Euro digitale, sfida alle banche: costi in aumento e ricavi a rischio

L’Europa accelera sul fronte dell’euro digitale, ma le banche non nascondono le loro preoccupazioni. La nuova valuta, che la Banca centrale europea si prepara a trasformare dal 2025 dalla fase di studio a quella operativa, apre scenari inediti nel sistema dei pagamenti. Accanto alle opportunità, emergono rischi concreti: costi maggiori per infrastrutture tecnologiche, calo dei ricavi da commissioni e possibili fughe di liquidità dai conti bancari tradizionali.

Il tema sarà al centro della prima riunione autunnale dell’esecutivo Abi, il 17 settembre, con la partecipazione di Piero Cipollone, membro del board della Bce. L’Associazione bancaria italiana chiede un supporto pubblico agli investimenti, sulla falsariga di quanto avvenuto con l’introduzione dell’euro cartaceo.

Un nuovo ecosistema dei pagamenti

L’euro digitale si inserisce in un contesto già in fermento, con iniziative europee come European Payments Alliance (che unisce circuiti nazionali come Bancomat, Bizum e Mb Way) e Wero, operativo in Germania, Francia e Belgio. Questi sistemi puntano a ridurre la dipendenza da colossi americani come Visa e Mastercard. Ma la coesistenza con la moneta digitale della Bce non è scontata: la pressione sui margini delle soluzioni private potrebbe diventare insostenibile.

Pagamenti offline e limiti di detenzione

Tra i servizi più delicati che dovrà garantire l’euro digitale figura la possibilità di effettuare transazioni offline, anche in assenza di connessione. Un obiettivo che richiederà investimenti tecnologici imponenti. Per evitare che la nuova valuta diventi una riserva di valore alternativa ai depositi bancari, la Bce studia l’introduzione di soglie massime: si ipotizza un tetto tra 3 e 4mila euro per singolo utente. Le banche chiedono di abbassarlo ulteriormente, introducendo anche limiti per le singole transazioni.

Il nodo della sostenibilità

La sfida è duplice: da un lato consolidare un sistema di pagamenti sovrano e competitivo, dall’altro garantire che l’introduzione dell’euro digitale non destabilizzi la redditività e il ruolo degli istituti di credito.


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Il paradosso italiano: aziende a caccia di talenti digitali, università ferme al palo

L’Italia continua a inseguire l’Europa sul terreno delle competenze digitali. Secondo la Commissione europea, appena il 45,8% della popolazione possiede competenze di base, un dato che fotografa un Paese dove la cultura digitale fatica a radicarsi. Ma il problema più grave riguarda i profili più strategici: i laureati nelle discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), cioè quelli che il mercato del lavoro richiede con maggiore urgenza e che risultano cruciali per la competitività futura.

I dati Desi 2024 sono impietosi: solo l’1,5% dei laureati italiani appartiene all’area Ict, contro il 4,5% della media Ue. Un divario che non è soltanto statistico, ma rappresenta un vero e proprio freno alla crescita e alla capacità innovativa del Paese.

La domanda cresce, l’offerta ristagna

L’Osservatorio sulle Competenze Digitali registra che tra il 2019 e il 2022 la domanda di professionisti Ict in Italia è triplicata, passando da 20mila a 60mila unità. Ma dal 2023 il trend si è stabilizzato, con un’unica eccezione: l’intelligenza artificiale, che continua a trainare nuove richieste.

A fronte di questa domanda, il sistema formativo non riesce a rispondere. Unioncamere e Ministero del Lavoro stimano che, tra il 2025 e il 2029, serviranno ogni anno tra 79mila e 87mila laureati Stem, con un fabbisogno particolarmente elevato per l’ingegneria industriale ed elettronica (fino a 43mila unità l’anno). L’offerta, però, resta molto più bassa: mancheranno in media 7-10mila ingegneri e 3-5mila laureati scientifici ogni anno.

Il nodo della fuga di cervelli

A complicare il quadro interviene l’emigrazione dei giovani più qualificati. La percentuale di laureati italiani che scelgono di andare all’estero è passata dal 28,5% del 2012 al 45,7% nel 2021. Un’emorragia che priva il Paese delle risorse più preziose proprio nel momento in cui servirebbero di più.

Una strategia nazionale per colmare il gap

Per invertire la rotta non bastano singoli interventi. Occorre una strategia integrata:

  • rafforzare l’orientamento scolastico, per avvicinare gli studenti alle discipline Stem già dalle superiori;

  • superare gli stereotipi che rendono queste carriere poco attrattive;

  • aggiornare costantemente i corsi universitari;

  • creare un raccordo più stretto tra atenei e imprese, con tirocini, esperienze pratiche e curricula progettati insieme al mondo produttivo.

Senza una svolta radicale, il rischio è che l’Italia consolidi il proprio ritardo strutturale, pagando un prezzo altissimo in termini di crescita, innovazione e coesione sociale.


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OpenAI scommette 300 miliardi sul cloud: Oracle diventa regina dell’AI

MILANO – Un contratto che ha fatto tremare Wall Street. In un solo giorno le azioni Oracle sono balzate del 40%, e il merito – ancora una volta – porta il nome di Sam Altman. La sua OpenAI, creatrice di ChatGPT, ha infatti siglato con la società texana un accordo da capogiro: 300 miliardi di dollari complessivi in cinque anni, circa 60 miliardi l’anno, per acquistare potenza di calcolo e infrastrutture cloud.

Un’intesa senza precedenti, legata al progetto Stargate, che prevede nuovi data center alimentati da 4,5 gigawatt di energia, equivalenti al consumo di milioni di abitazioni americane. L’obiettivo è chiaro: garantire ad OpenAI la capacità necessaria per sostenere l’espansione dei propri modelli linguistici e non dipendere esclusivamente da Microsoft Azure, partner storico ma non più unico.

La strategia “asset-heavy” di Altman

La mossa riflette una precisa filosofia: investire direttamente in chip, server e contratti pluriennali per controllare l’intera catena del valore dell’intelligenza artificiale. È la risposta a una domanda che cresce più velocemente dell’offerta, e che rischia di mettere in difficoltà persino i giganti del settore.

Tuttavia, la sproporzione tra l’accordo e i conti di OpenAI è evidente. L’azienda ha dichiarato ricavi annui intorno ai 10 miliardi di dollari, con stime a 12,7 miliardi entro fine anno. Una cifra imponente, ma pur sempre cinque volte inferiore agli impegni presi con Oracle.

Rischi e opportunità

Gli analisti parlano di un “all in”: una puntata gigantesca per consolidare la leadership sui modelli generativi, ma anche un azzardo che espone a pressioni finanziarie enormi. Se la monetizzazione delle applicazioni di AI manterrà le promesse, Altman potrà dire di aver blindato il futuro della sua azienda. In caso contrario, la scommessa rischia di trasformarsi in un boomerang.

Oracle, da software a colosso del cloud

Per Oracle, invece, l’accordo è già un successo. Fondata da Larry Ellison come regina dei database, l’azienda si riposiziona oggi come protagonista del cloud per l’intelligenza artificiale, accanto a AWS, Microsoft e Google. Il balzo in borsa ne è la prova: il mercato ha colto il segnale che, dopo i chip, il vero tesoro dell’AI è l’infrastruttura che la rende scalabile.

Il nuovo eldorado

I grandi modelli linguistici non vivono più soltanto dei semiconduttori Nvidia, ma di data center capaci di funzionare come vere centrali elettriche digitali. E Oracle, con l’ombrello di OpenAI, ha deciso di giocare da protagonista.


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Il regno americano della nuvola digitale

Quando si parla di trimestrali delle big tech, la prima domanda è sempre la stessa: come sta andando il cloud? La risposta, positiva o negativa, muove i mercati come poche altre variabili. Non è un caso: la nuvola informatica è ormai la spina dorsale dell’intelligenza artificiale, il settore più caldo della tecnologia.

Eppure, nonostante i proclami di autonomia digitale, il potere rimane saldamente concentrato nelle mani americane. Secondo Statista, nel secondo trimestre 2025 Amazon Web Services domina con il 30% delle quote, seguita da Microsoft Azure al 20% e Google Cloud al 13%. Insieme, i tre colossi Usa detengono il 63% del mercato.

Amazon, il gigante della nuvola

Il primato spetta ad Amazon, che dal cloud trae la sua principale fonte di profitto: 21,7 miliardi di dollari di utile operativo nei primi sei mesi del 2025, più della metà del risultato complessivo. La divisione AWS, nata per sostenere l’enorme infrastruttura dell’e-commerce, si è trasformata in un servizio globale che oggi vale più della stessa vendita online.

Microsoft e la forza dei software

Diversa la strategia di Redmond. Microsoft ha sfruttato la capillare diffusione dei propri programmi nelle imprese per spingere l’adozione di Azure. I numeri premiano la scelta: solo nell’ultimo trimestre l’intelligent cloud ha generato 12,14 miliardi di utile operativo.

Google rincorre, Oracle risale

Google Cloud resta più distante, ma in crescita costante: dal 9% del 2019 è salita al 13,5% nel 2025, con utili trimestrali per 2,8 miliardi. Intanto, Oracle guadagna terreno al 3%, mentre i player cinesi Alibaba e Tencent perdono peso.

L’Europa resta ai margini

Il Vecchio Continente prova a rispondere con progetti come Galax, ma per ora l’impatto è limitato. L’egemonia americana appare inattaccabile, sostenuta da investimenti faraonici. Morgan Stanley stima che nei prossimi tre anni i colossi globali spenderanno oltre 3mila miliardi di dollari in infrastrutture cloud e data center. Solo Amazon, Microsoft, Google e Meta impegneranno nel 2025 più di 400 miliardi.

Una corsa che riguarda anche la difesa

Il cloud e l’intelligenza artificiale non alimentano soltanto la trasformazione digitale delle aziende, ma anche quella degli eserciti. Il mercato dell’AI militare, valutato 13,24 miliardi di dollari nel 2024, potrebbe arrivare a 35,54 miliardi nel 2032.


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Proprietà industriale, in arrivo 32 milioni per le imprese

Un nuovo pacchetto di incentivi per valorizzare brevetti, disegni e marchi italiani è in arrivo. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) ha annunciato l’apertura imminente dei bandi relativi alle misure agevolative dedicate alla proprietà industriale.

Le risorse complessive stanziate per il 2025 ammontano a 32 milioni di euro: 20 milioni destinati a Brevetti+, 10 milioni alla misura Disegni e 2 milioni a Marchi+. Gli avvisi ufficiali, predisposti dalla direzione generale competente, saranno pubblicati in Gazzetta Ufficiale e sul sito istituzionale del Ministero entro 30 giorni dal decreto direttoriale del 6 agosto 2025.

Brevetti+

L’ultima edizione del bando Brevetti+ aveva previsto contributi a favore di micro, piccole e medie imprese per rafforzare la propria strategia brevettuale, sostenendo lo sviluppo di servizi di valorizzazione economica di un’invenzione. L’agevolazione copriva fino all’80% delle spese ammissibili (con tetto massimo di 140mila euro), elevata all’85% per le imprese in possesso della certificazione di parità di genere e fino al 100% nei casi di partecipazione di enti di ricerca.

Disegni

La misura Disegni sosteneva invece le Pmi nella valorizzazione di modelli e disegni registrati. L’agevolazione consisteva in contributi in conto capitale fino all’80% delle spese, entro un massimo di 60mila euro, con la possibilità di arrivare all’85% per le imprese certificate per la parità di genere.

Marchi+

Infine, Marchi+ puntava a favorire la registrazione e la tutela dei marchi all’estero, attraverso contributi per tasse di deposito, registrazione e servizi specialistici. Erano previste due linee di intervento: una per marchi europei e l’altra per marchi internazionali (tramite l’Ompi). Anche qui il sostegno variava dall’80% delle spese fino a un massimo di 6mila euro per marchio, con percentuali più alte (85% e fino al 95%) per le imprese in possesso della certificazione di parità di genere.


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La Generative AI non decolla in azienda: solo il 5% dei progetti porta risultati

Per mesi la narrativa dominante ha descritto l’intelligenza artificiale generativa come la chiave di volta per la competitività delle imprese. Ma i dati raccontano una realtà diversa. Secondo il report The Generative Use of AI in Business 2025, pubblicato dal MIT Media Lab, solo il 5% dei progetti pilota lanciati dalle grandi aziende con strumenti di Gen AI riesce a generare un impatto economico misurabile. La maggioranza – il 95% – rimane bloccata nella fase sperimentale, senza produrre benefici concreti né ritorni sui margini operativi.

Il problema principale? I modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) faticano a comprendere il contesto e ad adattarsi ai processi organizzativi. Non sanno integrare in modo efficace i feedback ricevuti, non migliorano con il tempo e spesso risultano estranei ai sistemi aziendali già in uso. Ne deriva un divario tra il potenziale della tecnologia e la sua effettiva applicazione.

«Pesano la carenza di competenze interne, le difficoltà di integrazione e infrastrutture ancora non adeguate», spiega Alessandro Piva, direttore dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano. Un ostacolo che si aggiunge al fenomeno della shadow AI: l’uso spontaneo e non governato di strumenti generativi da parte dei dipendenti, spesso attraverso account gratuiti o personali, con il rischio di esposizione di dati sensibili e problemi di conformità normativa.

Il MIT non è il solo ad accendere un faro critico. A giugno, Apple ha diffuso uno studio dal titolo eloquente, The Illusion of Thinking, che mette in discussione le capacità dei cosiddetti modelli “reasoning”, progettati per simulare processi di ragionamento complesso. Secondo i ricercatori, questi strumenti mostrano limiti evidenti man mano che i compiti si fanno più articolati, e le metriche usate per valutarli risultano viziate dal fatto che i dataset di addestramento contengono già le risposte dei test.

Dietro le promesse di rivoluzione tecnologica, dunque, emergono dubbi e cautele. Gli LLM hanno dimostrato straordinarie capacità di generazione di testo e di supporto alla produttività individuale, ma restano strumenti statistici più che vere intelligenze capaci di ragionare. Ecco perché molti progetti aziendali falliscono: mancano ancora una piena comprensione del contesto, una reale capacità di apprendimento dinamico e, soprattutto, le competenze organizzative per gestirne l’impatto.

Il mito dell’AI come scorciatoia verso l’innovazione è così costretto a fare i conti con la realtà: una tecnologia promettente, ma che richiede tempo, investimenti in formazione e infrastrutture adeguate per esprimere davvero il suo potenziale trasformativo.


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Candidature dalla Ue alle Regioni: il corto circuito della sinistra

La partita delle candidature della sinistra alle prossime elezioni regionali si è chiusa, ma lascia dietro di sé più interrogativi che certezze. Sul piano amministrativo i profili in campo non mancano: tre candidati vantano solide esperienze di governo locale e altri due percorsi professionali di rilievo. Ma sul piano democratico l’operazione appare fragile, con segnali che destano preoccupazione.

Il primo riguarda la scarsità di classe dirigente interna. Due partiti che insieme contano oltre nove milioni di elettori hanno dovuto pescare da Strasburgo ben tre candidati, tutti eurodeputati eletti appena un anno fa. Una scelta che mette in luce la ristrettezza del bacino politico disponibile e alimenta l’idea di partiti sempre più oligarchici, incapaci di far emergere leadership diffuse.

Il secondo segnale critico è il meccanismo del “trasferimento” dall’Europa alle Regioni. Non una scelta maturata nei territori, ma un comando deciso dai segretari nazionali, che trattano candidature e carriere come pedine su una scacchiera. Un modello verticistico che svuota il ruolo dei militanti e accentua la distanza tra Paese reale e Paese legale, radicando lo scetticismo diffuso verso la politica.

Infine, il terzo elemento problematico riguarda la prospettiva europea. Davvero la politica di tre regioni italiane può valere più della presenza nell’assemblea parlamentare continentale? In un momento in cui l’Unione europea dovrebbe rafforzare la propria voce, il segnale dato dai due partiti della coalizione appare contraddittorio: si sottraggono risorse qualificate al dibattito comunitario per inseguire la vittoria in competizioni locali.

Le considerazioni sulle candidature si intrecciano così con una riflessione più ampia sul bilancio dei 55 anni di regionalismo in Italia. Nati come enti legislativi secondo la visione costituzionale, le Regioni si sono progressivamente trasformate in grandi corpi amministrativi, con la sanità a drenare tre quarti della spesa e una presidenzializzazione che ha personalizzato la competizione politica. Le promesse di autonomia si sono spesso ridotte a slogan o a differenziazioni minime, mentre si è perso il legame con la missione originaria: bilanciare i poteri dello Stato e dare forza legislativa ai territori.

Alla luce di queste dinamiche, la vicenda delle candidature non è solo un episodio elettorale. È lo specchio di una crisi strutturale della rappresentanza politica e della democrazia interna ai partiti, che si riflette anche nell’assetto regionale del Paese. Forse è il momento di una verifica complessiva, per misurare punti di forza e debolezza delle Regioni e ridefinirne il ruolo, prima che il divario tra istituzioni e cittadini diventi irrimediabile.


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Caso Almasri: Bartolozzi indagata, difesa affidata a Bongiorno

Tre giorni convulsi, dal 19 al 21 gennaio 2025, hanno segnato uno dei dossier più delicati per il governo italiano: l’arresto a Torino del generale libico Osama Najem Almasri, capo della milizia Rada, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, e il suo immediato rimpatrio su un volo di Stato.

Secondo la relazione del deputato Federico Gianassi (Pd), vicepresidente della giunta per le autorizzazioni a procedere, in quelle ore il governo riunì ministri, sottosegretari, vertici delle forze di polizia e servizi di sicurezza per valutare rischi, implicazioni e strategie. Il tutto in un contesto esplosivo: da un lato le pressioni della Corte penale internazionale, che contestava ad Almasri 34 omicidi e 22 violenze sessuali documentate; dall’altro i timori di ritorsioni contro cittadini e interessi italiani in Libia, compresi gli impianti dell’Eni a Mellitah.

Il caso ha aperto una frattura anche sul piano politico e giudiziario. La Procura di Roma ha infatti indagato il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il Guardasigilli Carlo Nordio. Ma a catalizzare l’attenzione è oggi la posizione di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, finita sotto inchiesta per presunte false dichiarazioni rese al Tribunale dei ministri.

L’ex magistrata, già presidente del Tribunale di Gela, ha reagito senza clamori: ha continuato il lavoro a via Arenula, dichiarandosi «tranquilla» e preparandosi alla difesa con l’avvocata Giulia Bongiorno, la stessa legale che assiste l’intera compagine di governo coinvolta nel procedimento.

La maggioranza parlamentare appare intenzionata a blindare la dirigente, convinta che non sussista un «reato autonomo» e pronta a sollevare, se necessario, un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale. Ma in giunta per le autorizzazioni non mancano le voci critiche: Gianassi ha parlato di «ennesima forzatura», mentre Riccardo Magi (+Europa) ha avvertito contro «salvacondotti» mascherati da tecnicismi.

Il nodo politico-giuridico resta aperto: il rimpatrio di Almasri, presentato come una necessità di sicurezza nazionale, rischia di trasformarsi in un caso di scontro istituzionale e in un banco di prova per la tenuta dell’esecutivo, tra rapporti internazionali, equilibri interni e responsabilità personali dei protagonisti.


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Professionisti nel mirino: il Fisco può pignorare direttamente le parcelle

Un nuovo meccanismo di riscossione sta già producendo effetti concreti in alcune regioni italiane. Si tratta di un protocollo operativo che vede lavorare insieme Agenzia delle Entrate e Agenzia della Riscossione, con un obiettivo preciso: intercettare i crediti vantati dai professionisti, ordinando direttamente ai loro clienti di pagare le parcelle all’Erario.

Il sistema si basa sul cosiddetto pignoramento presso terzi, già noto nel settore privato, ma che ora viene applicato con più incisività anche nei rapporti tra professionisti e Pubblica amministrazione. In pratica, se un avvocato, un ingegnere o un commercialista vanta un compenso nei confronti di un ente pubblico, quest’ultimo può essere obbligato a versare l’importo non al professionista ma direttamente all’Agenzia della Riscossione, a copertura dei debiti fiscali accumulati.

A differenza di quanto accade con gli stipendi dei lavoratori dipendenti – che godono di limiti precisi al pignoramento (generalmente un quinto della retribuzione) – per le parcelle professionali non sono previste soglie di salvaguardia: l’importo può essere trattenuto integralmente. Una misura che, secondo gli esperti, rischia di avere effetti dirompenti sul mercato dei servizi professionali.

Il protocollo si fonda sull’incrocio dei dati contenuti nella fatturazione elettronica con le posizioni debitorie registrate a ruolo. In questo modo l’Agenzia riesce a individuare rapidamente chi deve ancora incassare somme dalla propria attività e, se risultano debiti fiscali, ad attivare immediatamente la procedura di pignoramento.

Criticità non mancano. Da un lato, il rischio di scoraggiare enti e aziende a rivolgersi a professionisti che hanno posizioni debitorie aperte, per non essere coinvolti in procedimenti di pignoramento; dall’altro, l’assenza di tutele minime analoghe a quelle previste per i lavoratori dipendenti può mettere in difficoltà soprattutto i professionisti più giovani o economicamente fragili.

Sul piano giuridico, si aprono interrogativi anche rispetto al rispetto del GDPR e al principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione: l’incrocio massivo dei dati della fatturazione elettronica e la disparità di trattamento tra dipendenti e liberi professionisti pongono infatti questioni delicate in termini di privacy e diritti fondamentali.


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Cyber-rischi per i minori: l’asilo multato per aver caricato foto dei piccoli sul web

La tutela della dignità e della riservatezza dei minori non può essere sacrificata a logiche promozionali. È questo il principio ribadito dal Garante per la protezione dei dati personali, che ha colpito con una sanzione di 10mila euro un asilo nido responsabile di aver diffuso online le immagini dei propri piccoli ospiti, di età compresa tra i 3 e i 36 mesi.

Il provvedimento è arrivato dopo la segnalazione di un genitore che, per iscrivere la figlia, si era visto costretto a firmare un consenso all’utilizzo delle fotografie. Lo stesso genitore aveva denunciato la presenza di un impianto di videosorveglianza attivo anche durante le attività didattiche, con inevitabile ripresa di bambini, educatori e persino visitatori.

Durante l’istruttoria, l’Autorità ha accertato che sul sito web dell’asilo e persino sulla scheda di Google Maps comparivano numerose immagini dei piccoli in momenti estremamente delicati: dal sonno al cambio del pannolino, dal pranzo in mensa ai massaggi infantili. Fotografie che, oltre a ledere la sfera privata, esponevano i minori al rischio di utilizzi distorti da parte di terzi.

Il Garante ha sottolineato che il consenso dei genitori non poteva giustificare tali trattamenti, in quanto condizionato dalla necessità di iscrivere i figli alla struttura e dunque non libero né realmente consapevole. Inoltre, la pubblicazione di immagini intime per fini promozionali si scontra con il superiore interesse dei bambini a restare protetti da esposizioni pubbliche ingiustificate.

Pesanti rilievi sono stati mossi anche al sistema di videosorveglianza, ritenuto non conforme né alle norme sul lavoro né alla disciplina privacy. L’asilo è stato quindi obbligato a cancellare immediatamente tutte le immagini raccolte e diffuse illecitamente.


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