Tecnologie, nel 2025 investimento di 1,4 miliardi di € in deep tech e nell’espansione delle strategiche

Il prossimo anno il Consiglio europeo per l’innovazione (CEI), che fa parte del programma di ricerca e innovazione dell’UE Orizzonte Europa, sosterrà la ricerca europea in deep tech e le imprese start-up ad alto potenziale con 1,4 miliardi di €.

Il programma di lavoro 2025 del CEI, adottato oggi dalla Commissione, prevede un aumento degli investimenti di quasi 200 milioni di € rispetto al 2024.

Iliana Ivanova, Commissaria per l’Innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e i giovani, ha dichiarato: ”Il Consiglio Europeo per l’innovazione si è rivelato fondamentale per il supporto alle innovazioni pioneristiche da parte dell’UE. Nel 2025 il CEI promuoverà le tecnologie deep tech dell’UE grazie a risorse ancora più consistenti, che ammontano a 1,4 miliardi di € provenienti da Orizzonte Europa, il nostro programma di ricerca e innovazione. Il sostegno mirato, in particolare attraverso l’invito alle iniziative STEP, contribuirà a colmare le carenze critiche di finanziamento e a costruire un ecosistema dell’innovazione più solido e resiliente in Europa.

Oltre a un bilancio più consistente, il programma di lavoro 2025 apporta diversi miglioramenti, tra cui un miglior accesso a finanziamenti azionari per scale-up attraverso il regime “scale-up” della piattaforma  per le tecnologie strategiche per l’Europa del CEI (STEP), introdotto in virtù del regolamento STEP. Previsti anche altri miglioramenti, basati sulle raccomandazioni del Comitato CEI.


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Le giuriste ADGI in congresso: interventi normativi mirati e senza indugio per le pari opportunità

Il Congresso Nazionale dell’Associazione Donne Giuriste Italia (ADGI), in corso di svolgimento a Roma fino al 30 ottobre 2024, è un momento cruciale per affrontare il tema dell’incidenza del ruolo delle professioni legali sull’economia, sulla società e sullo stato di diritto, con particolare attenzione alla trasversalità delle politiche di genere.

Nel corso delle giornate del congresso, esponenti di alto profilo delle istituzioni politiche, dell’avvocatura e della magistratura si confronteranno sulle conseguenze economiche della mancanza di pari opportunità. In particolare, verranno esaminati gli impatti sul tessuto economico-sociale e le soluzioni necessarie per colmare il divario di genere.

L’avv. Conti ha ribadito il forte impegno dell’ADGI nella tutela dei diritti, sia dentro che fuori le aule giudiziarie, con un focus sui diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali: “Non dobbiamo perdere l’occasione offerta dal momento storico in cui le pari opportunità hanno acquisito un ruolo centrale – spiega la Presidente nel suo intervento di apertura dei lavori congressuali – Partendo dalla nostra categoria, prevalentemente di professioniste, abbiamo consegnato le proposte per il conferimento degli incarichi nel rispetto delle pari opportunità, ciò che rappresenta un investimento a costo zero; e per la deducibilità dei costi per le mamme, per la cura dei figli. Ora occorrono atti normativi mirati e senza indugio, così come è stato nel passato quando le donne che ci hanno proceduto hanno esercitato per la prima volta il diritto di voto, esteso loro con decreto legislativo del 1 febbraio 1945”.

Parole di plauso, nell’indirizzo di saluto del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, “per l’impegno che l’associazione Donne Giuriste Italia profonde nell’intraprendere percorsi di politiche di genere volti a realizzare le pari opportunità tra professioniste e professionisti nel mondo del lavoro e nella società. Un impegno che abbraccio convintamente – prosegue l’intervento del Guardasigilli – consapevole di quanto incidano fasi di vita, condizioni ambientali ed anche culturali, nel percorso professionale delle donne, sovente lasciate sole a farsi carico di famiglie, magari con bambini piccoli e genitori anziani cui prestare cura e assistenza”.

L’evento vede la partecipazione di relatori di prestigio, tra cui Margherita Cassano, prima Presidente della Corte di Cassazione, e Maria Teresa Bellucci, Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali.


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Vaccinazione obbligatoria per l’infanzia: il Tribunale di Torino respinge l’opposizione al consenso informato

Il Tribunale di Torino ha confermato la legittimità dell’obbligo vaccinale per l’ammissione alle scuole dell’infanzia, affermando che tale requisito non viola né il diritto alla salute né la privacy. La sentenza, emessa dalla prima sezione civile (n. 5037/2024), è arrivata in seguito a un ricorso presentato dai genitori di un bambino escluso dalla scuola per l’infanzia per mancata regolarità vaccinale. I genitori avevano contestato il provvedimento sostenendo che violasse il diritto costituzionale alla salute, fondato sul principio del consenso informato (art. 32 della Costituzione), oltre al diritto alla privacy.


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Niente sospensione condizionale dopo la riduzione di pena in esecuzione

In una recente pronuncia (Cass. Pen., Sez. I, n. 37899 del 15 ottobre 2024), la Corte di Cassazione ha chiarito che il giudice dell’esecuzione non può concedere la sospensione condizionale della pena a un condannato il cui processo si è concluso con giudizio abbreviato e mancata impugnazione, comportando una riduzione di un sesto della pena, ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, c.p.p.

Secondo la Corte, la sospensione condizionale è una valutazione che compete al giudice della cognizione, il quale decide sull’applicazione del beneficio in base ai criteri stabiliti dagli artt. 163 e seguenti del codice penale. In sede esecutiva, tale beneficio può essere concesso solo nei casi di concorso formale o continuazione, escludendo un’applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, c.p.p.

La riduzione di pena conseguente alla mancata impugnazione, pur operando a livello esecutivo, non modifica quindi il profilo della sospensione condizionale, in quanto la decisione sulla pena finale appartiene al giudice della cognizione e non può essere rivisitata in fase esecutiva. La Corte ha inoltre precisato che l’assenza di un’espressa previsione normativa impedisce di considerare questa riduzione di pena come influente sugli effetti penali decisi in sede di cognizione.


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CNF: l’attività professionale e l’autoformazione non sostituiscono l’obbligo di aggiornamento continuo

L’attività professionale e l’autoformazione non sostituiscono l’obbligo di aggiornamento continuo per gli avvocati, come ha ribadito il Consiglio Nazionale Forense (CNF) nella recente sentenza n. 171/2024. Il caso è emerso dal ricorso di un’avvocata sospesa per due mesi dal Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) di Milano per mancato adempimento dell’obbligo formativo.

L’obbligo di formazione e la giurisprudenza

Il CNF ha chiarito che l’obbligo di formazione non può essere surrogato dall’autoformazione né attenuato dagli impegni lavorativi, richiamando anche la giurisprudenza della Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 9547/2021) e precedenti interni (CNF, sentenza n. 204/2017), secondo i quali l’intensa attività professionale non esime dal dovere di aggiornamento.

Le circostanze di stato di necessità

Il CNF ha ricordato che solo situazioni di grave necessità, come una malattia grave personale o di un familiare, possono esonerare l’avvocato dall’obbligo formativo senza incorrere in sanzioni disciplinari. In tali casi, la mancanza di richiesta preventiva di esonero non influisce sulla valutazione, costituendo comunque una scriminante, secondo l’articolo 15 del Regolamento CNF n. 6/2014.

Una sanzione ridotta

Pur confermando la violazione dell’obbligo, il CNF ha ritenuto adeguato ridurre la sanzione originaria di sospensione a un avvertimento. Il Consiglio ha infatti accolto il ricorso della professionista, valutando che le circostanze del caso non giustificassero un aggravamento della misura disciplinare.


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Concordato preventivo, per Cassa Forense l’opzione è neutra, si paga sul reddito effettivo

I Presidenti delle Casse di previdenza private aderenti ad AdEPP confermano che il concordato previsto dal DLg 13/2024 non produce alcun effetto in ordine agli obblighi contributivi cui sono assoggettati i propri iscritti.

I Presidenti sottolineano che la disposizione di cui l’Art. 30 del citato Decreto, se applicata alle Casse, si rivelerebbe lesiva dell’autonomia gestionale, organizzativa e contabile di cui all’art.2, comma 1, del D.Lgs 509/94 anche in virtù della circostanza che la gestione economico-finanziaria deve assicurare l’equilibrio di lungo periodo mediante l’adozione di provvedimenti coerenti con gli equilibri di bilancio, come anche sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 7/2017.

I Presidenti, anche sulla base della giurisprudenza consolidatasi nel corso degli anni, “ritengono non applicabile alle Casse la disposizione contenuta nell’Art.30 del Decreto 13/2024, fermo restando la possibilità per ogni singolo Ente di assumere una propria e autonoma decisione in merito”.

In particolare, secondo un comunicato di Cassa Forense, “gli avvocati che decidono di aderire al concordato preventivo biennale continuano a versare la contribuzione previdenziale sulla base del reddito effettivamente prodotto”.


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Maxi-sanzione a LinkedIn: 310 milioni di euro per violazioni del GDPR

Dublino – Dopo sei anni di indagini, la Commissione irlandese per la protezione dei dati (DPC) ha imposto una multa record di 310 milioni di euro a LinkedIn, piattaforma social del lavoro di proprietà di Microsoft, per aver violato il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR). Al centro della sanzione, l’acquisizione impropria del consenso degli utenti e il mancato rispetto dei principi di liceità, equità e trasparenza nel trattamento dei dati personali.

Le accuse della DPC e la sanzione

Secondo il garante irlandese, LinkedIn avrebbe ottenuto il consenso dei suoi utenti per l’utilizzo dei dati “non liberamente”, né “in modo sufficientemente chiaro, specifico o univoco”. L’autorità ha quindi ordinato a LinkedIn di adeguare immediatamente le proprie pratiche per allinearsi agli standard europei in materia di privacy.

La questione trae origine da una denuncia presentata nel 2018 da “La Quadrature du Net”, associazione francese a difesa dei diritti digitali. Oltre a LinkedIn, l’organizzazione aveva segnalato alla Commissione nazionale francese per l’informatica e la libertà (CNIL) altre quattro aziende tecnologiche – Google, Apple, Facebook e Amazon – accusandole di gestire i dati personali degli utenti senza un consenso adeguato.

Le violazioni di LinkedIn

Secondo la DPC, LinkedIn non avrebbe rispettato le fondamenta del GDPR, che prevedono che il trattamento dei dati personali si basi su basi giuridiche solide e conformi, come il consenso esplicito, l’adempimento di un contratto, o un legittimo interesse. La raccolta del consenso, secondo il regolamento, deve essere “libera, specifica, informata e inequivocabile”.

Graham Doyle, vicecommissario della DPC, ha dichiarato: “La liceità del trattamento è un aspetto fondamentale della normativa sulla protezione dei dati. Il trattamento senza un’adeguata base giuridica costituisce una chiara e grave violazione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali.”

Equità e trasparenza: i principi disattesi

La DPC ha inoltre evidenziato come l’equità e la trasparenza siano principi essenziali del GDPR. L’equità richiede che il trattamento dei dati non sia dannoso, discriminatorio o fuorviante, evitando di limitare l’autonomia degli interessati sui propri dati e tutelando il loro diritto alla privacy. La trasparenza, inoltre, conferisce agli utenti il diritto di comprendere l’uso dei propri dati e di esercitare pienamente i loro diritti.

La replica di LinkedIn

In risposta alla sanzione, LinkedIn ha contestato la decisione, sostenendo di essere conforme al GDPR, ma si è anche detta pronta a collaborare per migliorare le proprie pratiche pubblicitarie alla luce della pronuncia della DPC.


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Accesso all’account mail dopo la fine del rapporto di lavoro: multa per l’azienda

Il Garante per la protezione dei dati personali ha emesso recentemente una sanzione da 80.000 euro contro una S.p.A. per l’uso improprio del software di backup Mail Store, utilizzato per conservare le e-mail di un ex collaboratore oltre il termine del rapporto di lavoro. La decisione ha acceso i riflettori sul delicato equilibrio tra innovazione tecnologica e il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori.

Il caso ha origine dal reclamo di un ex collaboratore della società, che ha denunciato l’azienda per aver mantenuto l’accesso al proprio account di posta elettronica anche dopo la fine del contratto. Selectra ha giustificato la sua azione con motivi di sicurezza e tutela giudiziaria, ma il Garante ha evidenziato come tale condotta violi il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) e il principio di minimizzazione dei dati, stabilito per garantire che il trattamento sia proporzionato e limitato alla reale necessità.

Una violazione multipla del GDPR

Secondo il Garante, la società ha agito oltre i limiti di legge mantenendo le comunicazioni per tre anni e accedendo sistematicamente ai dati senza un’autorizzazione adeguata. Il GDPR stabilisce infatti che il trattamento dei dati personali debba essere fondato su una solida base giuridica, proporzionato alla finalità dichiarata e soggetto a limiti di conservazione temporale.

In questo contesto, il controllo dei lavoratori mediante il software Mail Store è stato giudicato illecito, poiché non rispettava le normative italiane sul controllo a distanza dei lavoratori, come previsto dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori. Inoltre, il mancato accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro ha aggravato la posizione della società, che ha agito in mancanza delle dovute garanzie procedurali.

La questione della trasparenza

Una delle critiche principali mosse dal Garante è stata la mancanza di chiarezza nell’informativa fornita ai dipendenti, giudicata incompleta e non trasparente. Il GDPR richiede infatti che i lavoratori siano informati dettagliatamente su come e per quanto tempo i loro dati verranno trattati. Nel caso in esame, queste informazioni sono state omesse, privando il lavoratore del diritto di conoscere la sorte dei propri dati e alimentando sospetti di sorveglianza abusiva.

Innovazione tecnologica e rispetto dei diritti

Il provvedimento del Garante solleva questioni di importanza crescente: fino a che punto le aziende possono spingersi nel monitoraggio tecnologico dei lavoratori senza ledere i diritti costituzionali di riservatezza e dignità? Il Garante ha ribadito che, anche nell’era digitale, la tutela dei lavoratori non può essere compromessa da strumenti tecnologici pervasivi.


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Roma, 28 ottobre 2024 – Il Ministero della Giustizia presenta i risultati del progetto unitario TASK FORCE per la diffusione dell’Ufficio del Processo e l’implementazione negli Uffici giudiziari di modelli operativi innovativi per lo smaltimento dell’arretrato, realizzato in collaborazione con 56 Atenei e 26 Distretti di Corte d’Appello. I dati saranno illustrati nel corso della giornata di studi dal titolo “Atenei e Uffici Giudiziari: una task force per il futuro” che si terrà a Roma mercoledì 6 novembre dalle ore 10 presso Nazionale Spazio Eventi (via Palermo 10).

Il progetto è stato ideato in attuazione del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020, coordinato dalla Direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione, Dipartimento per l’innovazione tecnologica della giustizia.

Intervengono: Sen. Andrea Ostellari, Sottosegretario del Ministero della Giustizia; Ettore Sala, Capo Dipartimento per l’innovazione tecnologica per la giustizia; Gaetano Campo, Capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi; Gabriella De Stradis, Direttore generale della Direzione per il coordinamento delle politiche di coesione; le Università e gli Uffici giudiziari coinvolti nel progetto.


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Nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso un avviso di accertamento per il 2007, e il contribuente C.D. aveva presentato appello dopo un parziale rigetto da parte della C.T.P. di Roma. La C.T.R. aveva poi riformato la sentenza di primo grado, ma ora, a causa della notifica non valida, la sentenza di primo grado risulta definitiva.


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