secondo cui le modifiche servono a “favorire contenuti più informativi e divertenti” – non convince le istituzioni, preoccupate dalla coincidenza sistematica tra aggiornamenti tecnici e vantaggi politici per i profili a lui vicini.

Il caso francese rappresenta un banco di prova cruciale per il futuro dei rapporti tra democrazia, algoritmi e potere privato: chi controlla le piattaforme su cui si forma l’opinione pubblica? E fino a che punto può spingersi un imprenditore digitale nel rimodellare lo spazio del dibattito politico mondiale?


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Milano, boom del mattone di lusso: +57% in tre anni. Ma è il paradiso solo per i milionari

Milano – Mentre l’Italia cresce ancora dello “zero virgola”, Milano corre. Ma lo fa a modo suo: non sulla produttività diffusa o sull’inclusione, bensì sui prezzi degli immobili di lusso, che fra il 2021 e il 2024 sono saliti del 57%, arrivando a sfiorare i 27.000 euro al metro quadro nelle aree più esclusive. Un’accelerazione che ha trasformato la città nella capitale del mattone dorato e nell’epicentro italiano di una trasformazione profonda, guidata non solo dal mercato ma anche da scelte fiscali molto mirate.

Nella zona del quadrilatero della moda, le quotazioni hanno raggiunto i 39.000 euro al metro quadro, oltre sette volte la media milanese e diciotto volte quella nazionale. A fare da traino non è tanto il mercato interno, quanto un flusso crescente di individui ad altissimo reddito che scelgono Milano come nuova residenza fiscale.

La flat tax dei milionari

Dal 2017, l’Italia ha introdotto – sull’esempio di altri paesi europei – un regime fiscale di favore per i cosiddetti “neo-residenti”, ovvero cittadini stranieri o italiani rientrati in patria dopo almeno nove anni trascorsi fiscalmente all’estero. Il regime, pensato per attrarre capitali e investitori, prevede il pagamento di una tassa piatta di 100.000 euro l’anno (diventati 200.000 dal 2024) su tutti i redditi prodotti all’estero, indipendentemente dalla loro entità.

È il modello applicato, ad esempio, al caso più celebre: Cristiano Ronaldo, che al momento del suo trasferimento in Italia nel 2018, pur avendo guadagni esteri stimati in oltre 100 milioni di euro, ha pagato al fisco solo 100.000 euro, evitando di versare oltre 43 milioni in imposte secondo il regime ordinario.

Il vantaggio, però, non si limita all’aliquota ridotta: i “neo-residenti” godono anche dell’esenzione totale da imposte su successioni, donazioni e sugli investimenti esteri, con effetti a cascata su un mercato immobiliare già sotto pressione.

L’effetto “Ronaldo” sul mattone

Secondo Marco Tirelli, uno dei principali operatori del settore immobiliare di pregio, l’aumento dei prezzi nel segmento più alto è stato tre volte superiore a quello degli immobili di fascia media. Non è un fenomeno isolato: dal 2018 al 2023 il regime ha attratto in Italia almeno 4.500 contribuenti ad altissimo reddito, di cui circa due terzi si sono stabiliti a Milano.

Il dato più impressionante: il 40% delle compravendite di case oltre il milione di euro in Italia avviene proprio nel capoluogo lombardo. E la domanda di residenze di lusso, alimentata da questi nuovi contribuenti, supera di gran lunga l’offerta.

«La scarsità dell’offerta, unita a una domanda selezionata e potente, sta creando un’inflazione immobiliare che impatta non solo sul lusso, ma anche su fasce medio-alte e persino popolari», osserva Ingrid Hallberg, altra esperta del mercato. Il risultato? Un effetto domino che esclude progressivamente le famiglie “normali” dal centro città e alimenta un meccanismo di esclusione urbana che preoccupa anche la magistratura.

Un paradosso fiscale e sociale

A tutto questo si aggiunge un altro paradosso. Il regime di favore non è riservato solo ai super-ricchi: esistono incentivi fiscali (con esenzioni fino al 70% dell’imponibile) anche per italiani di medio-alto reddito rientrati dopo due o quattro anni all’estero. Nel 2023, sono stati oltre 128.000 i beneficiari con redditi medi da 112.000 euro annui, molti dei quali concentrati – ancora una volta – a Milano.

Il problema, secondo molti osservatori, è che questi meccanismi premiano chi le tasse può permettersi di evitarle legalmente, mentre milioni di lavoratori e pensionati italiani – spinti in scaglioni Irpef più alti dall’inflazione – pagano di più con potere d’acquisto in calo.

«È il riflesso di un sistema che – nel tentativo di attrarre ricchezza – rischia di alimentare le disuguaglianze interne e destabilizzare l’equilibrio sociale ed economico delle città, come Milano», avverte un’analisi incrociata tra dati fiscali e dinamiche urbane.

La Milano dei due mondi

Milano, insomma, è oggi una città divisa in due: da un lato quella che conquista i nuovi milionari globali, dall’altro quella che fatica ad arrivare a fine mese. Un modello vincente nel breve periodo, forse. Ma che solleva interrogativi strutturali sul futuro dell’accessibilità abitativa, della coesione sociale e della reale sostenibilità della “capitale economica d’Italia”.


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Riforma della giustizia, il governo accelera sulla separazione delle carriere. Ma le carceri restano al palo

Roma – Una giornata storica per il centrodestra e per il governo guidato da Giorgia Meloni. Al Senato, infatti, è atteso il primo via libera in seconda lettura alla riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, uno dei cavalli di battaglia ideologici della coalizione. Un provvedimento che, secondo molti osservatori, segna l’approdo definitivo del sogno berlusconiano mai realizzato fino ad oggi: “il pubblico ministero che entra con il cappello in mano nell’ufficio del giudice”, come sosteneva il Cavaliere.

La riforma è stata costruita in tempi record: poco più di un anno dalla prima approvazione in Consiglio dei ministri, ed è destinata a diventare la bandiera della legislatura. Dopo il passaggio alla Camera e il ritorno in Senato – previsti solo per un sì o un no, senza possibilità di emendamenti – sarà verosimilmente sottoposta a referendum costituzionale nella primavera del 2026, visto che difficilmente il testo raccoglierà la maggioranza dei due terzi.

Il cuore della riforma è la modifica della Costituzione per stabilire due carriere separate fin dall’inizio del percorso professionale: una per i giudici, una per i pubblici ministeri. È previsto anche un doppio Consiglio Superiore della Magistratura, con competenze distinte per ciascun ambito, e la nascita di un’Alta Corte disciplinare per giudicare i magistrati ordinari, sottraendo questa funzione al CSM. Le nuove norme dovranno essere attuate entro un anno dall’entrata in vigore.

Una rivoluzione istituzionale che però avanza in un paese che sembra disinteressato al tema, più preoccupato dal caro vita e dalle emergenze sociali che dalla struttura costituzionale della giustizia. E non è un caso che, mentre sul fronte delle riforme si corre spediti, su quello della realtà quotidiana – in particolare sulle condizioni del sistema carcerario – il passo del governo resta incerto, se non fermo.

Nel Consiglio dei ministri successivo al voto sul disegno di legge costituzionale, è atteso l’annuncio del cosiddetto piano carceri, che promette 10mila nuovi posti e sconti di pena per buona condotta. Ma il contesto è tutt’altro che incoraggiante: le precedenti misure si sono rivelate inefficaci o addirittura mai attuate. Dal mini-piano da 384 posti attraverso prefabbricati nei cortili degli istituti penitenziari, fino al decreto per il reinserimento in comunità dei tossicodipendenti senza fissa dimora, il bilancio resta desolante.

La contraddizione è evidente: una riforma della Costituzione approvata in tempi record, mentre i cantieri per nuove strutture penitenziarie non decollano. Un paradosso che rende ancora più evidente la “giustizia a due velocità” evocata da molti analisti.

In questo contesto, l’impatto simbolico della riforma prevale su quello pratico. È il segnale di un cambio di passo politico più che una risposta a esigenze urgenti della macchina giudiziaria. Eppure, la cronaca giudiziaria continua a smentire le narrazioni ideologiche: a Milano la procura indaga sull’amministrazione di centrosinistra, come ieri aveva indagato su figure del centrodestra. A Palermo si giudica Salvini nel rispetto delle garanzie, a Bibbiano si smontano tesi accusatorie. Il sistema, nel suo equilibrio tra autonomia e indipendenza, continua a funzionare.

Ma il governo punta a dare una forma normativa a una visione politica, in cui la giustizia non è solo un potere dello Stato, ma anche un campo di battaglia per ridefinire i rapporti tra toghe, politica e opinione pubblica.


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