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Arc, arriva il browser rivoluzionario che cambia il nostro modo di navigare online

Creare un nuovo browser non è semplice, soprattutto perché quelli già affermati uccidono i nuovi arrivati. Chrome e Safari, insieme possiedono più dell’83% del mercato. Agli altri rimangono soltanto le briciole.

Forse è anche un po’ colpa nostra e delle nostre abitudini, ma emergere nel mondo dei browser sembra una battaglia persa in partenza, anche per colossi come Microsoft.

Ebbene, in questo scenario troviamo Arc, che per Bloomberg è «il miglior browser uscito nell’ultimo decennio» e «permette di ripensare le basi di come usiamo il Web». Arc è appena diventato disponibile per tutti in versione Mac e iOS, dopo essere stato accessibile soltanto su invito.

Ma quali sono le motivazioni alla base di una scelta del genere? E soprattutto, su cosa puntare per riuscire ad emergere e a distinguersi?

Sulla privacy, su una maggior libertà, su un minor tracciamento, su una minor censura, come nei casi di DuckDuckGo, Tor e Firefox Focus? No, Arc punta ad essere «un sistema operativo per Internet», con lo scopo di reinventare e stravolgere il nostro rapporto con la Rete.

Arc è stato rilasciato il 19 aprile 2022, si basa su Chromium (della stessa famiglia di Chrome) ed è compatibile con tutte le estensioni del browser Google. Inoltre, utilizza Google come motore di ricerca.

Il nuovo browser è stato sviluppato da The Browser Company, una startup con sede a New York – non nella Silicon Valley, e questa è una gran bella differenza rispetto ai suoi rivali. The Browser Company è stata fondata da tre nomi importanti nella storia di Internet, ovvero da Darin Fisher, Josh Miller e da Hursh Agrawal.

Leggi anche: DuckDuckGo: l’alternativa a Google che non raccoglie i nostri dati

The Browser Company è nata nel 2020, e ha raccolto 18 milioni di dollari di finanziamenti da circa una ventina di diversi investitori. Si tratta di un ottimo biglietto da visita, ma non basta: perché Arc sta avendo tanto successo, e perché piace tanto agli addetti ai lavori?

Il motivo principale è che prova a smuoverci dalle nostre abitudini. Infatti, è un browser che sta tentando di cambiare completamente il nostro rapporto con la Rete, ma in maniera positiva: addio alla tab in orizzontale e benvenuti spazi in verticale.

Maggiori disponibilità, inoltre, di strumenti per fare più cose insieme, come videochiamate o prendere appunti, tutto durante la navigazione, ridisegnando tutti i siti seguendo i propri gusti personali. Questa funzione si chiama Boost, ovvero Potenziamento, e consente di cambiare l’aspetto grafico di tutti i siti o soltanto una parte, cambiando il font e le sue dimensioni, nascondendo pezzi di pagine oppure mettendone in evidenza altri.

Dunque, una funzione che consente di adattare la navigazione alle proprie esigenze personali, e non viceversa. Non è una cosa che siamo abituati a fare, e forse all’inizio potremmo combinare dei pasticci: ma si potrà tornare indietro molto facilmente.

Alla base di tutto questo, comunque, troviamo una filosofia che sta prendendo sempre più piede in questi anni, ovvero la prospettiva di una tecnologia meno invadente e più trasparente.


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A Catania un avvocato bloccato dagli incendi: il Giudice rigetta l’istanza

Il 25 luglio 2023 Catania è stata colpita dallo stato di emergenza, a causa degli innumerevoli incendi che si stanno verificando sul territorio.

«Massima solidarietà al collega per quanto a lui accaduto nel corso dell’udienza del 25 luglio», leggiamo nella pagina Facebook della Camera Penale di Catania “Serafino Famà”.

Un avvocato penalista, infatti, è dovuto fuggire di casa insieme al figlio minore, a causa di un incendio che divampava proprio nella zona in cui abitava.

L’uomo, dunque, ha chiesto ad un collega presente in aula di segnalare al Tribunale la sua assenza, dovuta al rogo, e dunque l’impossibilità di assistere l’imputato. Tuttavia, il giudice ha rigettato l’istanza, poiché «non documentata e non attestante un impedimento assoluto».

Leggiamo in una nota firmata da Antonino Guido Distefano, il presidente e Santi Pierpaolo Giacona, consigliere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania: «Oltre ad apparire surreale, esprime tutta la sua gravità in ognuno degli aspetti in cui la si consideri».

«Appare raccapricciante», prosegue la nota, «la superficialità con la quale è stata sottovalutata una circostanza drammatica che coinvolgeva l’incolumità personale di un avvocato e ancora prima, di un uomo e della sua famiglia. Indigna poi, non solo il Coa, ma l’intera classe forense, la manifesta mortificazione del diritto di difesa consumatori con il provvedimento in questione».

Il Coa il Catania esprime tutta la sua solidarietà al collega «colpito da un drammatico evento e penalizzato da un provvedimento abnorme e ingiusto. L’istanza di rinvio riassumeva tutti gli elementi della forza maggiore e, come ovvio, non documentabile perché riguardava un avvenimento che si stava svolgendo in quel momento».


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Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione per l’istruzione, la scienza e la cultura delle Nazioni Unite (Unesco), vietare l’utilizzo degli smartphone a scuola aiuta a migliorare l’apprendimento, a ridurre le distrazioni e a proteggere studentesse e studenti dal cyberbullismo.

L’Unesco ha infatti lanciato un appello a tutti i governi del mondo, al fine di vietare l’uso degli smartphone in classe, come già avviene nei Paesi Bassi e in Francia.

Dichiara Audrey Azoulay, direttrice generale Unesco: «Le connessioni online non possono sostituire l’interazione umana. La rivoluzione digitale ha un potenziale incommensurabile, ma così come sta venendo regolata nella società è necessario regolarla anche nell’educazione. Il suo uso deve essere finalizzato a migliorare le esperienze di approfondimento e favorire il benessere di studenti e insegnanti, non a loro discapito».

Per compilare il Global Education Monitor Report 2023, Unesco ha deciso di analizzare 200 sistemi educativi in tutto il mondo, per dimostrare in che modo l’utilizzo eccessivo degli smartphone contribuisca alla riduzione del rendimento scolastico, a squilibri emotivi e, in generale, ad un impatto negativo sull’apprendimento.

La maggioranza delle ricerche che sostengono che le tecnologie, invece, apportino un valore aggiunto al sistema dell’istruzione, sono state realizzate grazie ai finanziamenti delle aziende educative private che cercano di fare pubblicità per riuscire a vendere i propri prodotti.

Tale tendenza, secondo il rapporto, desta preoccupazione, che sia per la salute educativa delle nuove generazioni, in quanto privilegia il profitto, a discapito dell’efficacia e della completezza educativa, sia perché sostiene un’individualizzazione crescente delle persone, trascurando la dimensione sociale e il senso dell’istruzione.

Le piattaforme educative digitali, inoltre, contribuirebbero ad aumentare il gap educativo e le diseguaglianze sociali, poiché miliardi di persone nei paesi a basso reddito vengono escluse da tali servizi, essendo anche ecologicamente impattanti.

Dunque, sottolinea Unesco, i governi di tutto il mondo dovranno delineare obiettivi e principi chiari, nei quali delimitare l’utilizzo delle tecnologie digitali nel mondo dell’educazione, al fine di garantire un loro utilizzo benefico, per evitare qualsiasi tipo di danno a studentesse e studenti.

Tutelare la sicurezza digitale delle persone più giovani, comunque, è anche un modo indiretto per riuscire a proteggere la democrazia, garantendo sempre il rispetto dei diritti umani, evitando violazioni della privacy causate da attacchi informatici oppure riducendo l’esposizione al cyberbullismo così come all’odio online.

L’Unesco, per farlo, ha citato la Francia, che dal 2018 ha deciso di vietare l’utilizzo degli smartphone in classe, e i Paesi Bassi, che lo vieteranno dal 2024. Viene citata anche la Cina, che limita l’utilizzo degli strumenti digitali a scuola per il 30% del tempo di insegnamento, imponendo delle pause regolari dallo schermo.

L’Unesco, con questo appello, non vuole vietare l’utilizzo della tecnologia nell’educazione. Anzi, il Global education monitor report 2023 evidenzia anche il ruolo fondamentale della tecnologia al fine di garantire una continuità a livello educativo delle condizioni di emergenza, come per la recente pandemia.

Il punto, in questo caso, è semplicemente spronare i governi ad agire in tempo, per poter porre delle regole e dei limiti che riducano le diseguaglianze, garantendo un utilizzo della tecnologia collegato ad una visione dell’istruzione incentrata sugli esseri umani.


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Pratica forense: diritto al riconoscimento del tirocinio dopo la cancellazione dall’albo

Se un avvocato praticante decide di cancellarsi dall’albo al termine della pratica forense avrà comunque il diritto a vedere riconosciuto il suo tirocinio, nonostante non abbia presentato una richiesta specifica. Il rilascio del certificato non presuppone l’istanza da parte dell’interessato.

Lo chiarisce il CNF, con la sentenza 59 del 27/03/2023, dopo aver accolto il ricorso di una laureata in giurisprudenza che si era cancellata dall’elenco e che, a distanza di anni, aveva richiesto il riconoscimento della pratica forense per l’accesso all’esame di Stato.

Il COA di Rieti aveva respinto la richiesta, visto che la ricorrente aveva svolto la pratica forense tra il 2011 e il 2014, ma aveva scelto di cancellarsi dal registro dei praticanti «senza richiedere alcuna certificazione in merito all’attività svolta».

Risultava, inoltre, che aveva svolto «compiutamente e proficuamente i primi 3 semestri di tirocinio, sui 4 all’epoca previsti dalla normativa». L’aspirante avvocato, contro questa delibera, ha proposto ricorso, sostenendo che si doveva applicare la normativa previgente, salvo la riduzione del periodo del tirocinio a 18 mesi (art. 48 legge 247/2012).

Il rilascio del certificato, con valore di mera attestazione pratica, rappresenta un atto vincolato in funzione certificatoria.

Precisa il CNF, che alla scadenza del periodo che prevede la legge, non viene conseguito automaticamente il rilascio del certificato di pratica compiuta, «ma al fine occorre un’attività di verifica che la legge affida al COA, nell’ambito dei compiti di vigilanza e controllo di un corretto ed efficace tirocinio forense (art. 29, comma 1, lett. C), della legge n. 247/2012, specificati nell’art. 8 DM n. 70/2016».

Il COA avrebbe espletato l’attività convalidando i 3 semestri di tirocinio svolti, «necessari ai fini del completamento del periodo ai sensi della legge 247/2012». Al termine del periodo del tirocinio, è anche vero aveva formulato la propria istanza di cancellazione dal Registro, senza richiedere comunque il rilascio del certificato di pratica compiuta.

In ogni caso, «la nuova disciplina dettata dal DM n.70/2016, applicabile al caso in esame con riferimento al procedimento di rilascio del certificato, non prevede più la richiesta dell’interessato ai fini del rilascio del certificato, ma onera il COA, all’esito delle verifiche svolte nell’ambito dei compiti di vigilanza e controllo, al rilascio del certificato di compiuta pratica (art.8, comma 6)».

Il DM 70/2016 «non poteva trovare applicazione nel gennaio 2014, in quanto è entrata in vigore solo nel 2016», ed era «vigente nel momento della richiesta della Dott.ssa».

Dunque, la cancellazione non avrebbe interrotto il tirocinio già compiuto, dopo la convalida dei tre semestri da parte del COA, che avrebbe «dovuto rilasciare o meno il certificato di compiuta pratica a norma del CM 70/2016».

Inoltre, la ricorrente lamenta l’applicazione illegittima dell’art. 17, comma 10, legge 247/2012, che non può essere applicato prima della sua entrata in vigore. Spiega il CNF che il termine dei sei anni per richiedere il certificato deve considerarsi in riferimento ai tirocini della nuova disciplina.

La ricorrente, dunque, ha il diritto ad ottenere il certificato di compiuta pratica, pari a tre semestri.


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concorso antonio francesco rosa

Premio Avv. Francesco Maria Rosa: premio di 3.000 euro per avvocati e praticanti under 38

L’Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati, al fine di promuovere lo studio, l’approfondimento dei problemi giuridici e l’accrescimento professionale, ha annunciato la seconda edizione del premio intitolato alla memoria dell’Avv. Antonio Francesco Rosa, la cui eredità giuridica e umana ha segnato profondamente l’operato dell’Unione.

Per poter partecipare al concorso bisognerà inviare un elaborato, accompagnato da un video-intervento di presentazione sul tema:

L’introduzione dell’intelligenza artificiale nella professione forense appare un passaggio ormai prossimo, con il sempre più frequente ricorso ad un metodo induttivo e statistico. Va tuttavia considerata un’importante dissonanza metodologica dovuta alla fondamentale diversità tra il metodo analitico utilizzato dall’intelligenza artificiale e quello dialettico utilizzato dal modello giuridico “tradizionale”. Poiché il diritto deve risolvere i conflitti attraverso scelte che implicano analisi complesse e solo parzialmente riconducibili all’attività computazionale, spesso richiedendo profonda riflessione e capacità decisionale in situazioni incerte e ambigue, appare necessario individuare dei principi e dei percorsi attraverso i quali l’utilizzo delle nuove tecnologie possa essere di supporto e complemento all’irrinunciabile ed insostituibile ragionamento giuridico dei nostri giorni”.

Il video-intervento non dovrà superare più di dieci minuti e non si potrà inviare più di un video-intervento.

Potranno partecipare al concorso avvocate/i e praticanti con meno di 38 anni, iscritti ad albi o registri degli Ordini territoriali del Triveneto. L’elaborato e il video-intervento possono essere presentati singolarmente o con un gruppo di massimo cinque componenti.

Si prevede l’assegnazione di un premio di 3.000 euro per il miglior elaborato, e per individuarlo verrà istituita una Commissione nella quale sono presenti i componenti dell’Ufficio di Presidenza dell’Unione Triveneta.

I singoli candidati e i gruppi dovranno far pervenire entro e non oltre il 15/11/2023 i propri elaborati e i video-interventi. Nell’elaborato dovrà essere presente un abstract e dovrà essere accompagnato da un pdf contenente i dati anagrafici, il consenso al trattamento dei dati e la data d’iscrizione all’Ordine degli Avvocati.

L’invio avverrà con modalità telematiche, con sistemi di cloud storage quali WeTransfer o Dropbox, all’indirizzo PEC unione@pec.avvocatitriveneto.it.

Gli esiti verranno successivamente pubblicati sul sito dell’Unione e sui social, e le/i vincitrici/ori verranno contattati personalmente.

Per ulteriori informazioni, cliccate qui sopra per leggere il bando completo.


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I problemi del nuovo marchio di Twitter

Agli Avvocati piace l’innovazione?

logo twitter x elon musk

I problemi del nuovo marchio di Twitter

Elon Musk ha già cominciato a sostituire sia il nome che il logo della piattaforma, ovvero, al posto di un uccellino azzurro, ora troveremo una X. Musk ha detto che il logo è provvisorio, anche se ormai è comparso dappertutto.

Si tratta di un X essenziale, senza particolari abbellimenti, in bianco e nero. Il nuovo logo è stato scelto con un sondaggio rapido ed è stato proposto da un utente, Sawyer Merritt.

Nome e logo potrebbero comunque portare dei grossi problemi per Musk e per la sua azienda. Per alcuni esperti, il marchio X, potrebbe comportare delle complicazioni di tipo legale, in particolar modo se il logo dovesse restare quello di ora, ovvero, un simbolo copiato da caratteri pre-esistenti e di proprietà di altre persone.

Aggiungiamo anche che cancellare del tutto un marchio importante come Twitter potrebbe far perdere all’azienda dai 4 miliardi ai 20 miliardi di dollari.

Diversi esperti hanno fatto notare che ci sono altre aziende, come Microsoft e Meta, concorrenti di Twitter, che hanno legami con la X, e questo potrebbe condurre a delle grandi battaglie legali. In generale, ogni azienda che possiede un marchio collegato alla lettera X potrebbe decidere di far causa a Twitter (e negli Stati Uniti ce ne sono centinaia).

Un avvocato statunitense spiega che è veramente difficile registrare un marchio a partire da una lettera singola, soprattutto se utilizzata tanto come la X.

Alcuni sostengono che il nuovo logo sia molto simile alla X registrata in Special Alphabets 4, ovvero uno dei font di proprietà di Monotype, che fa parte del catalogo Special Alphabets e che può essere scaricato online. Effettivamente, Merrit dice di aver trovato il carattere della X online.

Leggi anche: Elon Musk vuole trasformare Twitter in una «super app

Lo scorso ottobre, Musk aveva comprato Twitter per 44 miliardi, più di quanto valesse effettivamente il social, ormai in difficoltà da qualche anno. Di recente, aveva fatto sapere che le cose non stavano affatto migliorando e che gli inserzionisti sono dimezzati.

Anche altre aziende concorrenti, come quelle che possiedono Facebook e Google hanno cambiato il nome, rispettivamente in Meta e Alphabet, ma senza cambiare il nome ai propri prodotti.

L’operazione di Musk non stupisce tantissimo, visto che la quasi totalità delle novità introdotte su Twitter sono riconducibili alla sua impulsività, e non a strategie ponderate. Musk, comunque, dichiara che la X è una lettera che da sempre gli è piaciuta (si pensi a SpaceX, la sua azienda aerospaziale).


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Agli Avvocati piace l’innovazione?

L’avvocatura, per quanto riguarda il panorama delle professioni giuridico/economiche e degli studi medio-piccoli, è quella che soffre meno l’innovazione, visto che ci pensa poco o per nulla.

Sette studi legali su dieci investono in tecnologie per un massimo di 8.800 euro; si pensi che gli studi multidisciplinari ne investono 25.060, i consulenti per il lavoro 11.950 e i commercialisti 11.390.

Se ampliamo il concetto di innovazione ai servizi e alla governance interna, negli studi legali non troviamo innovazione né per quanto riguarda la tipologia di servizio né nella modalità di erogazione.

Nel corso degli ultimi dieci anni, nonostante il mondo professionale abbia attraversato delle importanti trasformazioni, un terzo degli studi non ha affrontato alcun progetto di cambiamento.

Dichiara Claudio Rorato dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale: «Le realtà più grandi stanno cambiando passo, mentre la media degli studi non ha ancora avviato processi di rinnovamento, a fronte del nuovo panorama di macroambiente e del mercato: il cambiamento continua ad avvenire principalmente per obblighi di legge o contingenze straordinarie, come la pandemia e la crisi della supply chain ed energetica».

Per Federico Iannella, Ricercatore dell’Osservatorio, «i pericoli percepiti sono trasversali a tutte le professioni, in primis l’avanzata delle piattaforme che erogano servizi legati alle attività tradizionali e le difficoltà nel reperire personale».

Emerge anche «un terzo pericolo, evidenziato da commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari: le difficoltà a gestire il passaggio generazionale. Gli avvocati evidenziano invece maggiormente timori legati alla scarsità di risorse finanziarie per gli investimenti».

Gli studi «innovano poco il portafoglio di servizi e usano poco le tecnologie per gestirne la leva relazionale: di fronte a un pericolo percepito, è ridotta la capacità di reagire attraverso la qualità del servizio o l’innovazione del portafoglio servizi per fidelizzare la clientela».

Relazione tra Avvocati e nuove tecnologie

La relazione degli avvocati con le nuove tecnologie si basa sulla diffidenza e sulla paura, ma soprattutto sulla scarsa comprensione del valore del dato in quanto elemento strategico di sviluppo.

Secondo il 48% degli avvocati, il supporto tecnologico migliora l’apporto intellettuale del professionista, ma soltanto il 42% pensa che le tecnologie migliorino le capacità di analisi. Il 7% ha il timore di venire completamente sostituito, mentre il 3% non sa che cosa rispondere.

Una gran percentuale di avvocati e commercialisti dichiara che non esiste progettualità di analisi dei dati, mentre il 24% dice di realizzarla, che sia con risorse interne o affidandosi a partnership. Gli obiettivi del lavoro di analisi sono il miglioramento della produttività, la riduzione dei costi, la creazione di nuovi business, il miglioramento del supporto alle decisioni e la distinzione nel mercato di riferimento.

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Tasselli molto critici sono il gestire la conoscenza e le iniziative di sviluppo per le risorse junior appena entrate nello studio. Si tratta di una contraddizione di una categoria che rifiuta le assimilazioni con l’impresa, ma senza valorizzare il proprio capitale.

Il 29% degli Studi non fa formazione ai professionisti, e il 25% dichiara di auto-formarsi. Per il 27% basta affidarsi ai senior.  Le difficoltà che si incontrano nella gestione della conoscenza sono il poco tempo a disposizione, i costi delle tecnologie e riuscire a reperire documentazioni e informazioni.

Per condividere i saperi, si utilizzano i seguenti strumenti organizzativi: riunioni informative, brainstorming, centro studi, condivisione delle best practices, individuare esperti e tutor per le figure junior.

Il 67% degli avvocati dichiara di condividere strategie, obiettivi e risultati: in tale contesto avviene la “crisi della professione”, ovvero un’altissima mancanza di appeal per le persone più giovani, vista la bassa retribuzione, la difficoltà nell’intraprendere carriere strutturate, poco equilibrio tra vita privata e lavoro, poche garanzie sulla solidità degli studi e poca conoscenza delle attività che si svolgono negli studi.

Tra i professionisti, gli avvocati sono quelli che più temono l’esistenza di piattaforme in grado di erogare servizi standardizzati, con il timore di non avere abbastanza risorse per poter investire in tecnologie evolute.

Sempre presente l’inadeguatezza nella gestione del capitale umano, visto il 23% che ha il timore di non riuscire a reperire competenze e personale, al fine di supportare il percorso di crescita e la gestione del passaggio generazionale.

Per gli avvocati, i cambiamenti maggiormente impattanti nel corso degli ultimi dieci anni sono stati la dematerializzazione dei documenti, lo smart working, l’introduzione di tecnologie considerate “troppo” evolute, la promozione dell’efficienza e la relazione con i clienti, collaborazioni, alleanze ed empowerment del personale.


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Se l’uomo ha fornito il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, questo non potrà in alcun modo essere revocato dopo la fecondazione.

La Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’irrevocabilità del consenso fornito dall’uomo in seguito alla fecondazione dell’ovulo. Con la sentenza 161/2023 la questione è stata ritenuta non fondata, citando l’art. 6, comma 3, ultimo periodo della legge 40/2004.

Tale norma rende possibile la richiesta dell’impianto dell’embrione non soltanto a distanza di tempo, ma a anche se viene meno il progetto della coppia. Nello specifico, una donna aveva richiesto l’impianto di un embrione crioconservato, ma nel frattempo si era separata dal coniuge.

Quest’ultimo si era opposto, andando a ritirare il proprio consenso prestato in precedenza, ritenendo di non essere soggetto all’obbligo di divenire padre. Il giudice ha dunque sollevato la questione della costituzionalità in relazione alla norma che va a stabilire l’irrevocabilità del consenso.

Riconoscendo che la norma «si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite “scelte tragiche”, in quanto caratterizzate dall’impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie», questa sentenza sottolinea come l’irrevocabilità del consenso sembra essere funzionale, salvaguardando gli interessi preminenti.

Per la donna, accedere alla PMA comporta «il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante rivestimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni».

Il corpo e la mente dalla donna, dunque, sono interessanti da un legame indissolubile, che termina nella speranza di generare un figlio, dopo l’impianto dell’embrione nell’utero. «A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale».

«Se è pur vero», inoltre, «che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità».

Nella sentenza si conclude che «ove si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione», è ragionevole la compressione della libertà di autodeterminazione dell’uomo rispetto alla prospettiva della paternità.

La ricerca di un diverso punto di equilibrio tra le varie esigenze in gioco spetta soltanto al legislatore.


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Alle 10:25 di domenica 23 luglio 2023 è morta Gloria, una paziente oncologica di 78 anni, residente in Veneto, che aveva richiesto l’accesso al suicidio assistito, ovvero l’auto-somministrazione di un farmaco letale.

In Italia Gloria è stata la seconda persona ad ottenere la verifica dei requisiti personali e le direttive sul farmaco da assumere senza passare per un tribunale, come invece è successo nei casi di Antonio e di Federico Carboni.

Si tratta della prima persona morta con questa pratica: nel caso di Stefano Gheller, per esempio, non è stato necessario ricorrere ad un tribunale, anche se l’uomo aveva scelto di attendere, ed è quindi ancora vivo.

Gloria è morta nella sua casa, assistita dal medico anestesista Mario Riccio, che nel 2006 permise a Piergiorgio Welby di morire, ponendo fine al trattamento sanitario che lo stava tenendo in vita (Welby era affetto da distrofia muscolare).

Tra tutte le regioni italiane, il Veneto è quella che più ha posto attenzione sul tema. Infatti, è stata la prima regione a completare la raccolta delle firme per potersi dotare di una legge a livello regionale, in grado di regolare tempistiche e modalità per ricorrere al suicidio assistito, e a breve comincerà il procedimento per giungere alla discussione della legge.

In Italia non è ancora presente una legge nazionale per quanto riguarda il fine vita. Ricorrere al suicidio assistito, infatti, è possibile soltanto grazie ad una sentenza del 2019 della Corte Costituzionale (il caso Dj Fabo).

Il caso di Gloria è importante anche perché l’Asl che ha valutato il caso ha riconosciuto i farmaci antitumorali mirati che assumeva la donna, e che senza i quali sarebbe morta, come trattamenti di sostegno vitale, dunque paragonati ad un ventilatore o respiratore automatico.

Essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale fa parte dei quattro requisiti necessari al fine di accedere al suicidio assistito in Italia. I requisiti, sostanzialmente, dicono che la persona che fa richiesta di suicidio assistito debba essere capace di prendere decisioni consapevoli e libere, deve essere affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze psicologiche e fisiche intollerabili e che sia tenuta in vita, appunto, da trattamenti di sostegno vitale.


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265 le multe fatte alle aziende italiane per aver violato le norme in materia di privacy presenti all’interno del Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati approvato nel 2018. Siamo al secondo posto dopo la Spagna, con le sue 651 sanzioni.

La più recente sanzione comminata da Madrid interessava Google, con una multa da 10 milioni, poiché aveva ceduto illegittimamente dati a terzi e per non aver rispettato il diritto all’oblio. Dopo l’Italia troviamo la Germania con 148 sanzioni e la Romania, con le sue 144 multe.

Al fine di valutare il reale impatto del Gdpr, oltre al numero delle violazioni per mancato rispetto della privacy, è necessario valutare anche l’importo che hanno dovuto pagare.

Le aziende più colpite del gruppo Meta sono Facebook e WhatsApp. La più recente, che è anche una tra le più significative, risale al 22 maggio 2023, quando il garante per la privacy irlandese ha condannato Facebook al pagamento di 1,2 miliardi di euro per poter chiudere una causa decennale, in relazione al trasferimento illegale dei dati dei cittadini europei sui server statunitensi.

La seconda sanzione più importante è stata invece comminata al colosso dell’e-commerce Amazon. Le autorità del Lussemburgo avrebbero condannato l’azienda al versamento di 746 milioni.

La violazione maggiormente diffusa, che ha riguardato 541 sanzioni, è relativa all’art. 5 comma 1 e all’art. 6 del Gdpr: si tratta di quelle parti che vanno a definire in che modo raccogliere e trattare le informazioni personali ma anche la correttezza del loro utilizzo.


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